Ernesto Balducci e il dissenso creativo
di Enzo Mazzi


manifestolibri, Roma, 2002


Tratto da http://www.tecalibri.it/

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INTRODUZIONE

IL CROGIOLO DEI FERMENTI DI DISSENSO CREATIVO

Ernesto Balducci è uno dei testimoni di una Firenze che nei decenni dopo il fascismo e dopo la guerra ha dato un forte contributo alla diffusione planetaria di una nuova speranza nel superamento di tutti i confini, di tutti i nazionalismi e di tutti i razzismi comunque mascherati, nel raggiungimento di crinali storici che si aprivano su orizzonti inediti. È un testimone di una Firenze trainante, ad opera dei movimenti di base negli anni '60, nel grande sforzo di unificazione del pianeta nel segno del dissenso creativo, dopo che la guerra e l'equilibrio del terrore avevano dato sì al mondo la coscienza della interdipendenza globale, ma nel segno tragico della distruzione e della paura. Balducci è un testimone di una Firenze dove tante persone hanno pagato prezzi assai alti per il loro impegno in questo tentativo grandioso di transizione dalla globalizzazione della paura e della sottomissione alla globalizzazione del dissenso creativo e della speranza.

Un esempio è l'esperienza del sindaco Giorgio La Pira. È arduo parlar di dissenso in relazione a La Pira, così ligio al principio di autorità. Come giudicare però il suo andar contro corrente? Le sue contraddizioni ci possono forse impedire di affermare che il suo impegno complessivo si sviluppò sotto il segno del «dissenso» verso la guerra fredda e verso tutte le strategie di contrapposizione e di demonizzazione reciproca dei due mondi che si contendevano il dominio globale, economico, culturale, ideologico, militare, strategie di cui le chiese cristiane si facevano anima? Altri segni profetici di dissenso creativo, fra i tanti della memoria fiorentina: don Lorenzo Milani, «l'obbedientissimo - disobbediente», con la scuola di Barbiana tesa, pur fra tante contraddizioni, alla diffusione mondiale della coscientizzazione delle classi popolari, «uniche capaci - diceva - di raddrizzare il mondo quando l'avranno giudicato e condannato con mente aperta e sveglia come la può avere solo un povero che è stato a scuola», un povero che ha imparato che «l'obbedienza non è più una virtù»; l'impegno dell'architetto Giovanni Michelucci, il quale in opposizione alla «città carcere» progettava «la città tenda», la città cioè che si espande accettando dentro di sé il diverso non per puro dovere di ospitalità ma come speranza progettuale, come cultura superiore rispetto agli equilibri militari e del terrore che ci sovrastano e ci rendono tutti come carcerati; la rivista «Il Ponte» animata da Enzo Enriquez Agnoletti; la comunità della Resurrezione, una delle prime comunità di base, animata da don Luigi Rosadoni; i preti operai fiorentini fra i primi in Italia a cimentarsi col lavoro in fabbrica; l'esperienza dell'Isolotto in cui, anche qui fra tante contraddizioni, un insieme di culture negate si trasforma in un crogiolo di identità comunitaria oltre i confini, oltre ogni «tempio», trovando risonanze e affinità in tutto il mondo.

Qui, in questo crogiolo di «dissenso creativo» si colloca e trova il suo senso più pregnante l'esperienza di Ernesto Balducci. Lui chiamava tale crogiolo «momento aureo».

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Dissenso è un termine negativo e in senso negativo viene usato ampiamente a scopo repressivo. In realtà il dissenso presuppone creatività positiva e la genera. Il dissenso si potrebbe avvicinare al senso critico o al pensiero divergente o al profetismo biblico.

Il dissenso è come l'anima della vita, della storia e non ultimo della fede. Senza dissenso c'è solo sudditanza, servilismo, dipendenza, idolatria. Senza possibilità di esprimere dissenso c'è regime, autoritarismo, dominazione.

È quanto afferma ripetutamente lo stesso Balducci, in particolare in una intervista pubblicata su I nuovi preti di Mario Pancera (ed. Sperling & Kupfer, Milano 1977). L'autore domanda: «Il popolo cattolico può allora esimersi dall'obbedire alla gerarchia ecclesiastica così com'è ancor oggi intesa?». Balducci non si sottrae alla domanda insidiosa e dà una risposta che certamente non avrebbe data in quegli stessi termini dieci anni prima, negli anni caldi: «L'obbedienza ha rovinato il mondo. L'obbedienza è diventata uno strumento per l'alienazione della coscienza. E, una volta alienata la coscienza, l'uomo è in stato di totale soggezione al potere. Il Vangelo invece annuncia la liberazione dell'uomo. [...] Annunciare il Vangelo senza annunciare la liberazione dallo stato di dipendenza significa usare il Vangelo come oppio per i popoli».

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LA RIVOLUZIONE CULTURALE

DEL DISSENSO: DALL'ANTAGONISMO ALLA CONVERGENZA

Settembre 1995 (prima parte)

L'Associazione «Ernesto Balducci» di Zugliano mi ha invitato a dare una testimonianza su Ernesto nell'ambito di un tema a lui così caro quale il rapporto fra la fede, le religioni e la città.

Non solo delle sue idee vorrei parlare, ma della sua esperienza di vita e delle sue relazioni all'interno delle quali hanno valore le ardite intuizioni, le lucide analisi e le luminose prospettive. Non solo della sua singolarità vorrei parlare ma di quella fucina ribollente e di quel fiume in piena che fu la Firenze dei decenni dopo la guerra e di quella matrice feconda che fu il processo planetario di transizione e di trasformazione complessiva a cui egli fortemente contribuì e che dà senso e pregnanza alla sua singolarità.

Parlando al Convegno fiorentino di Testimonianze su La sfida delle città, nel dicembre 1987, egli delineava con un paradosso il processo di crisi/rinascita della città: «è finita l'epoca della città; comincia l'epoca della città». Quando dice «città» egli intende la rete delle relazioni umane, lo spazio del rapporto diretto tra uomo e uomo, tra uomo e società, tra uomo e natura. Si potrebbe dire che per lui la città è la comunità umana nella sua essenzialità. È un tema che mi è molto caro perché sulla rete di relazioni, che noi chiamiamo «comunità di base», ho scommesso insieme a tanti altri il senso dell'esistenza. L'antinomia enunciata è giustificata dal fatto che «la città che finisce non è la stessa cosa della città che nasce; l'uomo che abita la prima non è l'uomo che abita la seconda». E lì, nel cuore di questa trasformazione antropologica, collocava la pietra fondamentale della sua speranza: «Ecco perché - diceva - la possibilità di un futuro è legata a una condizione, quella della transizione da una cultura di guerra a una cultura di pace». Ma la città non è spettatrice di questa transizione. Non sta lì nella notte della crisi ad aspettare un nuovo sole che le consenta di rivivere. La città è «il laboratorio primo di questa transizione»: essa «dovrà reinventare se stessa agendo su due fronti, quello esterno e quello interno».

Il fronte esterno è per Balducci «la formazione di una civiltà planetaria, di una 'Ecumenopoli' come la chiama Toynbee, di una 'città-mondo' come la chiama Mumford, che renda sempre più desuete le forme aggregative degli Stati ispirate sempre alla volontà di potenza e alla legge competitiva del mercato». Balducci non è un sognatore ingenuo: egli si guarda dal contrapporre la diplomazia delle città alla diplomazia degli Stati come se questa fosse il passato e quella fi futuro. Egli tiene ben presente che la dialettica tra il vecchio e il nuovo attraversa l'intera società internazionale nelle sue articolazioni politiche, economiche e religiose. Ma il punto generativo e risolutivo di questa dialettica sono per lui le città. È questo il principio della speranza che egli individua come senso di un processo storico e di un trapasso storico in sé ambiguo. E su questo insiste: sono le città il grembo della gestazione, «le città in quanto spazi naturali della elaborazione del rapporto diretto tra uomo e uomo, tra uomo e società e tra uomo e ambiente».

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O DIO LIBERACI DA DIO

[...]

Io sono convinto che la fine del sacro è la fine della cultura della guerra e che non ci può essere cultura di pace se non con la eliminazione del sacro.

Quando si diffuse il messaggio di Gesù che era il messaggio della pace, della nonviolenza: «in qualunque casa andate e dite: pace a questa casa», il messaggio cristiano era un messaggio di pace. I primi cristiani vivevano al di fuori delle strutture sacrali, celebravano l'eucaristia in casa e non nel tempio. Lasciarono il tempio, anzi furono gettati via dal tempio, non avevano sacerdoti, i loro ministri erano i «presbiteri», cioè gli anziani, rifiutavano le parole sacrali. La loro collocazione nella società era una collocazione di tipo laico. Sono parole, capisco, che hanno una loro storia e non si possono proiettare nel passato senza improprietà, ma mi si capisca. Non avevano cornici sacre. Il mondo pagano era un mondo religioso. I cristiani erano combattuti perché non erano religiosi cioè non avevano una simbologia sacrale, non sacrificavano a nessuno. Il loro momento espressivo era la cena. E non c'erano tra loro gerarchie ma ministeri. Quindi anche questa struttura sacrale della gerarchia non esisteva. I cristiani obiettavano di fronte al mondo della potenza, di fronte alla ideologia imperiale, di fronte ad una unità del mondo basata sulla coesione, sul parcere subiectis et debellare superbos. I cristiani non accettavano questo. E morivano versando il sangue per l'umanità nuova.

Quando è avvenuto l'inserimento delle comunità cristiane negli spazi del potere c'è stata la sacralizzazione della Chiesa. È cominciata l'avventura della fede dentro le categorie del sacro.

E qui dovrei ricordare che le categorie del sacro non sono l'invenzione del diavolo. Sono le funzioni di ogni società, come l'antropologia culturale ci spiega. Il sacro ha una funzione nella società, una funzione scambiabile anche. Non è detto che il sacro debba essere solo di tipo religioso, come ricordava Giorgio Spini che ha parlato prima. E Emile Giurkaieff, che ha studiato il rapporto tra religione e società, si mostrava preoccupato all'inizio del secolo constatando il deperimento definitivo del cristianesimo, interrogandosi su quali altri simboli sacri sarebbero venuti a sostituire questo vuoto pericolosissimo. Sbaglieremo se identificassimo il sacro con la sua espressione di tipo religioso. La sacralità è una funzione del potere, del dominio e dell'espropriazione dell'uomo. Ovunque si affenna lo spazio sacro ivi c'è l'interdizione dell'uomo di inserirsi con l'azione o con la ragione. Ove c'è il sacro ivi c'è la frattura. La sacralità esterna è la proiezione di una frattura interna, di una mancanza di autonomia.

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