La Pace, Realismo di un’Utopia
di Francesco Comina

Testo tratto da una conferenza tenuta a Cles (TN) il 6 giugno 2003 per il ciclo organizzato dall’associazione “Korogocho e dintorni” sul tema “Maestri di pace”.

Sono passati undici anni dalla morte di Padre Ernesto Balducci. Improvvisa, imprevista. Un colpo di sonno al volante in un incrocio vicino a Cesena. L’uscita da uno stop, l’impatto con un’altra macchina e il buio. Balducci è rimasto in coma per una giornata, poi è calato lo smarrimento totale in tutti noi che l’abbiamo seguito, l’abbiamo conosciuto, l’abbiamo posto nel nostro orizzonte di fede come uno dei punti di riferimento importanti. Proprio in quei giorni mi arrivò il suo biglietto d’auguri pasquali e la comunicazione del nostro incontro per parlare di Panikkar su cui mi stavo concentrando per la tesi di laurea. Dovevamo vederci il primo maggio a Fiesole. Balducci aveva appena pubblicato, nelle sue Edizioni cultura della pace, La torre di Babele di Panikkar e aveva iniziato un percorso di recupero del suo pensiero dopo una lunga e reciproca incomprensione su alcuni temi di fondo come l’idea dell’“uomo planetario” che Panikkar considerava una nuova forma di universalismo. Ma in realtà la consonanza fra le due traiettorie di pensiero era molto più profonda di quanto apparisse dai dibattiti. E fu proprio Panikkar a chiarirla in una bellissima lettera all’amico scomparso: “Credo che in questi anni tu abbia detto e scritto, molto meglio di me, ciò che da decenni mi sta a cuore”1.
La morte di Balducci, imprevista e improvvisa, si situa in quell’apocalisse della profezia che nell’arco di pochi anni ha fatto deserto della testimonianza di pace e di fede nel nostro Paese. Uno dietro l’altro morirono i grandi maestri del cattolicesimo per la pace e per il dialogo fra le fedi e le culture, da Padre David Maria Turoldo (febbraio ’92) a padre Balducci (aprile ’92) a don Tonino Bello (aprile ’93) a don Italo Mancini (’94) ad Alex Langer (luglio ’95) a don Giuseppe Dossetti (ottobre ’96).

Il vuoto e la deriva della ragione
È inutile continuare a dire che Ernesto Balducci ci manca. E ci manca moltissimo in questo tempo in cui la guerra non solo è stata riabilitata dal punto di vista politico e giuridico, ma è diventata una struttura permanente del sistema-mondo.
Nell’ultimo decennio abbiamo assistito ad una rivoluzione in negativo della comunità internazionale, una involuzione terrificante nella storia del diritto internazionale, della cultura e dell’etica umana. Una involuzione con la quale Balducci aveva appena fatto in tempo a misurarsi durante la prima guerra del Golfo e che fino al giorno prima dello scatenamento della “Tempesta nel Deserto” egli non voleva assolutamente considerare, tant’è che fino all’ultimo minuto Balducci disse e scrisse che la guerra non ci sarebbe stata perché sull’impulso di thanatos, di morte, di distruzione rappresentato dalla volontà di potenza degli eserciti angloamericani, avrebbe prevalso la ragione del diritto che con la Carta dell’Onu aveva chiaramente messo fine al ricorso della guerra come soluzione per le controversie fra i popoli. 
Balducci parlò di un “vagito della comunità mondiale” quando pareva ancora che l’Onu potesse avere la forza di bloccare la guerra. 
Oggi Raniero La Valle, in un bellissimo libro appena uscito, ricorda il fallimento dell’analisi razionale di Balducci:

“Quello che padre Balducci non aveva voluto ammettere era che la ragione potesse contraddirsi, che l’alternativa non fosse solo tra razionale e irrazionale, ma tra diverse e opposte razionalità, che la guerra, esauriti i vecchi argomenti di ragione, poteva sempre inventarsene di nuovi, che la ragione non genera solo figli illuminati, ma genera anche mostri. Con la ragione si poteva restare nella guerra; come in effetti un’altra ragione c’era nella guerra del Golfo, nella guerra jugoslava, come una ragione c’è nell’attuale guerra globale”2.

Poi, una volta che i cacciabombardieri avevano cominciato a bombardare Baghdad, Balducci tuonò ancora – con la forza straordinaria della parola che ne faceva forse l’oratore più fine e ruggente che abbiamo avuto in Italia nel Novecento – contro l’irrazionalità di una guerra di conquista e contro il fallimento delle grandi istituzioni che per lui rappresentavano una sorta di preludio della civiltà planetaria.
Mentre la guerra infuriava Balducci teneva una serie di dialoghi per la Rai con alcune grandi personalità nel campo giuridico, antropologico, scientifico e filosofico. E lì esplodeva, proprio mentre le lingue di fuoco americane facevano deserto nel deserto iracheno, la prostrazione per l’ottimismo negato dalla realtà nefasta della guerra. In un dialogo con Antonio Papisca, padre Balducci metteva a fuoco la sua perdita di orientamento analitico:

“Ho visto crollare l’affermazione – che per me è un punto forte della nuova storia che abbiamo cominciato a vivere – del ripudio della guerra come strumento non più legittimabile dalla ragione umana. Su questo c’era, lo ritenevo, un universale consenso. Pensavo che in nessun ambito di responsabilità politica suprema nemmeno la parola guerra sarebbe stata pronunciata. Invece ne abbiamo avuto una inflazione! Pensavo che ci sarebbe stata una reazione della cultura, che ritenevo, al di là delle appartenenze ideologiche, al livello delle conquiste giuridiche realizzate dall’umanità a partire dalla Carta Atlantica in poi. Anche qui sono rimasto deluso. Anzi, ho notato uno scarto gravissimo, che ha superato ogni previsione tra la voce della cultura e i livelli delle conquiste giuridiche su cui si batte l’utopia finalmente entrata negli spessori concreti della vita effettuale”.

La fine dell’Occidente e il ritorno delle Caravelle
Ma quell’accadimento funesto, se da una parte ha rappresentato la caduta a picco dei grandi ideali sui quali si è abbeverato l’“ottimismo tragico” di Padre Balducci, dall’altra ha dato pure forza e fiato alla sua etica planetaria che sarebbe nata, secondo la sua analisi, dalle rovine della modernità occidentale. 
Per Balducci il 12 ottobre del 1492 – giorno in cui Colombo approda con le sue Caravelle armate nell’isola di Hispaniola, attuale Haiti – è una data-simbolo per rileggere la storia occidentale sotto una prospettiva critica. Quella data segna l’inizio del più spaventoso genocidio della storia con 70 milioni di indios uccisi in vario modo dai conquistadores fedelissimi ai cattolicissimi re spagnoli. Culture floridissime furono annientate e inizia il cammino sanguinoso dell’universalismo eurocentrico. Messo di fronte all’alterità più radicale, l’occidentale non ha saputo far altro che annientarla. Non è riuscito ad incontrarsi con l’altro perché il suo presupposto era lo sterminio, la conquista, la distruzione.
Balducci scrive un libro in cui immagina come potrebbe essere la storia se al posto di Colombo fosse venuto Montezuma in Europa a scoprire le nostre terre. E indaga, cerca di capire come è stato possibile il mancato incontro con gli indios. Rilegge il dibattito culturale del tempo dove affiora lo spirito razzista che ha messo in moto la prassi coloniale dei secoli seguenti. La sindrome dell’eurocentrismo non ammala solo l’anima avventuriera di Colombo al soldo di Isabella di Castiglia, non colpisce solo gli uomini del diritto, come dimostra bene il dibattito intorno alla vera natura degli indigeni, se essi siano uomini a tutti gli effetti o una sottospecie umana da schiavizzare senza tentennamenti. La malattia razzista colpisce fortemente anche la Chiesa, che deve dare sostanza alla sua teologia universalistica e giustificare ideologicamente la conquista. E così spuntano i teologi alla Josè de Acosta, che suggerisce moderazione alle spade dei conquistadores, perché “gli Indi sono intellettualmente deboli come dei bambini o delle femminucce, o piuttosto delle bestie, e quindi non bisogna vendicarsi contro di essi più di quanto è necessario per punirli o spaventarli, ne è da usare tanto la spada quanto la minaccia della frusta, così che imparino a temere e obbedire”. 
Ecco da dove sono nati, secondo Balducci, i germi infausti della “civiltà” occidentale che hanno condotto alla seconda guerra mondiale e alla costruzione della bomba atomica: “Quando Truman pose agli scienziati che avevano preparato la bomba atomica la questione se, a loro giudizio, fosse conforme alla legge morale farne uso, essi risposero che era lecito usarla contro il Giappone pur di salvare vite americane”. Ecco come nacque l’epoca moderna ed ecco come – nel ritrovare le coordinate dell’incontro con la ricchezza della diversità mancata – diventa possibile uscire da questa logica ed aprire una fase nuova nel cammino dell’uomo. 
In un altro di quei dialoghi fatti durante la guerra del Golfo, questa volta con il teologo brasiliano Leonardo Boff, Balducci invoca l’arrivo salvifico delle Caravelle dall’America Latina. Questo è uno dei passaggi più passionali e lirici dei discorsi balducciani. Ecco come egli immagina la fine dell’egemonizzazione dell’Occidente sul mondo:

“Verranno gli indios, verranno gli ignudi di un tempo, verranno i poveri con le loro culture custodite nelle loro anfore coperte di ragnatele a spezzare le anfore e a farci sentire liquori che non conosciamo. Sembra un linguaggio lirico, ma chiunque si è accostato, anche nelle aree metropolitane dove oggi infuria la violenza con gli altri, e ha parlato con un altro, con un senegalese, con un magrebino, con un latinoamericano, ha sentito lo stupore che è in noi, che siamo rattrappiti dalla presunzione di aver realizzato il modello di umanità. Se appena si spezza questa crosta di inibizione risorge in noi questa parentela ontologica con le umanità diverse. Solo questo è il pertugio per il futuro. O riconoscere la legittimità delle alterità umane, o ripiegarci in un declino disastroso. La speranza ha una via indicata. I poveri ce la portano in mano. Le caravelle ritornano”3.

La nostalgia dell’Altro
La riscoperta dell’Altro che l’Occidente, nel suo volo egemonico sulle ali dell’universalismo etnocentrico, ha sempre negato, è un altro passaggio alla civiltà planetaria. Riprendendo il percorso intellettuale del filosofo francese Emmanuel Levinas, Padre Balducci torna all’idea che l’avvenire dell’uomo ha come suo presupposto “l’epifania dell’altro”. Di più: Balducci invoca una retrospettiva storica per recuperare un senso di “nostalgia dell’altro” che ci consente di ricostruire una antropologia segnata dalla menomazione umana dovuta alla mancanza di relazione con le diversità che hanno accompagnato il cammino umano. E per recuperare questa nostalgia dell’altro, Balducci individua tre momenti significativi. Un primo momento è caratterizzato dall’esplodere del fenomeno francescano. Il bacio di Francesco al lebbroso – origine della sua rivoluzione epistemologica – rappresenta un momento importante nella scoperta dell’altro. Con quel gesto Francesco sposta il punto di osservazione del mondo dalla realtà degli inclusi a quella degli esclusi. Il mondo non si può più guardare solo attraverso il punto di vista dell’ordine, ma si può e si deve guardarlo anche dalle periferie disordinate dove vivono, muoiono e sperano gli ultimi, gli oppressi, i rifiutati, gli “altri”. Un altro momento in cui si rivelò un sentimento di nostalgia dell’altro, Balducci lo coglie nella battaglia al fianco degli indios contro i conquistadores del frate “convertito” Bartolomè de Las Casas. Da religioso organico alla conquista egli divenne il più grande difensore degli indios quando scoprì il volto dell’altro e capì che quel volto negato era una emanazione del volto del totalmente Altro. E si convertì agli indios, li difese, li protesse perché essi erano uomini ancora immuni dal peccato originale. E il terzo momento, per padre Balducci, è rappresentato dall’Utopia di Tommaso Moro, che si è fatto portatore di un’alternativa di pace, di tolleranza e di solidarietà in un’Europa in cui spiravano i venti minacciosi della guerra e della distruzione di altre civiltà.
Il recupero di un sentimento di profonda nostalgia dell’altro è necessario più che mai oggi,

“perché siamo chiamati da una pressante necessità della stessa sopravvivenza del genere umano a sperimentare una forma di amore che arrivi fino ad assumersi addosso il destino degli Altri. Mentre parlo, ho dinanzi agli occhi innumerevoli presenze di uomini che vivono così. Ma chi ne parla? Le nostre cronache parlano di bizzarrie altolocate. Ma di questi uomini chi ne parla? È giusto che sia così? Ma in questo vangelo segreto che continua ad essere scritto, è nascosto il mistero dell’uomo e, insieme, è nascosto il mistero di Dio”4.

Uomo edito e uomo inedito
Ma per andare fino in fondo alla scoperta dell’altro diventa importante – nell’analisi di Balducci – anche il recupero dell’altro che è in noi, perché ogni individuo porta in sé una dialettica fra l’homo editus e l’homo absconditus, fra un uomo totalmente conforme alla cultura data e un uomo che trascende i modelli codificati della società corrente per farsi interprete di un senso umano, etico e sociale che dorme nel profondo. Balducci parla diffusamente nei suoi libri e nelle sue conferenze di questa dialettica fra homo absconditus ed editus, che egli riprende dalle analisi di Ernst Bloch. 
La guerra moderna che poi ha prodotto – nel suo volo nefasto verso la consapevolezza tecnologica – Auschwitz e Hiroshima, altro non è che la vittoria dell’homo editus sull’homo absconditus e, sul piano religioso, la vittoria del Dio edito, funzionale al sistema, sul Dio nascosto, il Dio dei poveri e degli inermi, il Dio dei costruttori di Pace e il Dio dei nonviolenti; il Dio dei grandi maestri su cui Balducci si trattiene in meravigliosi saggi: il Dio di San Francesco e di Gandhi, il Dio di papa Giovanni e Giorgio La Pira, il Dio di Romero e dei martiri dell’America Latina. 
È il Dio della croce che rivela la sua natura nonviolenta nell’atto del sacrificio d’amore impotente. Non onnipotente, ma impotente. Perché Dio sulla croce è presente nell’assenza, è presente nell’amore del Padre, ma non ha il potere di difendere il Figlio ucciso dalla mano armata dell’homo editus. È “l’abisso d’amore fra le due parti” di cui parla Simone Weil, “che avvicina il Padre al Figlio e il Figlio al Padre senza che ci siano segni tangibili o miracoli visibili”.

La ragione armata
Per entrare in comunicazione con questo Dio bisogna – secondo Balducci – spogliarsi di tutta l’armatura della cultura corrente e tornare ad essere puri come i bambini. Balducci riprendeva spesso una immagine di Raimon Panikkar, che invitava gli intellettuali a liberarsi dalla corona della loro “ragione armata”. “La ragione – sostiene Panikkar – spesso diventa un impedimento alla conoscenza dell’altro perché si carica di tutto un armamentario di dogmi intellettivi che impediscono alle altre ragioni di fecondare la propria. E così si impone come un’arma che uccide”.
Balducci invitava i teologi a togliersi di torno la ragione armata

“perché noi siamo armati come Schwarzkopf – urlò una volta in un convegno alla Cittadella di Assisi – noi abbiamo l’intelligenza armata che ci porta continuamente a fare le guerre in nome di una presunta superiorità religiosa di un credo sugli altri. Ma il comandamento del Signore è quello di tornare bambini inermi. Anche da un punto di vista religioso noi dobbiamo eliminare i nostri paludamenti dottrinali che ci impediscono di entrare in relazione con le altre grandi religioni dell’umanità. Per comprendere gli altri bisogna tornare puri come i bambini. Così fece Francesco quando, liberatosi dall’intelligenza armata, poteva penetrare nel profondo dei segreti delle cose”.

La coscienza planetaria 
Questo spogliamento non è solo un fatto della coscienza individuale, ma è un obbligo che ci viene dalla mutazione antropologica che le religioni vivono nel tempo della possibile apocalisse atomica. L’evento aurorale di Assisi del 1986, con la convocazione da parte del Papa di tutti i responsabili delle grandi religioni dell’umanità, venne letto da Balducci come la trasformazione dell’impossibile nel possibile, come la presa di coscienza del primato della vita sulle spinte dell’apocalisse cosmica. Nel finale del suo L’uomo planetario, Balducci legge quell’evento come un “crepuscolo” capace di fare cadere per sempre le grandi ideologie che hanno guidato la storia dell’Occidente:

“Il Papa ha chiamato sé e i rappresentanti delle grandi tradizioni religiose dell’umanità a confrontarsi con chi? Nemmeno con Dio. Ma con l’uomo minacciato di estinzione. Una conversione antropologica è in atto perché invece di misurarsi sull’asse verticale delle proprie certezze dogmatiche, le religioni si sono disposte sull’asse orizzontale del futuro dell’uomo”.

Il realismo dell’utopia 
Perché la pace nasce da un profondo realismo, da una forte presa di coscienza del limite invalicabile nel quale l’umanità si è spinta con Hiroshima e Nagasaki. Il fungo atomico è il segnale, l’ultima frontiera, il baratro che conduce all’apocalisse. 
Da allora l’umanità sa di essere mortale. Nessuno può salvarsi. Come scriveva il frate scienziato Teilhard de Chardin in quegli anni:

“Non si tratta più di una semplice manomissione di ciò che esisteva già, pronto e servito nel mondo. Questa volta siamo di fronte a una porta definitivamente forzata, che dà accesso a un altro compartimento, ritenuto inviolabile, dell’universo. L’uomo si serviva della materia. Adesso è riuscito ad afferrare le leve che comandano la stessa genesi di tale materia”.

In questa tragedia, in questa biforcazione ultima della vicenda umana, Balducci vedeva il trionfo della ragione, che mai e poi mai avrebbe scelto di imboccare la strada del suicidio cosmico:

“La lezione che ci viene dalla specie umana è che, messa di fronte ai dilemmi estremi – e oramai il dilemma è fra vita e morte – essa è in grado di rivelare insospettate risorse creative. La novità è affidata alle viscere della necessità. Che sui passaggi cruciali della sua nascita ci sia buio non deve far meraviglia. Come scrisse Ernst Bloch, ai piedi del faro, non c’è luce”5.

Balducci ha vissuto fino all’ultimo respiro questa consapevolezza che l’uomo abbia risorse in sé per superare i suoi limiti, che la ragione abbia la forza sufficiente per battere l’istinto preistorico della violenza contro gli altri, che sulla soglia atomica significa il suicidio della Madre Terra. Perché la sua testimonianza di fede era messianica. Le sue omelie domenicali, alla badia fiesolana, erano caratterizzate da questo, ossia che nonostante la guerra, nonostante gli eccidi, nonostante lo spettacolo desolante dell’ingiustizia planetaria, nonostante tutto questo “peccato” che trasuda dalle pareti della terra governata dagli uomini, si sente in lontananza il respiro di una nuova vita che sta nascendo, la vita di un mondo possibile: “Dobbiamo crederci. Dobbiamo forzare l’aurora e nascere”.

1 R. Panikkar, Lettera a Ernesto Balducci, in La pace sfida le religioni, Altrapagina, Città di Castello 1993.
2 R. La Valle, Prima che l’amore finisca, Ponte delle Grazie, Milano 2003, p. 229.
3 E. Balducci, Le Tribù della Terra. Orizzonte 2000, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1991, p. 174.
4 E. Balducci, L’Altro, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1996, p. 72.
5 E. Balducci, La Terra del tramonto, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole, p. 214.

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