Un giovane giornalista riluttante e già disilluso sul proprio mestiere viene inviato nella valle di Susa in rivolta contro il Tav. Dietro alle barricate della più anomala protesta popolare d’Italia scoprirà un oscuro retroterra di misteri irrisolti che ancora inquinano un orizzonte di tensioni. E’ il tema di “Una valle in fondo al vento”, romanzo che Giorgio Cattaneo – esponente del network creativo torinese “Libre” – dedica alla lunga controversia, tuttora in corso, sull’alta velocità ferroviaria Torino-Lione. Sullo sfondo dell’opaco business delle grandi opere, fra strani depistaggi e attentati fantasma, emerge la voce corale di una comunità esasperata dagli abusi subiti e pienamente consapevole del respiro storico della propria terra, eterno crocevia europeo fin dall’antichità. Tra le ombre inquietanti di vicende frettolosamente archiviate, il protagonista scopre che, proprio come in guerra, la prima vittima della cronaca è sempre la verità.

Se il movimento No-Tav affonda le sue radici in un territorio storicamente “ribelle”, che ha vissuto fino in fondo i passaggi più critici della storia del ‘900, la rivolta alpina contro l’alta velocità si è imposta nel 2005 grazie alla quasi-insurrezione popolare guidata dai sindaci in fascia tricolore: una profetica anticipazione delle nuove battaglie civili all’epoca della grande crisi, con in prima fila le comunità territoriali che si sentono tradite dalle istituzioni e completamente abbandonate da una politica che appare ridotta a puro affarismo, al servizio dei signori dell’economia. Il romanzo – il primo ad affrontare la vicenda della valle di Susa – finisce per imbattersi in un’umanità inattesa, fatta di vecchi partigiani rivoluzionari e sindacalisti radicali, preti operai e pacifisti ante litteram, fino al buco nero degli “anni di piombo” e alla successiva stagione dei sabotaggi dinamitardi che negli anni ’90 scossero la valle, scatenando i media sulle tracce di fantomatici eco-terroristi, tra false piste e clamorosi esiti giudiziari.

Attraverso il respiro di una narrazione plurale fatta di incontri, sorprese e rivelazioni spiazzanti, “Una valle in fondo al vento” prova a rileggere anche in chiave poetica i tormenti collettivi di un lembo d’Italia divenuto famoso suo malgrado, nonostante una lunga e ostinata interdizione mediatica. Tracciando un inedito profilo del corridoio alpino – terra di conquista fin dai tempi di Cesare, Barbarossa e Carlo Magno – oltre alle suggestioni della storia e quelle dell’attualità il romanzo propone una riflessione su quel che resta della sovranità dei territori, percepiti come ultima frontiera civile a difesa dei diritti democratici di cittadinanza. La valle di Susa come scomodo paradigma: in un mondo che sembra “impazzito”, proprio le grandi calamità sociali riescono a suscitare una sorta di risveglio collettivo, mobilitando energie sepolte. Per dirla con Erri De Luca, ospite dei valsusini nel 2010: «L’epoca dei feudatari è finita, qui ci sono cittadini».

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17 settembre 2012

Una valle in fondo al vento
recensione di Claudio Ughetto

Vorrei riuscire a scrivere di questo romanzo senza dilungarmi sulla questione del TAV. Del treno ad alta velocità (o capacità) s’è parlato e scritto e la mia posizione contro questo progetto è chiara. D’altronde le ragioni di chi è contro sono esorbitanti rispetto a quelle di chi vuole imporcelo.

Un romanzo dovrebbe innanzitutto attenersi a dei parametri letterari, perché se in esso si prende una posizione troppo precisa, a favore o contro un argomento, allora siamo di fronte a un’opera militante che col romanzo (genere letterario che si diffonde con l’avvento del relativismo) ha poco a che vedere. È palese che all’amico Giorgio Cattaneo il TAV non piace, come non piace a me e alle persone che considerano la Valle di Susa qualcosa in più di una zona di passaggio; tuttavia, se il suo romanzo si limitasse ad esprimere un dissenso, tale dissenso potrebbe esprimersi in un ennesimo saggio sull’argomento, o in uno degli innumerevoli instant-book che occupano gli scaffali delle librerie. Un romanzo dovrebbe durare più di un istante, nonostante le attuali esigenze del mercato. Dovrebbe muoversi tra l’attualità e la storia, appassionarci con personaggi credibili e con le loro vicende individuali, con relazioni imprevedibili; dovrebbe sorprenderci, immergerci nella complessità del mondo, avvicinarci persino i soggetti più odiosi. Un romanzo non è un proclama. Conosco Giorgio Cattaneo da oltre 20 anni e so che è soprattutto un poeta la cui poesia può esprimersi con i generi e gli strumenti più diversi, dall’intuizione di poche righe alla poesia-racconto, fino a video e documentari evocativi. E se per alcuni aspetti questa poesia si alimenta d’intenti esclusivi, di essenzialità affacciata su quella che una volta chiamavamo ricerca della Verità – perché ci deve essere qualcosa oltre l’apparenza del mondo (di qui l’interesse verso lo gnosticismo, soprattutto quello Cataro, del quale il poco che è rimasto ci suggestiona adesso più d’un tempo) – per altri i suoi meccanismi espressivi e narrativi non possono ignorare un immaginario che ci tocca un po’ tutti, rielaborato soggettivamente in una prosa che in Una valle in fondo al vento riesce quasi sempre nei suoi intenti.

I Catari (che sarebbe meglio chiamare i Buoni uomini) Bob Dylan e Jimi Hendrix (uniti dalla celebre cover di All along the watchtower, canzone dylaniana che il chitarrista afroamericano rese immortale, stravolgendola d’infuocato rumore), Pablo Neruda, Primo Levi e Dante, abilmente citati e shakerati dal mio amico in un romanzo che ci parla di una valle che nei secoli e nei millenni ha visto il meglio e il peggio della storia mondiale: da Annibale all’occupazione nazista. C’è da stupirsi se proprio di lì vogliono far passare il treno della globalizzazione, da Kiev a Lisbona, in un perenne scenario di guerra e trasformazione di materiali? Però nulla è eterno quando si parla di produzione e materiali, checché ne pensassero i futuristi, il delirio sviluppista dovrà fare i conti con la minaccia entropia. Per dirla con Lévi-Strauss gli ultimi rischieranno di tornare ad essere i primi, gli sconfitti dal pestasassi della storia si reincarneranno simbolicamente nei nuovi eretici, proprio in una valle che d’eretici ne ha visti fuggire a iosa. Fuggire, ma anche radicarsi per condividere nuove forme di consapevolezza con le persone del luogo e quelle che vi giungono per disperazione, o esorcizzare “questa gran paura di volerci bene”. Lo pensa la soréla argentina della ragazza venuta a morire nelle prigioni torinesi. Non manca di speranza, nonostante le disillusioni, Don Bruno, il prete spretato che anni prima è giunto nella valle per lavorarci e far lavorare, non per considerarla una baldracca nella quale far scorrere un treno avanti e indietro, ad Alta Velocità.

Dante è il poeta. Dante è il giornalista riluttante, la voce narrante supportata, smentita e tradita da altre voci che s’affacciano qua e là nel romanzo, come un coro greco che nella tragedia dà consapevolezza all’eroe. Solo che questo è un romanzo, non una tragedia. O meglio, la tragedia permea la valle, tra aspetti agrodolci e sprazzi umoristici (e l’umorismo, c’insegna Kundera, è l’unione del non serio e del terribile), mentre lui è presentato dal coro come un clown, fin dal principio. La verità si cerca, quasi sempre non esiste. La verità è difficile da dimostrare, ma ci sconvolge emotivamente. Questo accade a Dante, invaso dall’umano: dalla variegata umanità della valle che la prosa di Cattaneo spariglia e unisce proprio come il vento, evocato già nel titolo.