“Non ci sarà uno Stato palestinese”
di Angela Lano
Palestina, la versione di Ziyad Clot
di Christian Elia

Nota dell’autore all’edizione francese

Il 14 maggio 2011 sul Guardian, Ziyad Clot ha rivelato di essere stato lui a consegnare a Al Jazeera e al Guardian i documenti, ora noti sotto il nome di Palestine Papers. Un autentico scoop!

L’avvocato franco-palestinese Ziyad Clot ha deciso un giorno, nel 2007, di tornare in Palestina per vedere la casa dei nonni ad Haifa, costretti a fuggire nel 1948. A Ramallah cgli viene offerto, ed accetta, un posto di consigliere giuridico dell’OLP (Organizzazione della Liberazione della Palestina) e poi diventa negoziatore, partecipando alle trattative israelo-palestinesi che dovrebbero portare alla creazione dello Stato palestinese, prima della fine del 2008.

Questo libro è la testimonianza di un negoziatore che ha visto le trattative dall’interno, le manovre interne ed internazionali che contribuiscono ad alimentare l’illusione della soluzione ‘due popoli-due stati’ portandolo a concludere che: “Il processo di pace è uno spettacolo, una farsa, che si gioca a danno della riconciliazione palestinese, al prezzo di sangue versato a Gaza”.

Per l’ex-negoziatore ZIYAD CLOT, una soluzione pacifica a questo conflitto non può passare che attraverso uno Stato unico, nell’interno del quale Palestinesi ed Israeliani dovranno vivere insieme. Questo paese ibrido, Israeltine, dal punto di vista militare e burocratico, già esiste.

http://www.infopal.it
14/7/2012

 

“Non ci sarà uno Stato palestinese”
di Angela Lano

In anni di studio e lavoro sulla “questione” palestinese, ci siamo chiesti più volte quale fosse il nemico n. 2 della Palestina, dei suoi diritti e principi fondamentali. O, se vogliamo essere meno severi, una grande zavorra. Il nemico n. 1 è noto a tutti: Israele, la Israeli lobby nel mondo e le politiche Usa, e la corte dei miracoli europea con i suoi “due-pesi-due-misure”.

Ma l’altro, la zavorra, abbiamo iniziato a prenderlo in considerazione in anni relativamente recenti. È indubbiamente una parte del notabilato palestinese stesso. Di qualunque colore politico esso sia – giallo, verde e rosso -, e dovunque risieda – in Palestina, in Europa, nei Paesi islamici o nel resto del mondo.

Non stiamo affatto parlando di leader carismatici di Hamas, del Jihad islamico, ancora in vita o martiri, o del Fplp e di Fatah da anni rinchiusi nelle prigioni israeliane.

Logiche dal basso.

Feudatari moderni. Stiamo parlando di capi e capetti locali, notabili e notabilotti, odierni feudatari arabi che sguazzano, garantendosi carriere personali e politiche, nella questione palestinese.

Partendo dal basso, da logiche di cortile, ci stiamo riferendo a chi non è capace di tessere strategie congiunte con altri sostenitori della causa, perché di fazioni, religioni, ideologie o clan diversi dal proprio; di chi è interessato quasi solo a una sequenza di foto-ricordo di delegazioni pompose a Gaza o a Ramallah o dov’altro o a discorsi rivolti a favore di Tv o microfono; di chi fa le scarpe e gli sgambetti ai propri collaboratori, compagni di lotta o di partito; di chi s’allea tatticamente con questo o con quello; di chi licenzia su due piedi padri di famiglia che chiedono limpidezza o che osano criticare il capo-tribù; di chi smorza la voce al dissenso; di chi passa sopra ai diritti umani pur spacciandosi per sostenitore dei diritti degli oppressi; di chi fa dell’ingiustizia e della manipolazione del consenso il proprio stile di vita; di chi pensa solo al proprio personale tornaconto politico e di carriera. E la lista sarebbe ancora lunga…

Certo notabilato è la quintessenza del tribalismo arabo persistente alla prima “primavera araba”, quella islamica, per eccellenza: la rivoluzione culturale, politica e religiosa avviata dal profeta Muhammad nel 600 d.C. Quel tribalismo, che Mohammad iniziò a spazzare via nel periodo medinese, e che era il prodotto naturale di una civiltà nomade e arretrata di 1400 anni fa, è un boomerang, una catastrofe nel suo sopravvivere attuale nella vita quotidiana di popoli entrati nella Storia contemporanea, dinamica e colta.

Divide et impera. È su queste tendenze “karmiche” del mondo arabo e palestinese che agisce Israele per creare divisioni, e con successo. È come dire: la causa interna, manifesta o latente, che incontrando quella esterna, potente, astuta e feroce, produce il disastro del secolo scorso e di quello presente. Sulle cause interne di tale disastro, sconfitta e tragedia si sono interrogati, per decenni, schiere di intellettuali arabi e palestinesi, puntando il dito su arretratezza, ignoranza, tribalismo, corruzione, servilismo e sudditanza all’Occidente.

Colonialismo e contaminazioni.

Il colonialismo europeo, e poi statunitense, tra Ottocento e Novecento, è alla base della tragedia palestinese – il Sionismo è un prodotto coloniale europeo – e di altre decennali oppressioni nel mondo arabo – i regimi dittatoriali al soldo occidentale che dal Nordafrica (ora parzialmente liberato) arrivano fino alle petro-monarchie oscurantiste del Golfo dure a morire, con le attuali alleanze finanziario-politico-religiose con al-Qa’ida made in Cia e con Nato-Usa-Eu-Israele per l’esportazione della “democrazia” delle guerre di rapina.

Contaminazioni eccellenti. Gli stessi nazionalismi arabi e risvegli islamici di fine Ottocento e primi del Novecento – prodotti dall’elaborazione religiosa, filosofica e intellettuale di grandi pensatori arabi e musulmani, spesso residenti o soggiornanti in Europa -, sono contaminati di pensiero occidentale.

Ovviamente, le contaminazioni culturali e politiche sono di per sé positive: si pensi a quelle medioevali, tra mondo arabo-islamico ed Europa, dove scienziati e filosofi islamici recuperarono l’immenso patrimonio culturale greco-latino e, attraverso traduzioni e adattamenti, da una parte lo utilizzarono rielaborandolo e creando una grande civiltà islamica, e dall’altra lo “restituirono” all’Europa medioevale, favorendo l’apertura delle porte al Rinascimento europeo.

La servitù culturale e politica, invece, è ben altra cosa. È, appunto, l’incapacità di liberarsi da una sudditanza intellettuale e politica, e, parallelamente, da logiche di profitto inter-tribale (o partitico) che portano ad allearsi con il nemico pur di conquistare altro potere o benefici personali a discapito del popolo che si dovrebbe governare e i cui diritti si dovrebbero tutelare.

E qui arriviamo a logiche più alte di quelle delle piccole corti dei notabili locali o europei.

Logiche dall’alto.

Parliamo degli accordi di Oslo, fallimentari, auto-lesionisti e tragici per la portata che hanno avuto e stanno avendo sul popolo palestinese: con essi, Israele ha dato il via alla colonizzazione di ciò che rimaneva della Cisgiordania e di Gerusalemme Est e all’ebraicizzazione esponenziale della terra di Palestina.

Un’Anp depotenziata e strumentalizzata. Un’autogoal della dirigenza palestinese di Fatah, che sì, s’è vista riconoscere come Autorità Nazionale da Israele e dalla “comunità internazionale”, ma con poteri svuotati di consistenza politica reale, e un con un ruolo di collaborazionista-quisling di Israele nella persecuzione dei patrioti palestinesi che non s’arrendono all’occupazione. Diciamo, dunque, un’autorità senza autorevolezza, e pure auto-lesionista nel confronti del proprio popolo. Quindi un fallimento.

La vittoria elettorale della Resistenza. Dalla sconfitta delle politiche dell’Olp-Anp è partita la seconda Intifada e la vittoria elettorale, nel gennaio del 2006, del movimento di Hamas, legato al concetto di resistenza, di lotta di liberazione e di sostegno alle istanze della popolazione palestinese, sia a livello sociale sia politico.

Di fianco al disastro degli accordi di Oslo dovremmo mettere quello dei “negoziati”, del “processo di pace” dei due decenni successivi.

“Non ci sarà uno Stato palestinese”.

Spiega bene e con angosciato realismo le “cause interne” dell’attuale stallo palestinese, della perpetuazione tragica di una sconfitta ai danni di un intero popolo, l’avvocato e intellettuale franco-palestinese Ziyad Clot nel suo libro: “Non ci sarà uno Stato palestinese. Diario di un negoziatore in Palestina” (edizioni Zambon 2010).

“(…) Il processo di pace è uno spettacolo, una farsa che si gioca a spese della riconciliazione palestinese e al prezzo del sangue versato a Gaza.

“(…) Malgrado la tragedia vissuta a Gaza, malgrado l’esplosione della colonizzazione, malgrado la totale mancanza di buona fede da parte degli israeliani nei negoziati di pace, l’Olp continuerà a negoziare. Contro tutti e contro tutto. Una vera fuga in avanti: Negoziare! Perché l’Olp ha deciso che non c’è altra scelta. Perché, certamente, la sopravvivenza politica della sua vecchia guardia è in gioco. Perché, dopo decenni di lotte, gli ultimi compagni di Arafat, quelli che hanno ancora il pieno sostegno della ‘comunità internazionale’, pensano che la creazione dello Stato palestinese non sia poi così lontana” (pagg. 108-109).

Ricorda, poi, nelle pagine successive, l’applicazione del “programma americano”, con il finanziamento, sostenuto anche dai diversi Paesi arabi, delle forze di Fatah in funzione anti-Hamas, e la conseguente guerra civile scoppiata di lì a poco, che vide, tra gli episodi più vergognosi, l’assalto, da parte delle truppe di Dahlan, dell’università islamica di Gaza, all’inizio di febbraio 2007, e la preparazione di un tentativo di golpe con l’appoggio degli Usa, sventato da Hamas, che, dopo scontri sanguinosi con i miliziani di Fatah, prende il “controllo” della Striscia (giugno 2007).

Anche qui, facendo leva sulla volontà di mantenere il potere da parte di Fatah, nonostante la clamorosa e sintomatica sconfitta elettorale del gennaio del 2006, il divide et impera Usraeliano funziona, creando appunto scontri inter-palestinesi, una conflittualità ancora irrisolta, nonostante i tanti incontri e accordi tra Fatah e Hamas e gli annunci periodici di imminente riconciliazione nazionale.

Scrive ancora Clot alle pagine 114-116, riferendosi alla drammatica e fratricida stagione 2006-2007: “(…) Mahmoud Abbas si è lasciato convincere dal suo alleato americano: nella speranza di un ritorno al tavolo dei negoziati con Israele, ha accettato di collaborare alla eliminazione di Hamas. Contro l’unità del suo popolo,  Abu Mazen ha aderito al piano di George W. Bush.

“È ormai fin troppo chiaro. Ho appena capito tutta la crudeltà dell’ambiente in cui svolgo il mio ruolo di consigliere dell’Olp.

“(…) Tutto prova che la scelta dei negoziati sarà inutile. Peggio, tutto lascia intendere che sarà pagata a caro prezzo. Ora ho capito che l’Autorità Palestinese, nel corso degli anni, è diventata un’autorità d’occupazione. Si è ridotta a fare il lavoro sporco in Cisgiordania al posto degli israeliani, con il sostegno degli americani e dell’Unione Europea”.

Il riferimento è anche alle politiche di arresti politici giornalieri, torture e persecuzioni, perpetrati dalle forze di sicurezze dell’Anp di Ramallah ai danni di simpatizzanti e militanti di Hamas, Jihad islamico, Fronte popolare e persino delle brigate di Fatah e di tutti quei gruppi o singoli cittadini che, a livello diverso – con resistenza attiva o passiva – si ribellano all’occupazione della propria terra.

Scenari presenti, scenari futuri

Per l’ex negoziatore Olp Clot, fallito il processo di pace, di cui nel suo libro svela ipocrisie, trappole e manipolazioni, la soluzione all’ormai centenario conflitto palestino-sionista non può che passare attraverso uno Stato unico, binazionale, per palestinesi musulmani e cristiani e ebrei israeliani: l’”Israeltine”:

“Solo l’osservatore attento e senza preconcetti, che si è alleggerito dei dogmi della fede e dei breviari del ‘processo di pace’ e che riesce a mettere in sordina la cacofonia delle innumerevoli risoluzioni dell’Onu su questo conflitto, costantemente inapplicate, accetterà di constatare che la soluzione due Stati è ormai obsoleta, perché la creazione dello Stato palestinese è diventata impossibile.

“(…) Lo Stato d’Israele controlla in maniera più o meno completa l’insieme dell’antica Palestina mandataria, e discrimina la popolazione palestinese che ancora vi si trova. ‘Israeltine’, che si estende dal Mediterraneo al Giordano, è un solo Stato, fallito” (pagg. 249-250).

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17/06/2011

Palestina, la versione di Ziyad Clot
di Christian Elia

L'uomo che ha passato i Palestinian Papers ai media in Italia con Ism per il suo libro

Il libro, di prossima pubblicazione, avrà un titolo duro e doloroso, come questa lunga storia di ingiustizia, che dura dal 1948. SI chiamerà Non ci sarà uno Stato Palestinese - Diario di un negoziatore in Palestina. L'autore è un avvocato franco-palestinese, Ziyad Clot. Il suo nome dice poco, ma tutti ricordano i cosiddetti Palestinian Papers, i documenti riservati che vennero pubblicati da al-Jazeera e dal quotidiano britannico The Guardian. Una vera bomba, che deflagrò nel cuore del sistema di potere di Fatah, a Ramallah.

"I documenti mostrano quanto vili siano i leader palestinesi e come fossero disposti a svendere i diritti del loro popolo. Eppure tutto quello che offrivano non era sufficiente per Israele. Questa enorme quantità di documenti offre la prova inconfutabile di come anni di negoziati siano stati una sterile frode''. L'avvocato Clot non usa giri di parole, come tutti gli innamorati feriti. E nessuno, mai, potrà accusare Clot di non amare la Palestina, al punto da tornare dalla Francia nel 2007 per vendere la casa di Haifa dalla quale i suoi genitori partirono per l'esilio, come milioni di palestinesi, nel 1948. Colto e preparato, gli venne offerto un posto come negoziatore nello staff dell'Autorità Nazionale Palestinese (Anp) che trattava con Israele la fine del conflitto. Diventa consigliere giuridico dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), il congresso dei movimenti palestinesi che da anni è uno strumento del partito Fatah, quello di Arafat e dell'attuale presidente dell'Anp Mahmoud Abbas.

''I documenti chiariscono che è arrivato il tempo per i palestinesi, e per tutti coloro che sono interessati alla causa della giustizia, di abbandonare i giochi della diplomazia ufficiale e di seguire altri percorsi, più creativi e non-violenti, verso la realizzazione di una pace giusta ed effettiva'', dice Clot. E lo sa bene, perché durante il suo lavoro viene a contatto con documenti scottanti, molto compromettenti per Abbas e l'establishment di Fatah e dell'Anp. ''La decisione di renderli pubblici l'ho presa un anno prima di farlo. Mi resi conto subito che quei documenti riservati contenevano la truffa imposta al popolo palestinesi dai suoi leader, rifugiati ed esuli compresi. Il processo di pace è uno show, una farsa, che si gioca a danno del popolo palestinese e al prezzo del sangue versato a Gaza''.

Alla fine l'ha fatto. Il 23 gennaio 2011, alle 21, al-Jazeera e Guardian pubblicano in contemporanea i documenti che, come si scoprirà ufficialmente solo il 14 maggio 2011, Clot ha passato loro. Si tratta di quasi 1700 documenti. Migliaia di pagine di rapporti diplomatici sulle tensioni tra israeliani e palestinesi, risalenti al periodo tra il 1999 e il 2010. La più rilevante è sicuramente quella che riguarda Gerusalemme e che fu proposta durante l'incontro del 15 giugno 2008 alla presenza dell'allora ministro degli Esteri israeliano, Tzipi Livni, dell'allora premier dell'Autorità Palestinese, Ahmed Qurei, del negoziatore per l'Autorità Palestinese, Saeb Erekat, e dell'allora segretario di stato americano, Condoleeza Rice. Erekat offrì a Israele 'la più grande Gerusalemme della storia', concedendo allo stato israeliano l'annessione definitiva di tutti gli insediamenti di Gerusalemme Est, tranne quello di Har Homa, in cambio del riconoscimento dello stato palestinese. Ma l'offerta fu rifiutata. Stesso discorso per il diritto al ritorno del palestinesi della diaspora e per la continuità territoriale con Gaza. Addirittura Abbas si dichiara pronto a non discutere sull'embargo che soffoca Gaza, pur di indebolire Hamas. Abbas riuscì anche a farsi negare buone condizioni di negoziati, pur rifiutando di cavalcare il rapporto del giudice sudafricano Goldstone che definiva l'operazione Piombo Fuso a Gaza dell'esercito israeliano un crimine di guerra.

Un terremoto politico, mesi fa. Oggi un po' dimenticato, sacrificato all'altare della realpolitik e della politica di riavvicinamento tra Hamas e Fatah. Ziyad Clot, grazie a un tour organizzato in Italia dall'International Solidarity Movement (Ism), che prevede incontri pubblici oggi a Napoli, dopo quelli tenuti Roma, Milano e Savona, per finire lunedì prossimo a Torino. ''Mi sento rassicurato, perché adesso il popolo della Palestina ha saputo la verità. Per una soluzione giusta, quello di un unico Stato per tutti, serve una piattaforma politica nuova''.

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Nota dell’autore all’edizione francese

Questo libro è nato dalla volontà, molto personale, di testimoniare.

Un giorno ho deciso di andare in Palestina. La mia famiglia materna è originaria di Haifa.

Ad Haifa ho scoperto la casa dei miei nonni. La mia casa.

Mi sono poi imbattuto nel “processo di pace”. Sono diventato testimone e attore della sorte destinata, in quelle discussioni, ai profughi palestinesi. Ho visto da vicino l’impossibilità di realizzare uno Stato palestinese.

Più tardi, nell’inverno 2008/2009, mi sono trovato impotente di fronte alla spedizione di morte dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza. Come molti, quell’episodio mi ha sconvolto. Come pochi, ho avuto la possibilità di assistere ai retroscena.

Ho pensato che fosse mio dovere condividere la mia esperienza in terra israelo-palestinese. Questo libro ne è la storia.

Perché ho vuotato il sacco sulla Palestina di Ziyad Clot, The Guardian, sabato 14 maggio 2011

L’attacco israeliano contro Gaza e i disastrosi «colloqui di pace» mi hanno costretto a rivelare quello che sapevo.

In Palestina è giunto il momento della riconciliazione nazionale. Alla vigilia della commemorazione del 63° della Nakba – lo sradicamento dei palestinesi che ha accompagnato la creazione dello Stato di Israele nel 1948 – questo è un momento molto atteso e un momento di speranza. All’inizio di questo anno il rilascio da parte di Al-Jazeera e del Guardian di 1.600 documenti relativi al cosiddetto processo di pace ha provocato profonda costernazione tra i palestinesi e nel mondo arabo. I Palestine Papers coprono più di 10 anni di colloqui (dal 1999 al 2010) tra Israele e l’OLP, illustrano le conseguenze tragiche di un processo politico iniquo e distruttivo che si basava sul presupposto che i palestinesi potessero realmente negoziare i loro diritti e ottenere l’autodeterminazione, mentre subivano le conseguenze dell’occupazione israeliana.

Il mio nome è stato indicato come una delle possibili fonti di tali rivelazioni. Vorrei chiarire la portata del mio coinvolgimento in queste rivelazioni e spiegare le mie motivazioni. Ho sempre agito nell’interesse del popolo palestinese, nella sua interezza, e al meglio delle mie capacità.

La mia esperienza personale con il «processo di pace» ebbe inizio a Ramallah, nel gennaio 2008, dopo essere stato assunto come consulente per l’unità di sostegno ai negoziati (NSU) dell’OLP, specificatamente incaricato del problema dei profughi palestinesi. Questo è avvenuto un paio di settimane dopo che un traguardo, durante la conferenza di Annapolis, era stato fissato: la creazione dello Stato palestinese entro la fine del 2008. Soltanto dopo 11 mesi di lavoro, nel novembre dello stesso anno, mi sono dimesso. Entro il mese di dicembre 2008, invece della creazione di uno stato in Palestina, ho assistito in TV all’uccisione di oltre 1.400 palestinesi a Gaza da parte dell’esercito israeliano.

Le mie forti motivazioni nel lasciare la mia posizione nella NSU e la mia valutazione del «processo di pace» sono state chiaramente spiegate ai negoziatori palestinesi nella mia lettera di dimissioni del 9 novembre 2008.

I «negoziati di pace» sono stati una farsa ingannevole per mezzo dei quali sono stati imposti da Israele, unilateralmente, con l’appoggio sistematico degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, termini tendenziosi. Lungi dal consentire una fine negoziata ed equa del conflitto, il processo di Oslo ha radicalizzato le politiche israeliane segregazioniste e giustificato l’inasprimento dei controlli di sicurezza imposti alla popolazione palestinese, così come la sua frammentazione geografica. Lungi dal preservare la terra sulla quale costruire uno Stato, ha tollerato l’intensificazione della colonizzazione del territorio palestinese. Lungi dal mantenere una coesione nazionale, il processo al quale ho partecipato, anche se brevemente, è stato determinante nel creare e aggravare le divisioni tra i palestinesi. Nei suoi sviluppi più recenti, è diventato una impresa crudele della quale i palestinesi di Gaza hanno maggiormente sofferto. Ultimo, ma non meno importante, questi negoziati escludevano la grande maggioranza del popolo palestinese: i sette milioni di profughi palestinesi. La mia esperienza, negli 11 mesi passati a Ramallah, ha confermato che l’OLP, data la sua struttura, non è in grado di rappresentare tutti i diritti e tutti gli interessi dei palestinesi.

Tragicamente, i palestinesi sono stati lasciati all’oscuro della sorte dei loro diritti individuali e collettivi nei negoziati, e la loro leadership politica divisa non era ritenuta responsabile delle sue decisioni o delle sue non azioni. Dopo essermi dimesso, ero convinto di aver il dovere di informare il pubblico.

Poco dopo l’inizio della guerra contro Gaza ho iniziato a scrivere della mia esperienza a Ramallah. Nel mio libro, Il ny aura pas d’Etat Palestinien (Non ci sarà uno Stato palestinese), concludevo: ”Il processo di pace è uno spettacolo, una farsa, giocata a scapito della riconciliazione palestinese e al costo dello spargimento di sangue a Gaza”. In piena coscienza, e agendo in maniera indipendente, ho poi accettato di condividere alcune informazioni con Al-Jazeera, in particolare per quanto riguarda la sorte dei diritti dei rifugiati palestinesi nei colloqui del 2008. Altre fonti hanno fatto lo stesso, anche se non sono a conoscenza della loro identità. Portare questi tragici sviluppi del «processo di pace» a un più ampio pubblico arabo e occidentale si giustificava poiché era nell’interesse generale del popolo palestinese. Non ho avuto, e continuo a non avere, alcun dubbio sull’obbligo morale, giuridico e politico di procedere in questo modo.

Oggi mi sento sollevato dal fatto che questa informazione di prima mano sia disponibile per i palestinesi nei territori occupati, in Israele e in esilio. In un certo senso, i diritti dei palestinesi sono tornati in possesso dei loro titolari e le persone sono ora in grado di prendere decisioni, libere da pregiudizi, sul futuro della propria lotta. Sono anche contento che chi ha in mano, a livello internazionale, le sorti del conflitto israelo-palestinese possa accedere a questi documenti. Il mondo non può più trascurare che, mentre il forte impegno palestinese per la pace è vero, la ricerca infruttuosa di un «processo di pace» impostato sulla base delle esclusive condizioni della potenza occupante porta a compromessi che sarebbero inaccettabili in qualsiasi altra regione del globo.

Infine, mi sento rassicurato dal fatto che il popolo di Palestina, nella gran maggioranza, capisce che la riconciliazione, tra tutte le sue componenti, debba essere il primo passo verso la liberazione nazionale. I palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, i palestinesi in Israele e i palestinesi che vivono in esilio hanno un futuro comune. Il percorso verso l’autodeterminazione palestinese richiederà la partecipazione di tutti, in una piattaforma politica rinnovata.

Hanno collaborato alla traduzione Ugo Barbero, Ireo Bono, Enzo Brandi, Elisa Campaci, Diana Carminati, Flavia Donati, Gianfranca Scutari, Alfredo e Vincenzo Tradardi.

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