Tratto da:
"Tonino Bello e Aldo Capitini: la Religione della Pace"

Tonino Bello Vescovo: Una Passione per la Pace
di Enrico Peyretti

"Siate soprattutto uomini. Fino in fondo. Anzi, fino in cima. Perché essere uomini fino in cima significa essere santi" (Dal Testamento spirituale, in Tempi di fraternità, n. 5, 1993, p. 4)).

Ecco una idea della santità per Tonino Bello: compimento della nostra umanità. Quel che va "mortificato" in noi è quel che abbiamo di disumano, non la nostra umanità. Da ciò, il desiderio appassionato di don Tonino che la vocazione e l'immagine umana si realizzino in tutti, specialmente in chi ha le sue doti represse, oppresse, impedite dalla violenza e dalle miserie; desiderio di liberazione del disegno originario e singolare di Dio in ogni singola persona, per la felicità di questa, per la gloria di Dio, per l'armonia e bellezza del mondo.

Don Tonino dice, in una frase del suo Programma pastorale 1989-90: "E' illusione tragica pensare che l'eccedenza di sacro ci riscatti dalla carestia di santità" (Scritti di mons. Antonio Bello, d’ora in poi Scr. A. B., Mezzina, Molfetta, 1993, vol 1, p. 340).

C’è un episodio che ho sentito raccontare, in testimonianza diretta, da una ragazza impegnata nella Rete di Formazione alla Nonviolenza, quando, a Torino, nell'ora stessa del suo funerale a Molfetta, ci riunimmo in molti per ricordare, ascoltare, pregare con e per don Tonino. La ragazza era venuta all'incontro con una rosa in mano e raccontò:

"Una volta don Tonino, al termine di una Route internazionale di Pax Christi, dato che conosco le lingue, mi invitò all'altare per tradurre la messa. Io mi schermivo, perché non sono assolutamente

pratica di messe. Durante la celebrazione, ad un certo punto, lui tirò fuori da sotto l'altare un secchio di rose rosse, ne diede una ad ognuno dei presenti, dicendo: "Uscite per strada e regalate questa rosa al primo passante!". Lui intanto rimase ad aspettare, tutto felice. Anch'io uscii con la mia rosa, ma dopo poco rientrai con la rosa ancora in mano, e dissi a don Tonino: "L'ho tenuta, perché il passante che ho incontrato sono io". Lui mi abbracciò e mi disse con un gran sorriso: "Un'altra volta la invito a ballare, ma non a Molfetta, se no poi qualcuno fa delle chiacchiere sciocche!"" .

"Regala questa rosa al primo che incontri, al tuo prossimo". Un'azione poetica, profetica, liturgica, un gesto liberamente inventato nel mezzo dell'eucarestia, e del tutto confacente. Non dice forse il vangelo: "Se stai presentando la tua offerta all'altare e là ti ricordi che il tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia la tua offerta lì davanti all'altare e va' prima a riconciliarti col tuo fratello: poi torna e presenta la tua offerta" (Matteo 5, 23-24)?

Questo è il vangelo che proclama il primato della pace sul culto: primato di valore e anche primato cronologico. È una delle parole alte del vangelo della pace: poiché Dio fa pace con noi, lontani da lui, la nostra eucarestia, la nostra risposta grata, è anzitutto fare la pace con il fratello e con il nemico.

Nessuna di queste parole è superflua: non si tratta di purificarti deponendo un tuo rancore (questo è ovvio), ma di andare incontro al rancore dell'altro con l'offerta della riconciliazione.

Nell'episodio narrato, attraverso il simbolo della rosa - bellezza, gratuità, dono, grazia, delicatezza, tenerezza - don Tonino manda l'eucarestia nella strada, non con una processione sacra, ma per mano della ragazza "niente pratica di messe"!

Ogni dono, anche il più modesto, è segno della grazia, del dono massimo che riceviamo. Chi non può credere alla grazia divina, può credere al dono fraterno. Chi crede alla grazia divina, è spinto a donare quello che può al fratello. Ecco il sacramento quotidiano, stradale, nelle mani di tutti, per tutti: donare qualcosa di sé, il proprio impegno, il lavoro volontario, i frutti del proprio talento, la propria gentilezza, compagnia, ascolto; tutto ciò che può suscitare, magari chissà quando, in passanti tristi e grigi un moto di "gratitudine" alla vita, cioè di "eucarestia".

Per tutte le religioni abramitiche è rivelazione divina il racconto che vede in Adamo e in Eva l'immagine di Dio. Noi possiamo dire: il sacramento, il primo sacramento di Dio, è la persona umana come tale. Quello che fai all'uomo, lo fai a Dio. La passione sincera e generosa per gli esseri umani è, in realtà, al di là della nostra consapevolezza e delle pur opportune precisazioni, passione per Dio. L'amore umano e l'amore per Dio, più che su due linee divergenti o in direzioni opposte, possono essere visti come l'uno il prolungamento dell'altro, presente in questo dall'inizio, anche nascosto.

Per questi motivi, penso che oggi il lavoro per la pace, nei suoi vari aspetti, sia una vera realizzazione attuale dell'amore dell'umanità e quindi di Dio. La nonviolenza attiva, per la soluzione costruttiva dei conflitti, per ricuperare il nemico all’umanità, credo che sia il segno laico e storico dell’amore fino al nemico, che è la traccia più grande di Dio nella nostra storia.

Il crescente impegno di don Tonino per la pace, contro la cultura di guerra - che, insieme alla politica e all'industria di guerra, è l'effetto e il moltiplicatore di tutti i mali e i dolori umani - incontra sofferenze e consolazioni.

Dopo una lettera di Pax Christi (di cui don Tonino è presidente) a Craxi presidente del consiglio, per criticare la politica militare e di riarmo, riceve un richiamo da Poletti, cardinale presidente della Cei (Claudio Ragaini, Don Tonino, fratello vescovo, Ed. Paoline, Milano 1994, p. 99-100).

Dopo la cacciata di Alex Zanotelli, (colpevole di aver denunciato che la politica estera di Spadolini favoriva il commercio delle armi) dalla direzione di Nigrizia (maggio 1987), Tonino Bello, che ha da mesi su quella rivista una rubrica fissa, si trova isolato nella Cei: "I suoi rari interventi alle assemblee plenarie venivano accolti con sorrisi di compiacenza e mormorii di dissenso". Più di una volta è convocato in Vaticano (C. Ragaini, op. cit., p. 103).

Ma gli scrive una lettera ardente, David Maria Turoldo:

"Mi dicono che sei stato richiamato (...), che non è bene parlare troppo contro le armi (...). Ebbene: non solo ti sono vicino, ma oso perfino darti un consiglio: a maggior ragione intervieni, intervieni sempre di più; e insieme dì che sei stato richiamato, dillo pubblicamente, perché di questo hanno paura. Sono anche vili, come sappiamo (...). Per amore dei poveri e della verità; e cioè per amore della Chiesa e della pace, non scoraggiarti, caro fratello vescovo! Ti voglio dire una mia intenzione che rinnovo spesso nella preghiera: è questa, di pregare per i santi, perché non si scoraggino; perché almeno loro riescano! Se noi non ce la facciamo. David Maria Turoldo" (C. Ragaini, op. cit., p. 104).

Il corsivo è mio, per sottolineare che padre Turoldo riconosceva un segno di santità nella passione del vescovo Tonino Bello per la pace.

Nell'Arena di Verona, autunno 1989, diecimila convocati da "Beati i costruttori di pace" ascoltano don Tonino: "Sono interni alla nostra fede i discorsi sul disarmo, sulla smilitarizzazione del territorio, sulla lotta per il cambiamento dei modelli di sviluppo che provocano dipendenza, fame e miseria nel Sud del mondo e distruzione dell'ambiente naturale" (C. Ragaini, op. cit., p. 114).

Quel momento di "Arena 89" è preceduto e seguito, nelle chiese cristiane, dall'assemblea ecumenica di Basilea e da quella di Seul su "Pace, giustizia, salvaguardia el creato". Tonino Bello afferma che questi impegni per l'umanità e per il mondo sono interni alla vita di fede e perciò alla santità cristiana.

1990, crisi del Golfo; 1991, Guerra del Golfo. Le speranze dell'89, anno delle più grandi rivoluzioni nonviolente della storia (si veda il libro più documentato su questo punto: Giovanni Salio, Il potere della nonviolenza, Ed. Gruppo Abele, Torino 1995), sono spente dalla ostinazione dei "vincitori" della Guerra Fredda a rilegittimare la guerra, come criterio e metodo di soluzione dei conflitti, a difesa non tanto del diritto internazionale e dei popoli, spesso e largamente violato da molti senza risposta bellica, quanto del primato e degli interessi materiali dei potenti del mondo, come essi stessi affermeranno di lì a poco nei "nuovi modelli di difesa" che dichiarano a chiare lettere tali fini e prendono esplicitamente a modello la Guerra del Golfo (Per la critica dei "nuovi modelli di difesa" statunitense, tedesco e italiano mi limito qui ad indicare il libro, pensato da Ernesto Balducci, di U. Allegretti, M. Dinucci, D. Gallo, La strategia dell'impero, Ed. Cultura della Pace, Fiesole 1992, e il più breve degli articoli da me scritti sull'argomento, Difendere che cosa? e come?, in Rocca, 1.12.1994, p. 47).

Tonino Bello è in prima fila, con pena interiore, con mille instancabili iniziative, nell'impegno totale per la pace che fa onore in quel momento alla Chiesa, ma una cosa lo distingue: in una lettera ai parlamentari dell'inizio di gennaio 1991 prospetta come extrema ratio ciò che nessuna autorità morale, salvo Oscar Romero, ha detto, né allora né poi: la possibilità di "dover esortare direttamente i soldati, nel caso deprecabile di guerra, a riconsiderare secondo la propria coscienza l'enorme gravità morale dell'uso delle armi" (C. Ragaini, op. cit., p. 116).

Solitamente l'appello morale alla pace da parte di vescovi e papi è rivolto alla buona volontà dei responsabili politici, dei governanti, non alle coscienze dei cittadini e dei soldati chiamati ad eseguire le politiche di guerra. Timore di interferire coi poteri economici e politici? Non c'è un uguale timore di entrare d'autorità nella vita intima e spesso difficile delle persone, con l'imporre obblighi di etica sessuale dettagliatamente definiti in tutto il loro peso. Sembra proprio che il magistero morale della chiesa cattolica sia più delicato coi poteri forti che con le persone deboli e alle prese con difficoltà a volte drammatiche, che pesano per lo più sulle donne.

Tonino Bello pone il problema della guerra e della pace a quell'istanza suprema che è la coscienza personale, certo non isolata ma responsabilmente decisiva. Questo è eversivo. Craxi e il Giornale di Montanelli rispondono con l'irrisione e l'insulto. Il deputato repubblicano Gaetano Gorgoni, conterraneo di don Tonino, cita il Qohelet per dargli del pazzo. Ma Tonino Bello ripete in una intervista televisiva che se un pilota non può, in coscienza, bombardare i civili, deve avere il coraggio di disertare. Dell'ammiraglio Buracchia, privato del comando della spedizione navale italiana nel Golfo perché ha dichiarato che "la guerra si poteva evitare", dice con ammirazione: "Ha dato voce e libertà alla sua coscienza" (C. Ragaini, op. cit., p. 116, 117, 120, 121).

Ma il consiglio permanente della Cei, per bocca di Ruini, prende le distanze: "Le scelte politiche non ci competono". Così altri vescovi, come Biffi e Saldarini, dicono in sostanza: pace sì, pacifismo no. Questa posizione, oltre che una facile scappatoia, sembra vittima dell'errore di pensare il pacifismo nell'unico significato di rinuncia alla lotta giusta per viltà, ma questo senso della parola è superato dalla realtà dei movimenti seri per la pace, ispirati largamente alla nonviolenza attiva, più profonda e ampia di un limitato pacifismo.

Anche nell'episcopato pugliese Tonino Bello incontra posizioni differenti dalle sue. La maggiore amarezza gli viene dagli ambienti ufficiali della città, dalla Democrazia Cristiana, da alcuni settori del suo clero, da una parte del consiglio pastorale, che non capiscono né condividono le sue posizioni radicali contro la guerra e l'intervento italiano (C. Ragaini, op. cit., p. 122, 123, 124, 125). "La cosa che più mi fa soffrire - commenta il vescovo Tonino - è di vedermi delegittimato nella mia funzione di pastore. Se un vescovo non può appellarsi alla coscienza, cosa gli resta? Decidere dei colori dei paramenti?" (C. Ragaini, op. cit., p. 126).

Un documento di Pax Christi ribadisce che le obiezioni "non sono disprezzo verso lo Stato e le sue istituzioni, ma espressione di un amore più grande e di un servizio fatto per l'uomo, specialmente per quelli che le "patrie" dimenticano" (C. Ragaini, op. cit., p. 122-123). Chi obietta alle soluzioni violente patisce l'urto coi potenti per amore degli ultimi.

Intanto compare la malattia, il cancro che frenerà e fermerà infine l'azione appassionata di Tonino Bello, almeno su questo versante della realtà. Viene la drammatica immigrazione degli albanesi, don Tonino si mobilita, con tutte le associazioni della diocesi e organizza l'accoglienza di centinaia di profughi. Dopo l'ondata di agosto 1991 corre allo stadio di Bari, tra gli albanesi, dichiara e scrive la sua vergogna e indignazione per il trattamento usato: "Le persone non possono essere trattate come bestie. Prive di assistenza, lasciate nel tanfo delle feci che il profumo del mare non riusciva a mascherare. Mantenute a dieta con i panini lanciati a distanza, come si fa allo zoo (...). No, l'uomo, chiunque esso sia, quali che siano le sue colpe, merita ben altro rispetto" (C. Ragaini, op. cit., p. 131, 132).

Ha parole severe per la brutta "operazione Sardegna" con cui lo stato, con mezzi militari e con l'inganno, rastrella in tutta Italia e rimpatria con la forza questi profughi di "popoli alla deriva". Anche il sindaco di Bari critica l'operato del governo, ma il presidente Cossiga lo definisce "irresponsabile e cretino". Il ministro democristiano degli affari interni, Scotti, ritiene di potere scherzare e dice: "A peste, fame et Bello libera nos Domine" (antica preghiera che significa: Liberaci, Signore, dalla peste, dalla fame, dalla guerra) (C. Ragaini, op. cit., p. 133-134).

Il 6 febbraio del 1992 muore padre Turoldo, di cancro anche lui, e il 25 aprile padre Balducci, vittima di un incidente stradale. Il 23 maggio a Sarajevo, nella "strage del pane", 23 persone sono uccise da una granata. Grandi dolori per tutti.

Turoldo aveva scritto la prefazione al libro di don Tonino Alla finestra la speranza, con la forza abituale delle verità paradossali, quelle cioè che prendono di petto le opinioni correnti: "Non inoltrarti troppo su queste strade di poveri", gli dice con dolente ironia; gli parla della "tua passione di voler essere uomo e cristiano"; gli riconosce "il merito di avere proclamato che la comunione di Cristo col mondo dei poveri è l'unico spazio umano, lo spazio dove avviene la sua unica vera incarnazione" (A. Bello, Alla finestra la speranza, Prefazione di D. M. Turoldo, pp. 8, 9, 10).

Nell'estate del 1992 si accalora, per passione di giustizia, nella difesa dei pacifisti derisi, accusati, e insultati da grossi giornalisti: Miriam Mafai, Enzo Bettiza, Walter Veltroni, Angelo Panebianco (C. Ragaini, op. cit., p. 144,147). Dimostra la loro azione quotidiana, nella formazione, nelle analisi, nell'educazione alla nonviolenza attiva, non nei cortei o nelle televisioni, l'unica cosa che certa informazione sa vedere. E' in questa occasione, replicando a quei giornalisti, che Tonino Bello ci dà una delle più esatte e vere sentenze sulla guerra, su ogni guerra, quando afferma che "i cannoni non tuonano mai amore di patria, ma sillabano sempre in lettere di piombola suprema ragione dell'oro" (C. Ragaini, op. cit., p. 146).

Lavora freneticamente, viaggia per l'Italia, si affatica utilizzando spesso le ore della notte per ridurre le assenze da Molfetta. Interpellato da Sandro Magister de L'Espresso sull'apparente contraddizione di papa Wojtyla, pacifista nel '91 ed ora propugnatore della "ingerenza umanitaria" nella tragedia jugoslava, Tonino Bello non esita ad affermare che il diritto-dovere dell'ingerenza umanitaria si può praticare in diverse modalità, ad esempio quella nonviolenta.

(Sull’attenzione e informazione di Tonino Bello riguardo alla cultura, metodi, esperienze di difesa nonviolenta segnalo: 1) "La DPN non è un tenero sentimento per novizie, ma è diventata una scienza, articolata e complessa" (da un articolo di Tonino Bello sul settimanale diocesano Luce e vita, durante la Guerra del Golfo, citato in C. Ragaini, op. cit., p. 124). 2) Il discorso nel teatro al buio di Sarajevo il 12 dicembre 1992, in Scr. A. B., vol 1, pp. 123-126. 3) L'articolo L'ultima radice, in Nigrizia, settembre 1991. 4) La relazione tenuta a Torino, il 2 novembre 1990, nel pieno della crisi del Golfo, nel 2° Convegno internazionale di Ricerca sulla Difesa Popolare Nonviolenta, sul tema Fondamenti etici della DPN. Questa relazione di Tonino Bello non mi risulta finora pubblicata (lo sarà, secondo le informazioni avute, nel 4° volume di Scr. A.B., cit.). Ne ho stesa una sintesi, ricavata dai miei appunti nell'ascolto, che non ricordo se ho già pubblicato da qualche parte).

E lancia l'idea di un "cuscinetto umano", una interposizione nonviolenta di centinaia di migliaia di obiettori e volontari di pace. Albino Bizzotto, di "Beati i costruttori di pace", raccoglie l'idea, che si realizzerà poi nel dicembre 1992 in misura molto minore, ma ugualmente di grande significato per il futuro, insieme ad altre analoghe precedenti azioni di pace, ancora troppo ignorate dalla cultura storica (Posso fornire un’ampia bibliografia sui casi storici di lotte nonviolente, che ho intitolato “Difesa senza guerra”).

Don Tonino era malato, quando a dicembre i 500 andarono a Sarajevo. "Ci andrò, anche con le flebo addosso", disse al suo medico (C. Ragaini, op. cit., p. 148). E così fece. A Kiseljak e a Sarajevo dice parole, raccolte anche nelle videoregistrazioni fatte da alcuni presenti, che sono tra le sue più alte, più illuminate, più sofferte, ed anche più piene di gioia. Al ritorno, profetizza la scomparsa della guerra dalla storia (C. Ragaini, op. cit., p.169), con la fede di chi vede oltre la durezza e l'oscurità delle cose.

Ormai si prepara a morire. Un mese prima, confida a Claudio Ragaini, l'autore della biografia: "Io non faccio altro che partecipare alle sofferenze di Cristo, ma anche alle sofferenze della gente" (C. Ragaini, op. cit., p.176). Ecco: santità come passione per l'uomo.

Le sue omelie e le sue lettere al popolo somigliano a quelle di Oscar Arnulfo Romero, che il martirio e il popolo dei poveri hanno subito dichiarato santo. Ogni lettera di don Tonino presenta a noi una persona tra le più umili e sofferenti, una presenza viva, intera, con tutto il suo carico, con il suo nome proprio; una santa litania di crocifissi che egli abbraccia ed onora, che "eleva sugli altari", direi, perché in essi riconosce e indica il Signore.

Le persone singole e i problemi di tutti. Nella lettera pasquale del 1987 parla anche del megapoligono di tiro che i piani militari vogliono piazzare "sulle nostre Murge". E avverte: "Non fate lo sbaglio di dire che il vostro vescovo sta facendo politica" (Scr. A. B., vol 2, pp. 310 e 305): è la passione per il suo popolo, che è poi la vera e giusta politica, e sono anche, senza alcun integralismo, "discorsi interni alla nostra fede", come abbiamo sentito.

Tonino Bello ricorda Romero in una grande omelia, pronunciata nella basilica dei Santi Apostoli, a Roma, il 23 marzo 1987, che termina con una lunga preghiera al santo vescovo dei poveri. Involontariamente, parlando di Romero, ci dà un ritratto del proprio spirito di servizio. Come Romero, don Tonino è "vescovo fatto popolo". Cita parole di Romero, che sono anche pensiero suo, come abbiamo già sentito: "I poveri sono quelli che ci dicono che cos'è la polis, la città, e che cosa significa per la chiesa vivere realmente nel mondo. Tutto questo non solo non ci allontana dalla nostra fede, ma ci rimanda al mondo dei poveri come al nostro vero posto!". Prega Romero che gli dia una mano "perché possiamo coraggiosamente incarnare [la parola di Dio] nella cronaca, nella nostra piccola cronaca personale e comunitaria, e produca così storia di salvezza" (Scr. A. B., vol 2, p. 162; vedi tutta l’omelia alle pp. 157-164).

All'inizio di questa relazione ha parlato la ragazza della rosa. Alla fine deve parlare il barbiere di don Tonino: "Io ero abituato, col vescovo precedente, che mi chiamava il segretario in curia per il mio servizio. Lui invece arrivava in negozio come uno qualunque. I clienti si alzavano in piedi, volevano che passasse avanti. No, no, non c'era verso, aspettava il suo turno e nel frattempo il mio negozio si riempiva di gente, lui aveva una parola per tutti" (G. Amaini, Un addio a don Tonino, in Avvenire 29 aprile 1993, p. 20).

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