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Mosaico di pace, aprile 2003

Uomo del Sud
di Guglielmo Minervini

Doveva essere già notte. Una domenica di ottobre. Il silenzio aveva calato il sipario su una giornata delle solite. Agenda serrata, messe, attività, incontri. Forse c’era la luna ad allungare, oltre la linea dell’orizzonte, lo sguardo, il silenzio e il vuoto della solitudine. Di fronte, il mare e la sua distesa d’abbandono. Alle spalle, la piccola Tricase.

Lì, in quel punto preciso della sua finis terrae, dove l’Adriatico s’incontra con lo Ionio solo per riversarsi nel Mediterraneo, o ti senti la periferia estrema del continente oppure la porta più avanzata verso l’oriente. O fuori gioco o al centro di un altro gioco.

Non era ancora vescovo, don Tonino, quando scrisse questi versi, un po’ poesia un po’ preghiera. Solo giovane e sacerdote e dentro la scommessa che fede sia sinonimo di cambiamento non di rassegnazione. Di rassegnazione doveva averne incontrata parecchia quel giorno. “Dai a questi miei amici e fratelli/ la forza di osare di più./ La capacità di inventarsi. La gioia di prendere il largo./ Il fremito di speranze nuove./ Il bisogno di sicurezze/ li ha inchiodati a un mondo vecchio, che si dissolve,/ così come hai inchiodato me su questo scoglio, stasera,/ col fardello pesante di tanti ricordi./ Dai a essi, Signore, la volontà decisa/ di rompere gli ormeggi./ Per liberarsi da soggezioni antiche e nuove./ La libertà è sempre una lacerazione!/ Non è dignitoso che, a furia di inchinarsi, si spezzino la schiena per chiedere un lavoro ‘sicuro’./ Non è giusto attendersi dall’alto le ‘certezze’/ del ventisette del mese./ Stimola in tutti, nei giovani in particolare,/ una creatività più fresca, una fantasia più liberante,/ e la gioia turbinosa dell’iniziativa/ che li ponga al riparo da ogni prostituzione”.

Don Tonino pacifista, nonviolento, poeta. Ma anche riformatore sociale. Del sud.

Anzi, l’ultimo grande riformatore sociale del mezzogiorno. Ha infranto le regole del buon costume episcopale, frantumato le sbarre invisibili (chi si ricorda di Pasolini?) dell’esclusione sociale, sovvertito l’ordine dei valori dominanti. Come tutti i grandi riformatori ha misurato la fatica del cambiamento prima sui problemi concreti, strutturali, quelli che si toccano. La casa, la disoccupazione, il disagio, le criminalità, lo sviluppo. La polvere e la strada. E poi le cose che non si toccano, la culture, le relazioni. Lo scetticismo. Le coscienze.

E’ stato poco nei ranghi, specie da vescovo. Scende in piazza con gli operai, lotta con i marittimi, accoglie sfrattati e prostitute in episcopio, solidarizza con i profughi albanesi, s’indebita (se stesso, non la diocesi) fino all’ultimo capello per fondare comunità d’accoglienza, promuove petizioni per lo sviluppo civile e non militare del suo territorio, gira di notte nelle zone d’ombra della città raccogliendo ubriachi, matti e sbandati, litiga con gli amministratori, denuncia l’impianto clientelare delle politiche sociali, dinanzi all’omicidio del sindaco mette sul banco degli imputati le responsabilità collettive della città piuttosto che quelle soggettive del “mostro”. Un rompiscatole. Un vero rompiscatole.

Non semplicemente un abile creatore di rovesci e paradossi, con il gusto di rompere le uova delle consuetudini nel paniere delle contraddizioni, ma un’intelligenza appassionata che s’infila lucida nel cuore dei problemi. Il cambiamento del meridione passa per la testa dei meridionali. “Rompere gli ormeggi” evoca un movimento molto simile a quello del distacco, del viaggio, insomma dell’esodo. Dalla terra della soggezione e della dipendenza a quella dell’autonomia e della “creatività”. Pensarsi in grado di generare futuro, di tracciare con le proprie gambe una strada inedita e originale. Rielaborare con audacia la propria storia e la propria identità senza dissimularle sotto altre spoglie. Osservare il mondo a partire dal proprio punto di osservazione e non immaginando di essere altrove. Vedersi da sud non da nord, si direbbe oggi con le categorie del pensiero meridiano di Franco Cassano. Un sud dalla schiena dritta e non curva, con la testa in avanti e non rivolta all’indietro.

Certo Don Tonino vescovo non ha più di fronte il sud contadino e immobile di Dorso, Scotellaro e Salvemini. La sua Puglia è un mezzogiorno sospeso tra passato e futuro, tra immobilismi e dinamismi, tra conservazione e innovazione. Inoltre, nel tempo di cerniera che attraversa, la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, il potere non ha più la forma beffarda, sfuggente e intangibile descritta da Sciascia ma al contrario appare precario e fragile.

Eppure molti nodi del sud non si sono ancora sciolti e don Tonino sperimenta sulla carne la tensione di questo stato di fragilità e potenzialità. Essere vescovo al sud è difficile. I problemi sono più complessi, profondi, aggrovigliati. I tempi sono lenti, i passaggi lunghi e contorti. La normalità confina strettamente con l’eccezionalità e, talvolta, invade l’eroismo. Così, se vuoi incidere, devi dotarti di pazienza storica, sguardo esteso e simboli efficaci. Don Tonino lo sa.

Di quella tradizione di cui era impastato, non è difficile distinguere in lui molte tracce comuni. Utopista, tormentato, irrequieto, certamente vulnerabile, perfino contraddittorio. E’ il modo specifico con cui si regisce alla propria condizione di disadattamento, al sentirsi profondamente incarnato in una terra, amarla nelle viscere, portarsela nel sangue ma nel contempo soffrire il perimetro ristretto dei suoi limiti, avvertire il disagio delle sue insufficienze.

Ancora oggi, a dieci anni di distanza dalla morte, Don Tonino Bello è difficile da collocare. Troppe cose sfuggono agli stereotipi. Non solo la Cinquecento senza autista e l’episcopio senza anticamera, ma anche Gramsci, Pasolini, Bonhoeffer insieme a Moltmann e a Buber.

Daltronde è la sorte toccata anche alla millenaristica tradizione del Mezzogiorno, da Gioacchino da Fiore a Ignazio Silone, in cui l'atavica sete di giustizia non ha mai smesso di spingere la coscienza, spesso solitaria, oltre le strutture incompiute delle istituzioni e della politica. Forse ciò che don Tonino aggiunge a questa nobile tradizione è proprio la sua vicenda di vescovo, cioè il tentativo di conferire alla coscienza una natura collettiva, una dimensione comunitaria, di sradicarla dalla narcisistica consolazione del proprio destino per trasformarla nel polmone che soffia sul bisogno di cambiamento del suo popolo.

La tensione della coscienza liberatrice è stata da don Tonino ricondotta dentro le istituzioni non come inatteso ospite, ma come elemento originario e costitutivo, da cui la stessa struttura trae motivo di esistenza.

La naturalezza, con cui ha rimesso la struttura al servizio della coscienza, richiama per molti versi gli echi ormai lontani delle pagine di Silone dedicate a Celestino V. Anche don Tonino ha incessantemente ribadito, per dirla con Silone, che "Dio ha creato le anime non le istituzioni" ma non ha rinunciato alla sfida. Non si è dato per sconfitto.

Perfino la prova ultima della malattia, nella tensione profondissima del dolore, è stata trasformata in un'eccezionale occasione di grazia cui l'intero popolo ha preso parte.

Da un travagliato smarrimento, don Tonino scorge nella sofferenza il tempo vitale per riaffermare in modo autentico il senso della speranza. Con un’ansia intima di futuro e una fresca fiducia nella possibilità di riconciliarlo ancora con il presente.

Anche per questa ragione la voce di Don Tonino sarà apparsa così dissonante rispetto al coro. Eppure a un presente riconciliato con il futuro, la storia di oggi ancora ci spinge.

Don Tonino Bello, vescovo della Diocesi di Molfetta e Presidente nazionale di Pax Christi, pubblicò, dal 22 agosto '90 al dicembre '92, sul quotidiano "Il Manifesto" alcune lettere aperte ai parlamentari italiani e alcuni articoli diretti a commentare il ritardo nell'approvazione della legge sull'obiezione di coscienza, a censurare la politica degli aiuti in Somalia, a ricordare padre Balducci, a raccontare i momenti più significativi del viaggio a Sarajevo, e formulare gli auguri per il nuovo anno a tutti i parlamentari.

Non conosciamo il motivo che spinse don Tonino a scegliere questo quotidiano. Possiamo ipotizzare che egli intese allora cogliere al volo l'occasione che gli si presentò per dare ai suoi messaggi una risonanza molto più forte, capace cioè di varcare i ristretti confini territoriali della sua diocesi e quelli ideologici del movimento di Pax Christi, dal momento che i temi della pace erano considerati scomodi su gran parte della stampa cattolica.

Il vescovo H.Camera, riflettendo sulla sua ricca esperienza di pastore, amava ripetere provocatoriamente che per essere considerati cristiani era sufficiente limitarsi ad aiutare i poveri, perché interrogarsi seriamente sulle cause delle tante povertà umane e sulle sue possibili soluzioni voleva dire essere comunisti.

In quegli anni vi erano stati numerosi distinguo su Famiglia cristiana: padre Alex Zanotelli era stato allontanato per le denunce sul commercio delle armi e padre Eugenio Melandri era entrato in politica per sostenere i temi della non violenza.

Dopo ben dieci anni, superata la discussione sull'opportunità o meno che un vescovo scrivesse su un quotidiano comunista, quegli articoli sono stati pubblicati con il titolo Manifesto di pace dalla casa editrice Pietro Manni di Lecce (2001, con testimonianze di T. Benettollo e A. Bianchi, a cura di V. Santoro).
Questo volumetto ci consente di rievocare la straordinaria linearità di pensiero, l'incredibile audacia pastorale, la grande passione profetica con cui don Tonino operò verso i cosiddetti "vicini scontati" e i "lontani scontenti".

I primi interventi, rivolti ai parlamentari italiani nella forma epistolare, oltre che un augurio per il loro lavoro, sono per lui l'occasione quanto mai propizia per farsi, da una parte, portavoce della volontà popolare ostile alla guerra del Golfo Persico e, dall'altra, per presentare le linee politiche utili all'Italia che, in quel momento storico particolare, si apprestava alla presidenza europea. Ecco in queste sue parole, tratte dal messaggio del 22 agosto '90, le tracce del suo programma coraggioso: "Ascoltare le ragioni di tutti i popoli, superare le reciproche paure, trovare convergenze che rispondano ai bisogni fondamentali dei poveri più che agli interessi delle lobbies politico militari, smetterla di spiegarsi la deflagrazione del disagio unicamente con gli eccessi della follia altrui, far entrare (se credenti) nel gioco delle ragioni umane la logica eversiva e l'audacia profetica del Vangelo…è questo il compito a cui gli uomini di buona volontà sono oggi chiamati".

Le ragioni della non violenza, cui fa riferimento don Tonino, trovano le loro fondamenta non solo nella radicalità evangelica, ma anche nelle parole del magistero. Don Tonino, infatti, nell'articolo del 18 gennaio '91, cita Benedetto XV, riportando il suo famoso pensiero sulla guerra, quale "inutile strage"; e poi Giovanni XXIII, quando nella Pacem in terris afferma che la guerra è "alienum est a ratione"; e infine Paolo VI, con la sua: "Jamais plus la guerre!". Senza per questo trascurare il richiamo alla Legislazione laica, che nell'articolo 11 della Costituzione Italiana ricorda che "l'Italia ripudia la guerra…".

Don Tonino si avvale della forza che viene dai testi del Magistero, dalla riflessione storica, dalla coscienza popolare che ritiene inutile la guerra per chiedere alla politica strategie diplomatiche capaci di offrire una soluzione ai conflitti.

Nessuno, pertanto, allora come oggi, può tacciare don Tonino di idealismo astratto: nell'agenda politica di quel momento egli fissò alcuni interrogativi davvero scottanti, cui nessuno fece seguire una risposta: "Perché sono inefficaci le iniziative dell'ONU? Perché non si interviene con le sanzioni in Israele che disattende le soluzioni? Perché si tollerano alcune dittature mediorientali?".

Non era, la sua, una semplice operazione culturale! Era, al contrario, il desiderio sincero di stabilire sintonie ed alleanze con chi si era impegnato per il bene comune. Il dialogo voleva essere il prosieguo di un colloquio avviato con i politici della Diocesi negli anni precedenti, in occasione dello scambio degli auguri di Natale - "auguri scomodi", come egli stesso amava definirli - che invitavano a riflettere sui mali della politica, sui bisogni delle città, sui valori da incarnare, sempre "nel servizio più alto della carità".

Nel Natale del 1988 l'incontro era stato disertato e il dialogo interrotto. Don Tonino, tuttavia, scelse di inviare la registrazione del suo messaggio direttamente nelle case dei politici.

La dialettica tra il Vescovo e i politici continuò così "a distanza", tramite anche i giornali locali.

Intanto, con il suo libro Sui sentieri di Isaia, don Tonino tracciava un audace profilo dell'impegno per Pace in Puglia, impegno condiviso allora dagli altri vescovi della regione e da tutti gli uomini di buona volontà.

Ancora! La difesa dell'obiezione di coscienza è il tema di un altro suo appassionato inter-vento, scritto proprio a commento del gesto del Presidente Cossiga, di rinviare il testo di legge alle Camere ormai sciolte. Questa decisione fu per lui l'occasione buona per precisare le matrici civili e religiose della non violenza. Scrive: "Il diritto a difendersi non l'ha mai contestato nessuno. Neppure il cristiano….Ma difendersi come?…dalla risposta dipende il futuro dell'umanità… Da quel tragico fungo nucleare è finita l'epoca della guerra giusta. La difesa armata risponde a una logica preatomica che tutto può partorire fuorché pace e giustizia. Ed ecco l'alternativa della difesa non violenta. Che non è un tenero sentimento per novizie. Ma che oggi è divenuta una scienza…che fa perno attorno all'educazione e rielabora in termini laici l'antico monito dei profeti: o convertirsi o morire".

Beninteso, la sua altro non è se non la "difesa dei giovani che si vanno aprendo agli ideali di solidarietà universale" (6 febbraio '92). Oggi, senza temere di esagerare, possiamo affermare che questa sua battaglia è stata davvero profetica.

Don Tonino scriveva in quegli anni su un giornale insolito attraverso il quale, mentre precisava il ruolo dei cristiani, riusciva ad avvicinare alla fonte tanti che si erano allontanati. Chiedeva di recuperare il coraggio di pronunciare sempre la verità, come fanno i bambini. Occorre vivere "la parresia - egli scrive - ovvero la franchezza dei primi cristiani, che non si piegavano agli accomodamenti del calcolo politico e respingevano con fierezza le lusinghe del potere" (29 Febbraio '92). Questo, per dar forza all'obiezione fiscale alle spese militari, richiamando il documento del 3/6/76: La Santa Sede e il disarmo generale, e il Convegno nazionale delle Caritas diocesane del 1982.

Un testo appassionato prende spunto dallo scandalo degli aiuti italiani in Somalia "terra disperata dove la bomba M (miseria) sta mietendo più vittime della bomba". Ancora una volta sostiene con lungimiranza che non basta pagare il pedaggio al sentimento con l'una tantum di una buona offerta, ma è obbligatorio uno slogan: "Contro la fame,cambia vita! Convertiti, cioè. Metti da parte l'egoismo. Rifiuta l'idolatria del denaro. Guardati dal demone perverso dell'accaparramento. Battiti perché cambino certe leggi che regolano il mercato. Favorisci col tuo impegno l'avvento di un nuovo ordine economico internazionale. Ma questa tragedia ci impegna anche a reagire con coraggio nei confronti di tutte quelle forme di cooperazione internazionale in cui non si faccia leva sulla crescita autonoma dei popoli" (agosto'92). E ancora: "Non bastano le campagne sulla fame nel mondo tese a provocare soccorsi estemporanei. […] Oggi più che mai è urgente promuovere una rivolta collettiva delle coscienze in modo tale che i detentori del sapere economico ribaltino certe leggi che proteg-gono solo gli interessi dei più forti e scrivano, finalmente, il codice di un nuovo ordine economico internazionale. […] Le turbe dei miserabili non resteranno per troppo tempo subalterne ai nostri sistemi di potere" (novembre '92).

Il Diario scritto a Sarajevo attesta, attraverso le sue annotazioni scarne ma profonde, non solo la coerenza eroica del profeta ma anche la realizzazione del suo sogno dal momento in cui è possibile che esista davvero un paese dove convivono le differenze: "Io sono serbo, mia moglie è croata, queste mie cognate sono musulmane, eppure viviamo da tanto tempo senza problemi. Ma chi la vuole questa guerra?". Si intravede nel sentiero, così difficilmente tracciato, un nuovo orizzonte per l'umanità. "A questa ONU dei poveri che scivola in silenzio nel cuore della guerra, sembra che il cielo voglia affidare un messaggio: che la pace va osata. […] Le cose cambieranno, se i poveri lo vogliono" (15 dicembre '92).

Il 26 aprile '92, un anno prima della sua morte, nel commemorare la improvvisa scom-parsa di padre Ernesto Balducci, teologo del dissenso, sembra che don Tonino stia mettendo a fuoco anche la sua vita. Parla di una Chiesa inedita, non ancora del tutto emersa dalle viscere della storia, indignata per le ingiustizie, nostalgica di trascendenza.

Parla di padre Balducci, inventore di un nuovo genere letterario, come di un sapiente coerente, doppiamente fedele a Dio e all'Uomo, messaggero cristiano con linguaggio non sacrale rivolto ai lontani. Un modello di umanità: non doppia morale né doppia coscienza.

La collaborazione di don Tonino al giornale si chiude con gli auguri di fine anno '92. Auguri non formali, ma un richiamo a compiere un pellegrinaggio "dall'estrema periferia del nostro vissuto al cuore della propria interiorità, dove si annidano le cose essenziali della vita: l'amore, la convivialità con la gente, la gioia, il dolore, la morte. È qui…che si trova il nido della pace. Auguri a tutti: essere pellegrini di questo cammino significa divenire eversivi profeti della pace".

Non sappiamo quale risonanza abbia avuto nei lettori e redattori del giornale tale augurio, sappiamo però che alla morte di padre Balducci il suo sogno lo espresse con queste precise parole: "Forse è prematuro sognare le mietiture derivanti dalle seminagioni sparse a piene mani dalla sua coinvolgente parola. Ma non è prematuro affermare che, con la morte di quest'altro profeta, i suoi discepoli clandestini verranno alla luce. E si aprirà il cerchio. Il cerchio della Speranza".

Voglio concludere anch'io con un messaggio di grande speranza, tutto racchiuso in un simpatico racconto chassidico. Resisto alla tentazione di commentarlo per non farvi rimanere dentro le strette maglie della mia personale interpretazione: "Jakob viveva sereno nel suo piccolo villaggio. Lavorava la terra. In un angolo del suo campo aveva costruito una stalla dove custodiva un agnello, un capretto, un vitello ed una vacca.

All'alba, il suo primo pensiero era quello di accudire alle bestie. Se le guardava con amore infinito. Le accarezzava, come fossero suoi figli, e faceva sì che non mancasse loro niente. Poi dava inizio ai lavori del campo.

Dissero una volta a Jakob: "Non esiste nel villaggio e fuori del villaggio un uomo che porti tanto amore alle bestie. Da dove nasce questo tuo profondo amore?" Rispose Jakob: "Il grande profeta Isaia parlò al popolo di Israele annunciando che un girono il Santo dei Santi farà scendere, su questo mondo, la pace più completa. E la pace sarà così piena che "quel giorno" il lupo dimorerà con l'agnello, il leopardo col capretto, i vitello col leone ed infine la vacca pascerà nei campi con l'orso".

"Io - continuò Jakob - ho fiducia, una fiducia illimitata, che "quel giorno" verrà. Tanta fiducia che ho già preparato l'agnello, il capretto, il vitello e la vacca.

Ed ora rimango in attesa del lupo, del leopardo, del leone e dell'orso"

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