I bambini e la pace nell’insegnamento di don Tonino

Un apparente paradosso
Dovrei parlare brevemente del modo di educare i bambini alla pace. O, se volete, dovrei indicare agli adulti le tecniche per insegnare ai bambini l’amore per la pace.
Ma mi chiedo subito se qui non stiamo invertendo i ruoli!
Siamo noi adulti che dobbiamo salire in cattedra e impartire lezioni ai bambini, o non dovremmo invece, noi adulti, metterci ai banchi come tanti scolaretti e apprendere gli insegnamenti di questi minuscoli maestri che, in tema di pace, ci sopravanzano per conoscenze teoriche e per applicazioni pratiche?
Siamo alle solite.
Il buon Dio – osservava qualche anno fa Bernasos – ha detto ai cardinali, teologi, saggisti, storici, giuristi, romanzieri, a tutti insomma: "Diventate simili ai fanciulli". E cardinali, cardinali, teologi, storici, saggisti, giuristi, romanzieri, vanno ripetendo di secolo in secolo all’infanzia tradita: "diventate simili a noi".
Il problema dell’educazione alla pace, insomma, non dovrebbe assolutamente assillare gli adulti, ma dovrebbe preoccupare i bambini. Più che essere noi grandi a studiare le metodologie giuste per iniettare nelle vene dei piccoli la linfa salutare della pace, dovrebbero essere loro a introdurre nella nostra circolazione sanguigna gli anticorpi in grado di neutralizzare i virus della guerra. Dovrebbero essere loro, cioè, a organizzare i corsi, dibattiti e tavole rotonde sul tema: "Come insegnare ai grandi l’amore per la pace".
Qualcuno potrebbe pensare che questo modo di impostare il problema soffra di smania di originalità a ogni costo, vada alla ricerca dei passaggi sensazionali, e obbedisca al gusto del paradosso. Invece non è così. Alla base del nostro ragionamento c’è la realistica convinzione che i bambini, in fatto di pace, sono soggetti privilegiati di un incredibile carisma evangelizzatore.
Lasciarsi evangelizzare dai bambini. Con la stessa fiducia con cui nell’America Latina i Vescovi dicono che bisogna lasciarsi evangelizzare dai poveri!
Se siamo disposti ad accogliere questo principio, ci accorgeremo che ogniqualvolta noi grandi ci rapportiamo con i piccoli sul tema della pace, in ultima analisi, invece che dare, siamo noi a prendere qualcosa da loro: o come "souvenir" della nostra innocenza passata o come profezia del nostro destino futuro.
E allora?
Dovendo andare alla svelta e concludere con qualcosa di concreto, mi permetto di suggerire due piste di impegno.

Non inquinare il loro pozzo
La prima pista riguarda quella "maxima reverentia quae puero debetur", secondo l’espressione classica di Giovenale. Che, tradotto in moneta corrente, vuol dire: avvicinarsi al bambino con timore e tremore, preoccupati di non introdurre nel suo vergine mondo le schegge erranti della nostra logica di adulti.
Se, cioè, non ce la sentiamo proprio di andare a scuola dai bambini in materia di pace, dobbiamo almeno astenerci dall’inquinare i loro pozzi con i liquami della nostra cattiveria.
E qui il discorso cade in primo luogo sui mezzi di comunicazione di massa, sui loro messaggi violenti, sulle loro proposte aggressive, e su tutta la gamma della persuasione occulta sottesa a tantissimi programmi apparentemente innocui che esaltano le ragioni del più forte, il successo del più bravo, il prevalere del più dritto.
Il discorso si estende poi alla sfera relazionale dei bambini col mondo degli adulti non è raro che le prime decostruzioni del loro istintivo sistema di pace vengano messe in atto proprio da certi atteggiamenti dei grandi, permeati dalla logica dell’accumulo, del profitto, della carriera, del potere, della discriminazione e del sorpruso dell’uomo sull’uomo.
Accade così che i bambini, che della pace sono maestri nati, sia pure di carriera breve, diventano taciti scolari di una disciplina di segno contrario, comunicano a svendere le ricchezze di cui madre natura li ha resi indiscussi titolari e le sostituiscono con i moduli correnti della logica della violenza.

Abbeverarsi alla loro acqua
La seconda pista si riferisce a quel "nisi efficiamini sicut parvuli…" di cui parla il Vangelo di Matteo, il quale mette sulla bocca di Gesù l’invito esplicito a diventare bambini se si vuol entrare nel Regno: se si vuole, cioè, che la propria vita raggiunga il vertice della sua umanizzazione.
E che cosa, in tema di pace, hanno da dire i bambini a noi adulti che vogliamo metterci alla loro scuola?
Essi ci danno, soprattutto, lezione di solidarietà.
Dipenderà dalla loro fantasia, o dalla loro capacità di fare a meno dei ruoli, o dalla loro attitudine di sistemare la realtà in mille modi diversi, certo è che i bambini hanno da annunciarci verità primordiali in fatto di apertura, di integrazione e di accoglienza. Il diverso per loro non fa problema. L’altro è sempre un partner con cui spartire qualcosa. Il rivale finisce sempre col diventare compagno. Colui che sopraggiunge non deve essere eliminato. Male che vada, le loro reazioni saranno quelle effimere della gelosia, mai, però, quelle tragiche del rifiuto, e anche i gesti spontanei dell’accaparramento, dopo le prime resistenze, si scongelano sempre nell’empito gaudioso della condivisione.
Segno chiarissimo di questa nativa attitudine alla solidarietà è il fatto che il bambino sa giocare col diverso, senza impensierirsi, così come Isacco giocava con Ismaele, il figlio della schiava. E’ l’adulto che scompagina questo archetipo dell’"homo ludens", come fece Sara la quale, quando vide che Ismaele, il figlio di Agar l’egiziana, scherzava con il figlio Isacco, intuendo che l’uguaglianza nel gioco potesse preludere ad altre uguaglianze nei diritti, disse ad Abramo suo marito: "scaccia questa schiava e suo figlio, perché il figlio di questa schiava non deve erede con mio figlio Isacco".
Ma, oltre che di solidarietà, i bambini ci danno anche insegnamenti di nonviolenza. Questo asserto può sorprendere qualcuno, perché sembra contraddetto dalla constatazione che tra i bambini scoppia spesso il litigio e il più delle volte la prepotenza esplode nell’uso delle mani.
E’ vero: a guardare in fondo, però, la violenza dei bambini appartiene ancora allo stadio epifanico della conflittualità, ma non è assolutamente passata, come per noi adulti, allo stadio di strumento risolutore dei conflitti. Tra di loro, cioè, i conflitti non vengono regolati dalla violenza, e i rapporti non vengono stabiliti sugli schemi della forza, e il convivere non è fissato dai parametri dell’egemonia e della subalternanza.
Noi grandi, per la legittima difesa dei nostri diritti, siamo a corto di alternative ai metodi violenti e pretendiamo, come diceva Gandhi, di spuntare la spada del tiranno urtandola con un acciaio meglio affilato. I bambini, invece, posseggono una gamma incredibile di modalità per la soluzione dei loro conflitti: il ricorso alla mediazione degli adulti, la facilità di contrattazione reciproca, l’accomodamento rapido sui loro piccoli interessi, il lasciarsi distogliere da interessi più grandi, l’improvvisa capacità di dono che scoppia nel bel mezzo di una sindrome d’egoismo, il sorriso che si fa largo tra le lacrime e stempera l’odio, l’abbraccio che ratifica un’amicizia ritrovata, il tornare a dormire insieme lasciando indifese le loro conquiste…

La famiglia laboratorio di pace
La conclusione più logica che ci sembra di poter trarre, senza distribuire acriticamente diplomi in pedagogia a nessuno, è che adulti e bambini si educano reciprocamente alla pace.
I primi, controllando il loro linguaggio. Sorvegliando la loro relazionalità, in modo che i piccoli non incorporino troppo presto i germi dell’ odio e della violenza. Costituendosi perenne riserva critica nei confronti delle discriminazioni, delle ingiustizie, degli abusi di potere, delle emarginazioni razziali, delle disparità tra uomo e donna. Praticando lo stile dell’accoglienza e aprendosi con fiducia alle categorie della diversità senza vederla come disturbante, mostruosa, da eliminare. Elaborando ad alta voce modelli alternativi a quelli che fanno poi germogliare la corsa alle armi, la distribuzione iniqua delle ricchezze, i fenomeni della fame nel mondo, le disparità tra i Nord e i Sud della terra…
I bambini, invece, educano gli adulti alla pace offrendo loro non certo il pretesto per sterili nostalgie nei confronti di un paradiso perduto, ma il parametro realistico su cui rettificare costantemente la propria condotta. Perché, se, come diceva Hérold, il bambino è un ottimo punto di partenza per l’uomo, è anche vero che l’icona meno infedele del suo punto di arrivo. Sta entrando, cioè, nella coscienza comune, pur senza superflui romanticismi, che se vogliamo disegnare l’uomo nel suo stadio di evoluzione finale dobbiamo sempre più pensare al bambino.
Se tutto ciò è vero, almeno in parte, a nessuno sfugge come il primo laboratorio dove avvengono le sintesi vitali sui valori della pace sia la famiglia. Essa non solo è chiamata a vivere la convivialità delle differenze, ma ha il compito di riscoprirsi, con maggiore convinzione, deposito spirituale per fronteggiare quella "perdita d’anima" della nostra società, così atrofica di relazioni e così esposta al fascino perverso della violenza.


*articolo recuperato grazie alla preziosa collaborazione di Giuseppe Nappi e Laura Cirillo

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