Alcuni Estratti Da "Kafka. Pro E Contro" Di Guenther Anders

Tratto da La Nonviolenza é in Cammino
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di
Guenther Anders, Kafka. Pro e contro. I documenti del processo, Quodlibet,
Macerata 2006 (edizione originale: Kafka, pro und contra. Die
Prozess-Unterlagen, 1951)]


Indice del volume
Introduzione; Premessa; I. Aldiqua come aldila'. Kafka deforma per
constatare; Kafka cambia i nomi; Cio' che sbalordisce in Kafka: lo
sbalorditivo non sbalordisce nessuno; Kafka da' immagini potenziate.
Apologia di questa irrealizzazione; L'uomo e' estraneo e deve dar prova di
se stesso; L'aldila' di Kafka e' questo mondo. La sua vita e' un arrivare
per tutta la vita; Conseguenze dell'arrivo perpetuato; Excursus sull'eroe
negativo. "K." e' un Don Chisciotte; Chi non abita nel mondo non ha
abitudini ed intende i costumi come decreti; La vita e' un processo di
autoaccumulazione della colpa. La coscienza gira in tondo; Kafka lascia
delle brecce nel mondo murato. Donna e caso; Chi vuole arrivare non vuole
andare in giro "liberamente". Percio' la liberta' di Kafka e' un incubo; La
vita si compie come ripetizione. Il vivente e' un prigioniero negativo: non
chiuso dentro, ma chiuso fuori. La colpa sussegue la pena; L'inversione di
colpa e pena e' testimonianza di ambiguita'; II. Non simboli ma metafore.
Kafka non e' ne' allegorista, ne' simbolista; Il mondo di Kafka diviene
indistinto perche' le sue metafore collidono; Le figure di Kafka non sono
piu' astratte di uomini reali: esse sono uomini che vivono solo per la
professione; L'agnosticismo di Kafka e' figlio dell'impotenza, perche'
l'impotente e' disinformato; III. La Medusa. Nel terrore il tempo resta
sospeso. Percio' Kafka da' immagini; In Kafka la bellezza e' gorgonica;
Kafka non si "esprime" piu'; Il linguaggio di Kafka e' "elevato", perche'
piu' sobrio del linguaggio quotidiano; Eppure la lingua di Kafka e'
graziosa; IV. Ateismo che si vergogna. Kafka fa parte della storia
dell'ateismo che si vergogna; Kafka permette l'irreligiosita' e si assicura
una positivita' minima; Kafka rappresenta un ritualismo privo di rituale;
Apologia dello stato incompleto; La chiamata senza colui che chiama. Per
Kafka Dio e' morto. La morte di Dio e' per Kafka un fatto religioso; Kafka
e' un marcionita. Crede in un Dio malvagio, non in nessun Dio. Trasforma
l'immorale nel sovra-morale; Kafka non vuole costruire il paradiso, ma
entrarvi. Non e' un teologo dell'ebraismo, ma un teologo dell'esistenza
ebraica; Bilancio finale; Appendice. Max Brod: Assassinio di un fantoccio
chiamato Franz Kafka; Guenther Anders: Replica a "Assassinio di un fantoccio
chiamato Franz Kafka", critica di Max Brod al mio scritto "Kafka. Pro e
contro"; Max Brod: Controreplica; Note; Postfazione, di Barnaba Maj.
*
Da pagina 29
Kafka deforma per constatare
Il monaco Massimo Planude, che pubblico' nel XIV secolo le favole circolanti
con il nome di Esopo, racconta che il volto di Esopo fosse mostruosamente
brutto, anzi deformato fino all'irriconoscibilita'. Esopo stesso non avrebbe
potuto inventare una migliore favola sulla favola: poiche' le verita' della
favola scaturiscono dalla deformazione.
E con questo siamo a Kafka. Il volto del mondo kafkiano sembra s-postato
(ver-rueckt). Ma Kafka "s-posta" l'aspetto apparentemente normale del nostro
mondo spostato per renderne visibile la follia. Ma al tempo stesso egli
tratta questo aspetto spostato come qualcosa di completamente normale; e in
tal modo descrive addirittura proprio il fatto folle che il mondo folle
passi per normale.
Invece di riconoscere che questo metodo non e' cosi' impenetrabile, si e'
visto soltanto cio' che e' fuori dal comune, nel volto del suo mondo. E lo
si e' esaltato come soprannaturale; o come onirico; o come mitico; o come
simbolico. Ma Kafka non e' ne' un esteta, ne' un santo, ne' un sognatore; e
neppure un artefice di miti o un simbolista; in ogni caso, niente di tutto
cio' in primo luogo. E' invece uno scrittore di favole realista. La
deformazione come metodo dovrebbe essere familiare a tutti noi: la scienza
moderna, per saggiare la realta', pone il suo oggetto in una situazione
artificiale, la situazione sperimentale. Stabilisce un ordine in cui
inserire l'oggetto, e in tal modo deforma l'oggetto: ma il risultato e' una
verifica. Considerati da questo punto di vista, i romanzi d'oggi, salvo
eccezioni, non sono moderni. Nel migliore dei casi essi descrivono cio' che
vedono. Kafka, invece, e piu' tardi Brecht, costruiscono situazioni
deformanti in cui inseriscono il loro oggetto sperimentale: l'uomo d'oggi. A
scopo di verifica. Un esperimento biologico in un istituto di psicologia
animale non sembra certo "realistico" come il giardino zoologico di
Hagenbeck. Un ordine sperimentale kafkiano invero non sembra certamente
realistico come un "giardino antropologico" di Galsworthy. Ma il suo
risultato e' realistico.
*
Kafka cambia i nomi
Una parte considerevole dell'opera kafkiana tratta dell'ebreo. Cosi' il
romanzo Il castello, cosi' la storia di topi Giuseppina. Ma la parola
"ebreo" compare di rado. Anzi, nel racconto intitolato Durante la
costruzione della muraglia cinese la parola "ebreo" e' addirittura
regolarmente sostituita dalla parola "cinese". Perche' Kafka attua questo
scambio di nome, che crea evidentemente un mascheramento?
Di nuovo: per un principio di conoscenza. Vale a dire, per recidere fin
dall'inizio i pregiudizi automaticamente legati ai nomi; per costringere il
lettore e se stesso a guardare in faccia senza pregiudizi cio' che egli
desidera dire; dunque, in un atteggiamento che e' il meno pregiudizievole
possibile per il raggiungimento, la rappresentazione, la mediazione e
l'accettazione della verita'. Se il realismo ha un senso filosofico, e'
questo.
Certamente non ci si puo' rappresentare questo "cambiamento di nome"
kafkiano come un atto, ogni volta nuovo, di traduzione consapevole; i
cambiamenti di nome kafkiani hanno ben poco in comune con quelli delle
Lettere persiane o dei Viaggi di Gulliver: l'attribuzione "estraniante" e'
quella, per cosi' dire, a lui naturale. In Kafka l'oggetto A si chiamera' B
gia' al primo intervento e l'oggetto B comparira' come C gia' alla prima
fissazione. Se c'e' qualcosa per cui Kafka avrebbe avuto bisogno di
un'abilita' espressiva, non sarebbe stato per l'estraniazione, ma piuttosto
per la revoca dell'estraniazione.
In se', la "naturalezza" di attribuzioni estranianti non e' un fenomeno per
noi sconosciuto. Quando un chimico, nel suo laboratorio, considera e tratta
l'acqua non come un liquido potabile, ma come H2O, questo non ci sorprende.
Sorprendente invece ci risulta quel cambiamento di nome che e' compiuto
individualmente e che viene preteso da noi, senza che il traduttore ci
consegni e autentichi espressamente la sua chiave di traduzione. Ora, e'
questo che accade in Kafka. E percio' il suo lettore necessita di
"istruzioni per l'uso".
Il metodo di Kafka consiste dunque nel sospendere, mediante uno scambio di
etichette, i pregiudizi legati alle etichette, e di rendere possibili in tal
modo giudizi liberi da pregiudizi. Quando attacca alle cose etichette
incomprensibili, egli agisce esattamente nello stesso senso. Per esempio,
egli descrive un oggetto ("Odradek") la cui funzione sembra consistere
proprio nel non avere alcuna funzione. Ma l'introduzione di questo oggetto
"senza senso", e denominato in una maniera apparentemente priva di senso, e'
tanto poco insensata quanto quella degli oggetti etichettati "falsamente".
L'oggetto ci ricorda tutte le specie di cose e macchine che l'uomo moderno
deve maneggiare giorno dopo giorno, sebbene le loro prestazioni non sembrino
aver nulla a che fare direttamente con i bisogni dell'uomo. L'uomo d'oggi si
imbatte mille volte in apparecchi la cui costituzione gli e' sconosciuta e
con cui egli puo' mantenere soltanto rapporti "estraniati", giacche' il loro
rapporto con il sistema di bisogni dell'uomo e' infinitamente mediato:
l'"estraniazione" non e' infatti un espediente del filosofo o del poeta
Kafka, ma un fenomeno del mondo d'oggi; soltanto che l'estraniazione nella
vita quotidiana viene appunto coperta dalla vuota abitudine. Attraverso la
sua tecnica dell'estraniazione, Kafka scopre l'estraniazione mascherata
della vita quotidiana: e quindi, in tal modo, e' di nuovo un realista. La
sua "deformazione" constata.
*
Da pagina 43
L'aldila' di Kafka e' questo mondo. La sua vita e' un arrivare per tutta la
vita
Diciamo "aldila'". E la maggior parte degli interpreti, che spiegano Kafka
in senso religioso senza alcuna ponderazione, saranno soddisfatti di questa
parola. Ma solo della parola. Poiche' l'aldila' di cui si tratta in Kafka
non e' affatto qualcosa di extraterreno, bensi' il mondo stesso, l'aldiqua
stesso. Egli (o il suo eroe K.) sta all'esterno, sta "al di la'
dell'aldiqua": in tal modo l'aldiqua diventa aldila'. L'identificazione tra
"mondo" e "aldila'" non significa piu' di quanto significasse, nel
socialismo utopistico, la rappresentazione dello stato futuro del mondo come
paradiso. L'aldila' in lui non e' il futuro, ne' il mondo che verra', bensi'
il mondo esistente. Chi deve "venire" e' di nuovo lui, lo straniero; poiche'
e' lui a dover arrivare, lui a sopraggiungere. L'opera principale di Kafka,
Il castello, e' la testimonianza fondamentale di questa tesi.
Questo e' infatti il contenuto del Castello: un uomo, K., si presume sia
stato chiamato in un villaggio situato presso un castello, e una sera giunge
in questo villaggio. Vuole essere accolto. Ma coloro che lo hanno chiamato
non sanno nulla della sua chiamata: dunque non viene accettato, anche se non
proprio rispedito via. Tutto il resto della sua vita - tutto il resto del
contenuto del libro - e' costituito dai tentativi e dagli sforzi, mille
volte ripetuti, per essere comunque accettato. Vale a dire: tutta la sua
vita e' una nascita continua, un "venire al mondo" che non ha fine.
L'enorme tensione che nelle religioni vere e proprie esiste tra il mondo
celeste e questo mondo, oppure tra creator e creatura - la cosiddetta
trascendenza -, qui sussiste tra K. ed il mondo, che in quanto mondo di
potere totalitariamente istituzionalizzato resta irraggiungibile. Dunque, K.
non "vive" (se, con Heidegger, la vita significa "essere nel mondo"): la sua
vita e' tutt'al piu' un fare anticamera. "In qualche modo" il nuovo venuto
e' nel mondo, ma il grado del suo esserci e' appena sufficiente a rendergli
chiaro che non e' in esso. Numerose favole kafkiane (e il suo romanzo
America) cominciano con situazioni di arrivo, che non si differenziano
fondamentalmente da quella sviluppata nel Castello, e tutte finiscono come
sforzi inutili di arrivo: "[...] la mancanza d'illusione sul fatto che tutto
sia soltanto un inizio, beh, nemmeno questo e' un inizio [...]" (Diari,
1921). E nel 1922: "Nel mio ufficio si continua ancora a fare calcoli come
se solo ora la mia vita iniziasse in modo definitivo, mentre sono alla
fine".
*
Conseguenze dell'arrivo perpetuato
Mentre i romanzi del mondo borghese interpretavano la crescita in questo
mondo come un'"educazione", in Kafka il mondo e' descritto dall'esterno, la
crescita come un naufragio. L'eroe non appartiene al mondo. Il realismo
kafkiano consiste proprio in questa eccentricita', poiche' per la maggior
parte degli uomini d'oggi il mondo - che del resto, nella teoria della
conoscenza, si chiamava gia' da tempo "mondo esterno" - e' divenuto
"esterno". La figura principale diviene cosi' un eroe in senso negativo,
perche', nel confronto con il mondo essente, si distacca in modo assoluto
come "nessuno". E' il punto centrale dei romanzi, esattamente come il punto
centrale di un cerchio: non ha estensione.
"Esserci" per Kafka significa certamente arrivare eternamente, senza
arrivare mai, quindi "non-esserci"; ma, dal momento che egli d'altra parte
non puo' negare di essere invece in qualche modo nel mondo, deve dare al
non-esserci un mascheramento positivizzante, oppure trovare forme intermedie
tra essere e non-essere. Egli trova queste forme intermedie in maniera
classica, conferendo al non-essere un significato temporale: esso diventa
"non-essere-ancora" oppure "non-essere-piu'". Nella storia del Cacciatore
Gracco, ad esempio, Kafka rappresenta l'essere partoriti come un morire,
come un "morire-dentro-il-mondo". Anni prima Gracco era morto per una caduta
(nascita), ma, in seguito ad una disattenzione del traghettatore dei morti,
non era mai giunto nel regno delle ombre: la sua esistenza e' dunque,
contemporaneamente, essere ancora e non essere piu', non semplicemente un
non-essere (temporalmente neutrale).
D'altro canto, per Kafka, colui che non arriva mai, si trasforma (giacche',
"in qualche modo e' comunque li'") in uno che, fondamentalmente, arriva
troppo tardi; e la vita si trasforma in un inseguimento di luogo in luogo:
si e' giunti e gia' s'e' mutata intenzione. Questo e' il tema esclusivo dei
racconti I coniugi e Confusione di ogni giorno. In queste storie la sfortuna
sta nel fatto che il mondo, che si frappone tra la meta del cammino e colui
che cammina, e' troppo forte: in un certo senso sommerge, con i suoi
dettagli, il cammino. Se si prende la vita stessa come un "cammino" (cosa
che Kafka fa volentieri, richiamandosi a Lao-Tse), allora ogni nuovo giorno
porta un nuovo obbligo "che allontana dalla meta"; questo conduce a sua
volta ad un nuovo obbligo, e si giunge, anche se correndo costantemente,
sempre troppo tardi. Una descrizione che si adatta ovviamente solo a colui
che, come Kafka, in fondo non ha chiari misura e ambito dei suoi obblighi, e
per il quale ogni passo significa gia' tralasciare innumerevoli altri passi,
dal momento che il mondo e' lastricato di grida d'aiuto.
*
Da pagina 102
Eppure la lingua di Kafka e' graziosa
Che il mondo e la lingua di Kafka, malgrado la loro pietrificazione (o, piu'
esattamente, in virtu' della loro pietrificazione), siano "belli", risulta
ora ben comprensibile. Difficilmente intelligibile appare pero' il fatto che
la lingua kafkiana, nonostante cio', si possa muovere con perfetta grazia.
Difficilmente intelligibile, poiche' la "grazia" e' proprio la promessa
della benevolenza malgrado la distanza; e' anzi costantemente commozione e
scioltezza giocosa: dunque il contrario della pietrificazione. La "grazia"
e' una scioltezza cosi' perfetta da poter trasformare perfino la paura in
qualcosa di "incantevole", cioe' in "timidezza".
Come si deve intendere la grazia, davvero innegabile, della prosa kafkiana?
Come un salto a lato dell'impotenza. Proprio in quanto il mondo e'
considerato la potenza superiore assoluta ed esclude ogni liberta'
effettiva, la lingua salta verso le mille possibilita' immaginate, i
congiuntivi e le frasi ipotetiche, per "giocare" cosi', non gravata dalla
realta'. "Tra i miei mucchi di terra", dice il tasso nel racconto La tana,
"posso naturalmente sognare qualunque cosa, anche un'intesa, pur sapendo
benissimo che una cosa di questo genere non esiste". "Posso" e "se". "Se
un'acrobata a cavallo, fragile, tisica, venisse spinta per mesi interi senza
interruzione in giro sulla pista sopra un cavallo vacillante di fronte a un
pubblico instancabile, da un direttore di circo spietato sempre con la
frusta in mano, continuando a frullare sul cavallo, gettando baci,
oscillando sulla vita, e se questo spettacolo proseguisse in mezzo al
fracasso dell'orchestra e dei ventilatori nel grigio futuro che continua a
spalancarsi sempre, accompagnato dall'applauso, che si estingue e poi torna
ad ingrossare, di mani che sono veri martelli a vapore" - e soltanto a
questo punto abbiamo cio' che puo' accadere in seguito (In loggione). Qui,
in effetti c'e' tutto: il se "sciolto", "il gioco" di circo e cavallo,
l'inutilita' del maneggio a forma di carosello che ricomincia a piu'
riprese, infine la dimensione di morte data da frusta e martello a vapore;
in breve: la grazia nasce dal fatto che il linguaggio, simile ad un cane che
gioca, scorrazza intorno alla potenza superiore del mondo, che occupa tutta
l'ampiezza della strada; la sua leggerezza e' la leggerezza di chi viene
reputato troppo leggero in confronto al peso del mondo, e la sua serenita'
e' quella di chi non viene preso sul serio, non quella di chi non e' serio.
*
Da pagina 105
Kafka fa parte della storia dell'ateismo che si vergogna
Solo di tanto in tanto abbiamo preso in mano fino ad ora quella chiave che
solitamente e' considerata come il grimaldello per penetrare nell'opera di
Kafka. Kafka viene definito come homo religiosus; si assicura che l'unico
accesso al suo mondo sbarrato sia quello religioso.
Anche noi ci siamo imbattuti in quei motivi kafkiani fondamentali come
colpa, redenzione, grazia, trascendenza, potenza superiore, sacrificio, che
difficilmente possono essere discussi sotto un titolo differente dal
religioso; anche se poi e' risultato che quelli che Kafka ha descritto con
concetti presi a prestito dal linguaggio religioso erano rapporti dell'uomo
con l'aldiqua, e non con l'aldila'. Resta tuttavia innegabile che gia'
questo "prestito" (il minimo, che nemmeno il piu' scettico puo' negare)
rappresenta pure un problema.
Se abbiamo rinviato cosi' a lungo la trattazione di Kafka come homo
religiosus, cio' e' accaduto perche' quest'espressione non ci sembra
costituire una risposta, ma un problema: resta dubbio cio' che questa parola
puo' designare nel nostro mondo secolare. La storia delle religioni positive
offre una lunga serie di definizioni di funzioni religiose ben distinte:
Salvatore, santo, profeta, apostolo, fondatore, riformatore, eretico e cosi'
via. Nessuno, interrogato su "che cosa" siano stati San Francesco o Buddha,
si limiterebbe alla vaga risposta: un homo religiosus. D'altra parte, pero',
nessuno neppure oserebbe applicare a Kafka una delle diverse definizioni
nominate sopra. In effetti, l'incerta espressione in fondo non puo' nemmeno
venir realmente precisata; cio' che solo puo' essere fatto oggetto
d'indagine e di comprensione e' perche' Kafka sia stato classificato in un
modo tanto vago.
Salta immediatamente agli occhi, infatti, che coloro i quali, in modo cosi'
precipitoso e cosi' generico, hanno applicato alla posizione fondamentale di
Kafka l'investitura dell'espressione "religiosa", non sono riusciti a
collegare alla parola nessuna concreta concezione religiosa. L'investitura
di Kafka ha avuto luogo nella letteratura, dunque in una sfera gia' da molto
tempo divenuta irreligiosa, o almeno indifferente alla religione. In una
sfera a cui lo stesso Kafka (se mai egli puo' essere annoverato da qualche
parte) certamente apparteneva ancora.

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Alcuni Estratti Da "Kafka. Pro E Contro" Di Guenther Anders

[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di
Guenther Anders, Kafka. Pro e contro. I documenti del processo, Quodlibet,
Macerata 2006 (edizione originale: Kafka, pro und contra. Die
Prozess-Unterlagen, 1951)]

Indice del volume
Introduzione; Premessa; I. Aldiqua come aldila'. Kafka deforma per
constatare; Kafka cambia i nomi; Cio' che sbalordisce in Kafka: lo
sbalorditivo non sbalordisce nessuno; Kafka da' immagini potenziate.
Apologia di questa irrealizzazione; L'uomo e' estraneo e deve dar prova di
se stesso; L'aldila' di Kafka e' questo mondo. La sua vita e' un arrivare
per tutta la vita; Conseguenze dell'arrivo perpetuato; Excursus sull'eroe
negativo. "K." e' un Don Chisciotte; Chi non abita nel mondo non ha
abitudini ed intende i costumi come decreti; La vita e' un processo di
autoaccumulazione della colpa. La coscienza gira in tondo; Kafka lascia
delle brecce nel mondo murato. Donna e caso; Chi vuole arrivare non vuole
andare in giro "liberamente". Percio' la liberta' di Kafka e' un incubo; La
vita si compie come ripetizione. Il vivente e' un prigioniero negativo: non
chiuso dentro, ma chiuso fuori. La colpa sussegue la pena; L'inversione di
colpa e pena e' testimonianza di ambiguita'; II. Non simboli ma metafore.
Kafka non e' ne' allegorista, ne' simbolista; Il mondo di Kafka diviene
indistinto perche' le sue metafore collidono; Le figure di Kafka non sono
piu' astratte di uomini reali: esse sono uomini che vivono solo per la
professione; L'agnosticismo di Kafka e' figlio dell'impotenza, perche'
l'impotente e' disinformato; III. La Medusa. Nel terrore il tempo resta
sospeso. Percio' Kafka da' immagini; In Kafka la bellezza e' gorgonica;
Kafka non si "esprime" piu'; Il linguaggio di Kafka e' "elevato", perche'
piu' sobrio del linguaggio quotidiano; Eppure la lingua di Kafka e'
graziosa; IV. Ateismo che si vergogna. Kafka fa parte della storia
dell'ateismo che si vergogna; Kafka permette l'irreligiosita' e si assicura
una positivita' minima; Kafka rappresenta un ritualismo privo di rituale;
Apologia dello stato incompleto; La chiamata senza colui che chiama. Per
Kafka Dio e' morto. La morte di Dio e' per Kafka un fatto religioso; Kafka
e' un marcionita. Crede in un Dio malvagio, non in nessun Dio. Trasforma
l'immorale nel sovra-morale; Kafka non vuole costruire il paradiso, ma
entrarvi. Non e' un teologo dell'ebraismo, ma un teologo dell'esistenza
ebraica; Bilancio finale; Appendice. Max Brod: Assassinio di un fantoccio
chiamato Franz Kafka; Guenther Anders: Replica a "Assassinio di un fantoccio
chiamato Franz Kafka", critica di Max Brod al mio scritto "Kafka. Pro e
contro"; Max Brod: Controreplica; Note; Postfazione, di Barnaba Maj.
*
Da pagina 29
Kafka deforma per constatare
Il monaco Massimo Planude, che pubblico' nel XIV secolo le favole circolanti
con il nome di Esopo, racconta che il volto di Esopo fosse mostruosamente
brutto, anzi deformato fino all'irriconoscibilita'. Esopo stesso non avrebbe
potuto inventare una migliore favola sulla favola: poiche' le verita' della
favola scaturiscono dalla deformazione.
E con questo siamo a Kafka. Il volto del mondo kafkiano sembra s-postato
(ver-rueckt). Ma Kafka "s-posta" l'aspetto apparentemente normale del nostro
mondo spostato per renderne visibile la follia. Ma al tempo stesso egli
tratta questo aspetto spostato come qualcosa di completamente normale; e in
tal modo descrive addirittura proprio il fatto folle che il mondo folle
passi per normale.
Invece di riconoscere che questo metodo non e' cosi' impenetrabile, si e'
visto soltanto cio' che e' fuori dal comune, nel volto del suo mondo. E lo
si e' esaltato come soprannaturale; o come onirico; o come mitico; o come
simbolico. Ma Kafka non e' ne' un esteta, ne' un santo, ne' un sognatore; e
neppure un artefice di miti o un simbolista; in ogni caso, niente di tutto
cio' in primo luogo. E' invece uno scrittore di favole realista. La
deformazione come metodo dovrebbe essere familiare a tutti noi: la scienza
moderna, per saggiare la realta', pone il suo oggetto in una situazione
artificiale, la situazione sperimentale. Stabilisce un ordine in cui
inserire l'oggetto, e in tal modo deforma l'oggetto: ma il risultato e' una
verifica. Considerati da questo punto di vista, i romanzi d'oggi, salvo
eccezioni, non sono moderni. Nel migliore dei casi essi descrivono cio' che
vedono. Kafka, invece, e piu' tardi Brecht, costruiscono situazioni
deformanti in cui inseriscono il loro oggetto sperimentale: l'uomo d'oggi. A
scopo di verifica. Un esperimento biologico in un istituto di psicologia
animale non sembra certo "realistico" come il giardino zoologico di
Hagenbeck. Un ordine sperimentale kafkiano invero non sembra certamente
realistico come un "giardino antropologico" di Galsworthy. Ma il suo
risultato e' realistico.
*
Kafka cambia i nomi
Una parte considerevole dell'opera kafkiana tratta dell'ebreo. Cosi' il
romanzo Il castello, cosi' la storia di topi Giuseppina. Ma la parola
"ebreo" compare di rado. Anzi, nel racconto intitolato Durante la
costruzione della muraglia cinese la parola "ebreo" e' addirittura
regolarmente sostituita dalla parola "cinese". Perche' Kafka attua questo
scambio di nome, che crea evidentemente un mascheramento?
Di nuovo: per un principio di conoscenza. Vale a dire, per recidere fin
dall'inizio i pregiudizi automaticamente legati ai nomi; per costringere il
lettore e se stesso a guardare in faccia senza pregiudizi cio' che egli
desidera dire; dunque, in un atteggiamento che e' il meno pregiudizievole
possibile per il raggiungimento, la rappresentazione, la mediazione e
l'accettazione della verita'. Se il realismo ha un senso filosofico, e'
questo.
Certamente non ci si puo' rappresentare questo "cambiamento di nome"
kafkiano come un atto, ogni volta nuovo, di traduzione consapevole; i
cambiamenti di nome kafkiani hanno ben poco in comune con quelli delle
Lettere persiane o dei Viaggi di Gulliver: l'attribuzione "estraniante" e'
quella, per cosi' dire, a lui naturale. In Kafka l'oggetto A si chiamera' B
gia' al primo intervento e l'oggetto B comparira' come C gia' alla prima
fissazione. Se c'e' qualcosa per cui Kafka avrebbe avuto bisogno di
un'abilita' espressiva, non sarebbe stato per l'estraniazione, ma piuttosto
per la revoca dell'estraniazione.
In se', la "naturalezza" di attribuzioni estranianti non e' un fenomeno per
noi sconosciuto. Quando un chimico, nel suo laboratorio, considera e tratta
l'acqua non come un liquido potabile, ma come H2O, questo non ci sorprende.
Sorprendente invece ci risulta quel cambiamento di nome che e' compiuto
individualmente e che viene preteso da noi, senza che il traduttore ci
consegni e autentichi espressamente la sua chiave di traduzione. Ora, e'
questo che accade in Kafka. E percio' il suo lettore necessita di
"istruzioni per l'uso".
Il metodo di Kafka consiste dunque nel sospendere, mediante uno scambio di
etichette, i pregiudizi legati alle etichette, e di rendere possibili in tal
modo giudizi liberi da pregiudizi. Quando attacca alle cose etichette
incomprensibili, egli agisce esattamente nello stesso senso. Per esempio,
egli descrive un oggetto ("Odradek") la cui funzione sembra consistere
proprio nel non avere alcuna funzione. Ma l'introduzione di questo oggetto
"senza senso", e denominato in una maniera apparentemente priva di senso, e'
tanto poco insensata quanto quella degli oggetti etichettati "falsamente".
L'oggetto ci ricorda tutte le specie di cose e macchine che l'uomo moderno
deve maneggiare giorno dopo giorno, sebbene le loro prestazioni non sembrino
aver nulla a che fare direttamente con i bisogni dell'uomo. L'uomo d'oggi si
imbatte mille volte in apparecchi la cui costituzione gli e' sconosciuta e
con cui egli puo' mantenere soltanto rapporti "estraniati", giacche' il loro
rapporto con il sistema di bisogni dell'uomo e' infinitamente mediato:
l'"estraniazione" non e' infatti un espediente del filosofo o del poeta
Kafka, ma un fenomeno del mondo d'oggi; soltanto che l'estraniazione nella
vita quotidiana viene appunto coperta dalla vuota abitudine. Attraverso la
sua tecnica dell'estraniazione, Kafka scopre l'estraniazione mascherata
della vita quotidiana: e quindi, in tal modo, e' di nuovo un realista. La
sua "deformazione" constata.
*
Da pagina 43
L'aldila' di Kafka e' questo mondo. La sua vita e' un arrivare per tutta la
vita
Diciamo "aldila'". E la maggior parte degli interpreti, che spiegano Kafka
in senso religioso senza alcuna ponderazione, saranno soddisfatti di questa
parola. Ma solo della parola. Poiche' l'aldila' di cui si tratta in Kafka
non e' affatto qualcosa di extraterreno, bensi' il mondo stesso, l'aldiqua
stesso. Egli (o il suo eroe K.) sta all'esterno, sta "al di la'
dell'aldiqua": in tal modo l'aldiqua diventa aldila'. L'identificazione tra
"mondo" e "aldila'" non significa piu' di quanto significasse, nel
socialismo utopistico, la rappresentazione dello stato futuro del mondo come
paradiso. L'aldila' in lui non e' il futuro, ne' il mondo che verra', bensi'
il mondo esistente. Chi deve "venire" e' di nuovo lui, lo straniero; poiche'
e' lui a dover arrivare, lui a sopraggiungere. L'opera principale di Kafka,
Il castello, e' la testimonianza fondamentale di questa tesi.
Questo e' infatti il contenuto del Castello: un uomo, K., si presume sia
stato chiamato in un villaggio situato presso un castello, e una sera giunge
in questo villaggio. Vuole essere accolto. Ma coloro che lo hanno chiamato
non sanno nulla della sua chiamata: dunque non viene accettato, anche se non
proprio rispedito via. Tutto il resto della sua vita - tutto il resto del
contenuto del libro - e' costituito dai tentativi e dagli sforzi, mille
volte ripetuti, per essere comunque accettato. Vale a dire: tutta la sua
vita e' una nascita continua, un "venire al mondo" che non ha fine.
L'enorme tensione che nelle religioni vere e proprie esiste tra il mondo
celeste e questo mondo, oppure tra creator e creatura - la cosiddetta
trascendenza -, qui sussiste tra K. ed il mondo, che in quanto mondo di
potere totalitariamente istituzionalizzato resta irraggiungibile. Dunque, K.
non "vive" (se, con Heidegger, la vita significa "essere nel mondo"): la sua
vita e' tutt'al piu' un fare anticamera. "In qualche modo" il nuovo venuto
e' nel mondo, ma il grado del suo esserci e' appena sufficiente a rendergli
chiaro che non e' in esso. Numerose favole kafkiane (e il suo romanzo
America) cominciano con situazioni di arrivo, che non si differenziano
fondamentalmente da quella sviluppata nel Castello, e tutte finiscono come
sforzi inutili di arrivo: "[...] la mancanza d'illusione sul fatto che tutto
sia soltanto un inizio, beh, nemmeno questo e' un inizio [...]" (Diari,
1921). E nel 1922: "Nel mio ufficio si continua ancora a fare calcoli come
se solo ora la mia vita iniziasse in modo definitivo, mentre sono alla
fine".
*
Conseguenze dell'arrivo perpetuato
Mentre i romanzi del mondo borghese interpretavano la crescita in questo
mondo come un'"educazione", in Kafka il mondo e' descritto dall'esterno, la
crescita come un naufragio. L'eroe non appartiene al mondo. Il realismo
kafkiano consiste proprio in questa eccentricita', poiche' per la maggior
parte degli uomini d'oggi il mondo - che del resto, nella teoria della
conoscenza, si chiamava gia' da tempo "mondo esterno" - e' divenuto
"esterno". La figura principale diviene cosi' un eroe in senso negativo,
perche', nel confronto con il mondo essente, si distacca in modo assoluto
come "nessuno". E' il punto centrale dei romanzi, esattamente come il punto
centrale di un cerchio: non ha estensione.
"Esserci" per Kafka significa certamente arrivare eternamente, senza
arrivare mai, quindi "non-esserci"; ma, dal momento che egli d'altra parte
non puo' negare di essere invece in qualche modo nel mondo, deve dare al
non-esserci un mascheramento positivizzante, oppure trovare forme intermedie
tra essere e non-essere. Egli trova queste forme intermedie in maniera
classica, conferendo al non-essere un significato temporale: esso diventa
"non-essere-ancora" oppure "non-essere-piu'". Nella storia del Cacciatore
Gracco, ad esempio, Kafka rappresenta l'essere partoriti come un morire,
come un "morire-dentro-il-mondo". Anni prima Gracco era morto per una caduta
(nascita), ma, in seguito ad una disattenzione del traghettatore dei morti,
non era mai giunto nel regno delle ombre: la sua esistenza e' dunque,
contemporaneamente, essere ancora e non essere piu', non semplicemente un
non-essere (temporalmente neutrale).
D'altro canto, per Kafka, colui che non arriva mai, si trasforma (giacche',
"in qualche modo e' comunque li'") in uno che, fondamentalmente, arriva
troppo tardi; e la vita si trasforma in un inseguimento di luogo in luogo:
si e' giunti e gia' s'e' mutata intenzione. Questo e' il tema esclusivo dei
racconti I coniugi e Confusione di ogni giorno. In queste storie la sfortuna
sta nel fatto che il mondo, che si frappone tra la meta del cammino e colui
che cammina, e' troppo forte: in un certo senso sommerge, con i suoi
dettagli, il cammino. Se si prende la vita stessa come un "cammino" (cosa
che Kafka fa volentieri, richiamandosi a Lao-Tse), allora ogni nuovo giorno
porta un nuovo obbligo "che allontana dalla meta"; questo conduce a sua
volta ad un nuovo obbligo, e si giunge, anche se correndo costantemente,
sempre troppo tardi. Una descrizione che si adatta ovviamente solo a colui
che, come Kafka, in fondo non ha chiari misura e ambito dei suoi obblighi, e
per il quale ogni passo significa gia' tralasciare innumerevoli altri passi,
dal momento che il mondo e' lastricato di grida d'aiuto.
*
Da pagina 102
Eppure la lingua di Kafka e' graziosa
Che il mondo e la lingua di Kafka, malgrado la loro pietrificazione (o, piu'
esattamente, in virtu' della loro pietrificazione), siano "belli", risulta
ora ben comprensibile. Difficilmente intelligibile appare pero' il fatto che
la lingua kafkiana, nonostante cio', si possa muovere con perfetta grazia.
Difficilmente intelligibile, poiche' la "grazia" e' proprio la promessa
della benevolenza malgrado la distanza; e' anzi costantemente commozione e
scioltezza giocosa: dunque il contrario della pietrificazione. La "grazia"
e' una scioltezza cosi' perfetta da poter trasformare perfino la paura in
qualcosa di "incantevole", cioe' in "timidezza".
Come si deve intendere la grazia, davvero innegabile, della prosa kafkiana?
Come un salto a lato dell'impotenza. Proprio in quanto il mondo e'
considerato la potenza superiore assoluta ed esclude ogni liberta'
effettiva, la lingua salta verso le mille possibilita' immaginate, i
congiuntivi e le frasi ipotetiche, per "giocare" cosi', non gravata dalla
realta'. "Tra i miei mucchi di terra", dice il tasso nel racconto La tana,
"posso naturalmente sognare qualunque cosa, anche un'intesa, pur sapendo
benissimo che una cosa di questo genere non esiste". "Posso" e "se". "Se
un'acrobata a cavallo, fragile, tisica, venisse spinta per mesi interi senza
interruzione in giro sulla pista sopra un cavallo vacillante di fronte a un
pubblico instancabile, da un direttore di circo spietato sempre con la
frusta in mano, continuando a frullare sul cavallo, gettando baci,
oscillando sulla vita, e se questo spettacolo proseguisse in mezzo al
fracasso dell'orchestra e dei ventilatori nel grigio futuro che continua a
spalancarsi sempre, accompagnato dall'applauso, che si estingue e poi torna
ad ingrossare, di mani che sono veri martelli a vapore" - e soltanto a
questo punto abbiamo cio' che puo' accadere in seguito (In loggione). Qui,
in effetti c'e' tutto: il se "sciolto", "il gioco" di circo e cavallo,
l'inutilita' del maneggio a forma di carosello che ricomincia a piu'
riprese, infine la dimensione di morte data da frusta e martello a vapore;
in breve: la grazia nasce dal fatto che il linguaggio, simile ad un cane che
gioca, scorrazza intorno alla potenza superiore del mondo, che occupa tutta
l'ampiezza della strada; la sua leggerezza e' la leggerezza di chi viene
reputato troppo leggero in confronto al peso del mondo, e la sua serenita'
e' quella di chi non viene preso sul serio, non quella di chi non e' serio.
*
Da pagina 105
Kafka fa parte della storia dell'ateismo che si vergogna
Solo di tanto in tanto abbiamo preso in mano fino ad ora quella chiave che
solitamente e' considerata come il grimaldello per penetrare nell'opera di
Kafka. Kafka viene definito come homo religiosus; si assicura che l'unico
accesso al suo mondo sbarrato sia quello religioso.
Anche noi ci siamo imbattuti in quei motivi kafkiani fondamentali come
colpa, redenzione, grazia, trascendenza, potenza superiore, sacrificio, che
difficilmente possono essere discussi sotto un titolo differente dal
religioso; anche se poi e' risultato che quelli che Kafka ha descritto con
concetti presi a prestito dal linguaggio religioso erano rapporti dell'uomo
con l'aldiqua, e non con l'aldila'. Resta tuttavia innegabile che gia'
questo "prestito" (il minimo, che nemmeno il piu' scettico puo' negare)
rappresenta pure un problema.
Se abbiamo rinviato cosi' a lungo la trattazione di Kafka come homo
religiosus, cio' e' accaduto perche' quest'espressione non ci sembra
costituire una risposta, ma un problema: resta dubbio cio' che questa parola
puo' designare nel nostro mondo secolare. La storia delle religioni positive
offre una lunga serie di definizioni di funzioni religiose ben distinte:
Salvatore, santo, profeta, apostolo, fondatore, riformatore, eretico e cosi'
via. Nessuno, interrogato su "che cosa" siano stati San Francesco o Buddha,
si limiterebbe alla vaga risposta: un homo religiosus. D'altra parte, pero',
nessuno neppure oserebbe applicare a Kafka una delle diverse definizioni
nominate sopra. In effetti, l'incerta espressione in fondo non puo' nemmeno
venir realmente precisata; cio' che solo puo' essere fatto oggetto
d'indagine e di comprensione e' perche' Kafka sia stato classificato in un
modo tanto vago.
Salta immediatamente agli occhi, infatti, che coloro i quali, in modo cosi'
precipitoso e cosi' generico, hanno applicato alla posizione fondamentale di
Kafka l'investitura dell'espressione "religiosa", non sono riusciti a
collegare alla parola nessuna concreta concezione religiosa. L'investitura
di Kafka ha avuto luogo nella letteratura, dunque in una sfera gia' da molto
tempo divenuta irreligiosa, o almeno indifferente alla religione. In una
sfera a cui lo stesso Kafka (se mai egli puo' essere annoverato da qualche
parte) certamente apparteneva ancora.

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