Una Discussione su Alcune Obiezioni Critiche
di Norberto Bobbio alla Nonviolenza
di Enrico Peyretti

[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey@libero.it) per questo intervento. Enrico Peyretti (1935) e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e una recente edizione aggiornata e' nei nn. 791-792 di questo notiziario; vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org e alla pagina web
http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti
Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di questo notiziario. Norberto Bobbio e' nato a Torino nel 1909 ed e' deceduto nel 2004, antifascista, filosofo della politica e del diritto, autore di opere fondamentali sui temi della democrazia, dei diritti umani, della pace, e' stato uno dei piu' prestigiosi intellettuali italiani del XX secolo. Opere di Norberto Bobbio: per la biografia (che si intreccia con decisive vicende e cruciali dibattiti della storia italiana di questo secolo) si vedano il volume di scritti autobiografici De Senectute, Einaudi, Torino 1996; e l'Autobiografia, Laterza, Roma-Bari 1997; tra i suoi libri di testimonianze su amici scomparsi (alcune delle figure piu' alte dell'impegno politico, morale e intellettuale del Novecento) cfr. almeno Italia civile, Maestri e compagni, Italia fedele, La mia Italia, tutti presso l'editore Passigli, Firenze. Per la sua riflessione sulla democrazia cfr. Il futuro della democrazia; Stato, governo e societa'; Eguaglianza e liberta'; tutti presso Einaudi, Torino. Sui diritti umani si veda L'eta' dei diritti, Einaudi, Torino 1990. Sulla pace si veda Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna, varie riedizioni; Il terzo assente, Sonda, Torino 1989; Una guerra giusta?, Marsilio, Venezia 1991; Elogio della mitezza, Linea d'ombra, Milano 1994. A nostro avviso indispensabile e' anche la lettura di Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955, 1977; Profilo ideologico del Novecento, Garzanti, Milano 1990; Teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1993. Opere su Norberto Bobbio: segnaliamo almeno Enrico Lanfranchi, Un filosofo militante, Bollati Boringhieri, Torino
1989; Piero Meaglia, Bobbio e la democrazia: le regole del gioco, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1994; Tommaso Greco, Norberto Bobbio, Donzelli, Roma 2000. Per la bibliografia di e su Norberto Bobbio uno strumento di lavoro utilissimo e' il sito del Centro studi Piero Gobetti (www.erasmo.it/gobetti) che invitiamo caldamente a visitare]


Le serie obiezioni critiche alla nonviolenza, di Antonio Vigilante (in "La nonviolenza e' in cammino", n. 1030 del 22 agosto 2005), mi sollecitano a riproporre un mio articolo del 1993 su simili critiche che mi fece Norberto Bobbio. Trassi quelle obiezioni alla nonviolenza da una lettera personale di Bobbio, del 16 agosto 1993. Nella nostra successiva corrispondenza, Bobbio riconobbe come fedele al suo pensiero la sintesi che ne avevo fatto, in otto affermazioni. Senza dichiarare, allora, che le obiezioni venivano da Bobbio, le esponevo e discutevo in un articolo in due puntate sul mensile torinese "il foglio" nn. 204 e 205 del novembre e dicembre 1993 (oggi: www.ilfoglio.org). In seguito, riferendo (su "il foglio" n. 207, febbraio 1994) di due giornate di studio avvenute presso il Centro Studi Piero Gobetti di Torino (nel gennaio e febbraio 1994, con relazioni di Pietro Polito, di Bobbio, e mia), rendevo noto che quelle obiezioni venivano da Bobbio ed erano state all'origine di quel dibattito. Per qualche tempo, Polito ed io pensammo di raccogliere i documenti di quegli incontri (che sono negli archivi del Centro Gobetti) in un libro Quale pacifismo?, ma il progetto non ando' in porto. Qualche anno prima, Chaiwat Satha-Anand (studioso della nonviolenza, thailandese, musulmano), aveva pubblicato e discusso sulla rivista "Gandhi Marg" (La via di Gandhi), ottobre-dicembre 1989, otto molto simili "miti sulla nonviolenza", denunciati da Kenneth Kaunda, ex-presidente dello Zambia ed ex sostenitore della nonviolenza. Le otto obiezioni di Bobbio e gli otto miti di Kenneth Kaunda venivano raccolti e confrontati in parallelo da Giovanni Salio, nel libro Il potere
della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995, alle pp. 148-153. Presento ora unificate le due puntate di quell'articolo, "Obiezioni al pacifismo nonviolento", con le tesi di Bobbio e la mia discussione. Al testo ho apportato poche correzioni e qualche minimo aggiornamento nelle note bibliografiche, che in sostanza sono quelle del 1993. Tutto, dunque, va visto datato a quel momento.
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Obiezioni al pacifismo nonviolento
Ho raccolto otto obiezioni a quel pacifismo che ritiene la guerra un male assoluto e quindi vuole escluderla sempre, a favore dei mezzi nonviolenti di resistenza e lotta alla violenza. Cerco di considerare e di dare una risposta, sempre interlocutoria, a tali obiezioni.
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1. C'e' un pacifismo assoluto e uno relativo: il primo, col rifiuto totale della violenza, lascia libero corso ai violenti. Capisco bene che non possiamo fare assolutismi di nessun genere. Gandhi non era assolutista neppure sul "non uccidere". Giuliano Pontara sostiene una nonviolenza non fanatica. Egli distingue dal pacifismo assolutistico (per esempio quello di Tolstoj, che peraltro ha valori non disprezzabili) la nonviolenza positiva, dottrina e pratica di cui e' fautore, perche' questa vede e sviluppa i mezzi alternativi alla violenza per perseguire buone cause senza conseguenze cattive (1). In singoli momenti od espressioni accade che si prendano posizioni assolute, o molto forti, per l'urgenza dei valori in gioco, per la necessita' di schierarsi, di opporsi a ideologie e operazioni di guerra, ma credo che ogni nonviolento riflessivo e problematico (e tale io vorrei essere) possa spiegare che quelle posizioni esprimono una forte tensione, non la pretesa di avere una formula assoluta. Anche le ragioni religiose, di fede, per sperare e impegnarsi per la pace, sono una fiducia profonda che sostiene un cammino, il quale incontra pero' tutte le difficolta', le incertezze, di chi lavora per la pace senza la fede in Dio. Forse direi che "assoluta" (ma vorrei circoscrivere questo termine, perche' in senso rigoroso nulla e' in noi assoluto) e' la speranza, il desiderio, l'impegno, mentre del tutto relativi sono i singoli giudizi e scelte, anche quando sono una nostra convinzione e vi mettiamo il calore della passione e della fede. Si puo' avere una immeritata "spes contra spem", una speranza anche dove non si vede speranza, che fa cercare cio' che appare impossibile: "La speranza universale e finale della fede cristiana diventa in se stessa una fonte inesauribile di fantasia creativa" (2). "La possibilita' si trova piu' in alto della realta'" (3). Accetto invece il pacifismo assoluto, se vuol dire lavorare con l'obiettivo (raggiungibile quando? non importa; ma da perseguire qui e ora) della eliminazione della guerra dalla storia, e non solo della guerra ingiusta, offensiva, ma proprio della guerra giusta, della guerra come mezzo di difesa. Se la guerra non e' soltanto la componente violenta della nostra natura, ma il suo uso istituzionale e persino la sua glorificazione, ben oltre una triste necessita', allora e' una struttura culturale, non natura eterna, ha un'origine storica (4), quindi puo' avere una fine storica. Pacifismo assoluto in questo senso vuol dire rifiuto a priori di ogni tipo di guerra, in ogni circostanza? Lascerei la risposta aperta. Da un lato, non siamo ancora in grado di essere liberi dalla violenza (dico dalla violenza nostra, prima che altrui). Dall'altro lato, non possiamo accettare la guerra (che e' la violenza istituita, elevata al quadrato) come mezzo di risoluzione delle controversie, e cio' in linea di principio. Quindi non possiamo ne' esser certi di poter rifiutare la guerra in ogni caso, ne' accettarla e predisporla come mezzo d'azione, sia pure in casi estremi. Pacifismo assoluto significa, allora, la maggior tensione possibile
al superamento storico della guerra, senza rassegnazione alla sua presenza, anche quando si verifica, senza accontentarsi di limitarla a poche situazioni estreme ne' di contenerla in metodi di distruzione limitata. Il nostro secolo da' dei segni nella direzione del "ripudio della guerra", ancora tanto incerti e contraddittori, su cui merita lavorare per i posteri. E questo credo che accomuni i pacifisti che ora diciamo "assoluti" e "relativi". Se non sbaglio, questi vedono piu' dei primi le reali difficolta' a quella eliminazione, ma la cercano come i primi. Altrimenti non sarebbero pacifisti, ma persone che vogliono contemperare l'accettazione della guerra, che e' uccidere, con un certo senso umanitario. Propongo dunque che intendiamo con "pacifismo assoluto" non qualcosa di fanatico, utopistico, irresponsabile, ma la linea di ricerca e di azione tesa, nel tempo, ma con urgenza, a nulla di meno che l'eliminazione della istituzione guerra dalla storia umana; e con "pacifismo relativo" l'azione che vuole limitare e contenere la guerra, ammettendola come mezzo lecito e utile in certi casi (5). In tale senso, mentre il pacifismo relativo si e' gia' presentato nella storia, il pacifismo assoluto appare (in quanto cultura e azione politico-giuridica, e non solo profezia o utopia) come una novita' positiva del nostro travagliato tempo, che potra' cosi' forse anche meritare qualche gratitudine dai posteri. Gratitudine relativa, perche' il nostro tempo e' obbligato, se vuole preservare la continuazione della vita, ad eliminare l'istituzione della guerra. Ma la questione pace-guerra, che entra pesantemente in quella vita-morte, quindi tocca i nostri limiti estremi, si affaccia (e non delicatamente) sul mistero che ci circonda. A me pare, percio', che sia semmai l'istituzione guerra, non il pacifismo, a pretendere un'assolutezza divina, in quanto si fa padrona della vita e della morte. Quando dissi questo al Centro Gobetti, Norberto Bobbio mi replico' che non e' questa l'idea laica della guerra. Certamente. Ma quante guerre restano "laiche"? Non pretendono forse tutte di incarnare ragione e diritto, e di potere, in nome di cio', decidere la morte del nemico, che e' un essere umano? "Extrema ratio" vuol dire l'ultimo mezzo rimasto, ma sembra dire anche l'ultimo giudizio. Non per nulla la guerra e' stata assimilata al giudizio divino. Ma anche senza teorizzare cio', non lo pretende di fatto ogni azione che si autorizza ad uccidere per risolvere un conflitto (il piu' delle volte non di sopravvivenza, ma di potere)? Ci dice Kant che nessuno fa guerra senza rendere un involontario omaggio alla giustizia, giustificandosi. E - possiamo aggiungere - crede di poterlo fare fornendo alla "giustizia" la propria spada, sentendosi investito del diritto di vita o di morte sul "nemico", per lo piu' demonizzato, de-umanizzato, prima che affrontato con le armi. Forse senza questa operazione "culturale" non saremmo capaci di ucciderlo. Ma con questa operazione pretendiamo di esercitare un giudizio totale, assoluto, sull'altro. Da questo giudizio mortale vuole difenderci il precetto evangelico di non giudicare, che non esclude le esigenze di ordine sociale, ma il giudizio totale, quello che permette di eliminare l'altro. Non e' questa una pretesa divina, che agli occhi di un credente e' idolatria, e agli occhi di un laico un inaccettabile esorbitare dai limiti?
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2. La nonviolenza personale (non portare armi neppure in situazioni come la Resistenza o in societa' violente e minacciose), e' possibile e lodevole, mentre e' impossibile e irresponsabile la nonviolenza collettiva, politica, in un mondo violento. La nonviolenza personale e' davvero la prima cosa, ed anche l'ultima, perche' forse e' la piu' difficile, e perche' ciascuno decide di se stesso, ben prima di decidere, in qualche infinitesima parte, della storia. Infatti, nessun felice disarmo degli eserciti ci esimerebbe dal disarmo personale nei rapporti umani, nel linguaggio, nel pensiero, nel cuore. E il disarmato non finira' mai di chiedersi se, da debole, sta fuggendo da una giusta lotta o se vi interviene, da forte, con la "forza della verita'", con l'arma della qualita' umana, che combatte non distruggendo, ma creando e liberando. Il nonviolento e' tale perche' conosce se stesso capace di violenza, e vuole evitarla per amore di tutti; d'altra parte non si accontenta di trarsi fuori personalmente dai comportamenti violenti, ma lavora in tutti i modi possibili, senza imporre ne' forzare, perche' tutto il mondo umano diventi - nessuno sa quando - nonviolento: perche', cioe', la cultura di una societa' umana elabori dei modi efficaci nonviolenti di contenere la violenza. Ora, essere nonviolenti in questo modo non e' un titolo che qualcuno possa vantare, ma un desiderio e un cammino, un lavoro, un amore per il mondo, che non si vuole certo abbandonare ai violenti. Cio' sarebbe perdere anche la propria anima, insieme al mondo, perche' non ci si salva davvero da soli, tirandosi fuori. Il nonviolento rivendica con forza: io ho cura del mondo, non meno di voi, che non accettate il principio della nonviolenza! Quanto alla irresponsabilita' della nonviolenza collettiva, politica, si puo' fare questa accusa alle lotte nonviolente che hanno raggiunto il loro obiettivo? No. Lo diremo allora soltanto di quelle che lo hanno fallito? Ma allora sono altrettanto irresponsabili quelle lotte armate, anche giustissime, anche prudentissime, che sono state sconfitte. Ora, in tutte le guerre c'e' uno che vince e uno che perde (a meno che non diciamo, piu' giustamente, che hanno perduto tutti e due; e questo e' l'esito sicuro di una guerra nucleare): quindi, neppure l'uso delle armi mette nella posizione sicura di chi risponde pienamente ad un'etica della responsabilita' (senza contare gli effetti deleteri che accompagnano sempre una vittoria militare, effetti di cui pure e' responsabile la scelta armata) (5 bis). Vogliamo farne una questione di probabilita'? Vogliamo cioe' dire che le armi danno maggiore probabilita' della forza nonviolenta di difendere un diritto, liberare da un'oppressione, eccetera? Prima di decidere una risposta finale, dovremmo conoscere bene la storia delle lotte nonviolente, farla entrare nella nostra cultura storica, che finora l'ha tenuta fuori dal cerchio di luce della ricerca, della documentazione, quindi fuori dalla cultura della difesa ancora dominante, che e' quella del monopolio militare. Poi dovremmo anche provare davvero a organizzare e addestrarci, tutta la popolazione, alle tecniche di lotta nonviolenta, almeno quanto curiamo l'addestramento militare, e magari meglio di quanto ci stiamo occupando della protezione civile, dell'educazione stradale, della prevenzione degli infortuni, eccetera. Se poi vediamo che - come accade troppo spesso in politica - etica della responsabilita' e' intesa come etica del successo con qualsiasi mezzo, presupponendo che i propri obiettivi meritino qualunque prezzo da chiunque pagato, allora la sola scelta lecita non e' piu' tra mezzi nonviolenti (che sarebbero irresponsabili) e mezzi violenti (responsabili), ma, in realta', tra mezzi violenti minimi, che sarebbero sufficienti alla pura difesa e incapaci di aggressione, e mezzi violenti massimi, crescenti, offensivi. Per chi segue l'etica del successo la difesa violenta diventa fatalmente aggressione, per garantirsi la superiorita', non l'equilibrio, e la pace di dominio, non quella di soddisfazione e di giustizia. E' la logica della sicurezza intesa in modo perverso. La vera sicurezza e' indivisibile come la liberta': uno ce l'ha se ce l'hanno tutti. La nostra sicurezza consiste infatti e si appoggia sulla sicurezza dell'altro, mentre la nostra superiorita' di potenza spinge l'altro fatalmente (perche' si sente ed e' insicuro) a cercare di crescere in potenza, per raggiungere ed anzi superare noi. Da qui la dannazione infernale della escalation, che solo un mutamento di logica puo' invertire e ha di fatto invertito, nella recente storia dei rapporti tra le due superpotenze Usa e Urss, per merito insuperato di Gorbaciov. Questa nuova logica non e' ancora la nonviolenza (anche se Gorbaciov affermo', nell'incontro di New Delhi con Rajiv Gandhi nel 1986, la nonviolenza come principio dei rapporti internazionali) (6), ma va nella direzione del disarmo parziale e progressivo per iniziativa unilaterale, va nella direzione del transarmo (da armi offensive a puramente difensive), su un cammino che tocca a noi custodire e far crescere nella cultura della nonviolenza.
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3. Il nonviolento non puo' sfuggire al dovere di difendere efficacemente il debole.
Questa obiezione classica alla nonviolenza (accolta ed esaminata da Gandhi, da Capitini), e' vera e importante. Chiaramente, la nonviolenza non e' una ricetta, ma una ricerca (gli "esperimenti con la verita'" di Gandhi) (7), proprio al fine di difendere i diritti offesi meglio e piu' veramente che con la violenza; e' dichiaratamente il lavoro per ridurre al minimo la violenza, non e' l'illusione di eliminarla del tutto; non e' la purezza individuale del singolo in una societa' violenta. Gandhi prevede la polizia, dotata di alcune armi, anche in uno stato nonviolento, ma la vuole composta proprio da seguaci della nonviolenza (8). Credo anch'io che un assolutismo che disarmi anche tutta la polizia, a questo punto dell'evoluzione umana, sarebbe irresponsabile e favorirebbe la violenza. Eppure, e' necessario non rassegnarsi alla necessita' delle armi nei rapporti umani, neppure delle armi per la pubblica sicurezza, e quindi cercare e sviluppare altri mezzi per lo stesso fine, sospingere l'evoluzione morale, culturale, giuridica, non vedere il violento come appartenente ad una specie o "razza" irrecuperabile all'umanita', ma andare alla ricerca instancabile della scintilla divina che e' in ognuno (anche se Dio fosse solo questo rispuntare del germoglio umano oltre tutte le sue negazioni piu' tremende). Bisogna pensare altro. Riassumo alcuni passi da un libro importante di Raimon Panikkar (9). Il dramma della storia e' che combattiamo l'altro che dobbiamo disapprovare, o da cui ci dobbiamo difendere, credendolo cattivo, una forza del male. Entro una dimensione puramente storica non si puo' vedere di piu'. Soltanto se l'uomo e' un essere piu' che storico puo' avere l'equanimita' di combattere il male senza ergersi a giudice assoluto. Uno Shiva o un Cristo possono tollerare il peccato del mondo, caricarlo su di se' e cosi', forse, convertirlo. Allo stesso modo, chi e' tollerante in grado superiore e minimamente violento puo' capire che colpire il malvagio non fara' che prolungare la legge del karma o il ciclo della vendetta, e che percio' sia necessario pagare l'alto prezzo del perdono perche' la legge del male non si perpetui. Se e' cosi' - aggiungo io - difendere da un male ingiusto con un male "giusto" (che e' il principio del diritto e della politica nelle nostre culture) non e' detto che sia sempre un dovere. Panikkar interpreta il detto di Gesu' "Ma io vi dico di non resistere al malvagio; anzi, se uno ti percuote nella guancia destra, porgigli anche l'altra" (Matteo 5, 39) in questo modo: non rivaleggiare col male, non voler competere con esso, non giocare il gioco del maligno. Una volta dichiarata guerra al male sei impigliato nella sua rete: essere vincitore o vinto e' irrilevante, perche' il suo veleno e' gia' in te. Cio' non vuol dire restare passivi o inerti, ma spostare la lotta fuori dall'arena che il male ti offre. Due grandi tradizioni religiose, la indu' e la cristiana, credono che la catena del male sia stata spezzata, anche se siamo ancora nell'interregno della lotta. In questa fede, si puo' non replicare al male. Anche se vedi torturare tua figlia? Se, in tal caso, colpisci l'aguzzino, nessuno ti condannera'. Ma altri, ad un grado superiore di tolleranza, potra' capire che, anche in tal caso, colpire il malvagio non fara' che prolungare il ciclo del karma e della vendetta. Sicuramente - direi qui io - il problema non e' chiuso cosi'. Ma, altrettanto sicuramente, esso deve essere posto. Inoltre, la nonviolenza non combatte solo la violenza diretta, come avviene col "vim vi repellere", ma anche quella strutturale e quella culturale, che paiono dover essere affrontate eminentemente con mezzi nonviolenti, per non ottenere di accrescerle invece di diminuirle. Quindi il raggio d'azione della nonviolenza mi pare piu' ampio e profondo della violenza legittimata.
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4. Il pacifismo assoluto mette in dubbio persino la giustezza della guerra contro Hitler.
La critica di Gandhi, preventiva e successiva alla seconda guerra mondiale, alle democrazie occidentali mi pare da considerare, almeno per non assolutizzare come fatale il modo con cui Hitler fu contrastato e (grazie a Dio) sconfitto, ma non senza conseguenze negative sugli stessi vincitori, che divennero autori del terrore atomico. E mi pare che quella critica gandhiana sia agli antipodi del revisionismo storico odierno. "Meglio nazisti che morti" sarebbe il senso implicito nella critica nonviolenta di quella guerra? Dico di no. Accettare il nazismo (e ogni dominio simile) per paura di morire, e quindi diventarne sostegno sebbene passivo, sarebbe stata la morte dell'anima. Pero, cercare di non morire e di vivere, sebbene sotto un tale dominio, ma ben vivi e liberi nello spirito, lottando per divenire liberi in tutto, a me pare un atto coraggioso, non vile, un esporre la propria vita non meno del combattente in armi (anche se capisco chi combatte' cosi', ed anche la scelta, che fu pure di un cristiano come Bonhoeffer, di attentare alla vita di Hitler); cercare di vivere anche sotto quel dominio, ma liberi nello spirito, mi pare un atto migliore del ridursi a scegliere tra la liberta' e la morte, che e' forse porre alla vita troppo superbe condizioni. Sopravvivere e' il primo momento della liberazione (9 bis). Il merito di Gorbaciov nella guerra fredda e' stato di aver ceduto in tutta dignita' per non continuare a rischiare la strage nucleare, di aver scelto la vita al modo imposto dall'avversario piu' forte anziche' la morte per coerenza con la propria idea e parte. Anche perche' chi, dall'altra parte, diceva "meglio morti che rossi", in quei morti non poneva solo se stesso, ma molti altri, o anche tutti nella strage atomica. Quello slogan significava, di fatto: "o noi vincitori o tutti morti", che e' un assolutismo violento sulla vita di tutti, e identifica guerrescamente il proprio essere col vincere e la propria sconfitta col morire. Tutto cio' si puo' discutere all'infinito, ma si puo' discutere. L'appello di Gandhi agli inglesi del 7 luglio 1940 (10) - di cedere tutto, ma non l'anima, e di non illudersi di eliminare il nazismo usando le sue stesse armi - e' certamente estremo, ma mi pare abbia un senso profetico, che il tempo dimostra paradossale ma realistico, tutt'altro che assurdo.
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5. E se, per fare un'ipotesi, oggi la Serbia pretendesse Trieste, i pacifisti rifiuterebbero la difesa armata?
L'art. 11 della Costituzione - che una proposta di legge di inziativa popolare (11) vuole attuare nella legislazione, in modo da non poter piu'
essere aggirato come fece il governo Andreotti nella guerra del Golfo - non stabilisce solo il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie, ma si collega allo Statuto dell'Onu, il quale riconosce il diritto di autodifesa immediata, ma obbliga a rimettere subito un simile caso di guerra all'istituzione internazionale. La quale, quindi, deve essere dotata da parte degli stati membri dei contingenti civili e militari necessari per intervenire, prima senza uso della forza, poi, se occorre, anche con l'uso della forza (che non e' guerra, spiegamento di distruzione, vietato all'Onu dai suoi scopi costitutivi, ma pura azione di polizia, contenimento dell'aggressione col minimo uso di violenza). Ma nessuno stato ha finora adempiuto questo obbligo, cosicche' sotto nome Onu agiscono invece singoli stati o coalizioni, con grave pregiudizio della pace e della formazione di un giusto ordinamento cosmopolitico. Perche' l'Italia non adempie per prima quell'obbligo statutario? Non sarebbe un atto prudente e saggio di difesa, sia civile che militare? Inoltre, in una simile malaugurata ipotesi, non combattere con le armi non vorrebbe dire cedere alla violenza. Ci sono anche mezzi nonarmati di difesa anche da un attacco militare, ma si tratta, naturalmente, di conoscerli nelle esperienze storiche (di cui va crescendo la documentazione, tanto ignorata a favore della storia militare) e di predisporne l'organizzazione e l'addestramento, almeno quanto si fa per la difesa militare. Questo chiedono i pacifisti nonviolenti, che non chiudono gli occhi sui possibili casi di offesa e non vogliono irresponsabilmente - come mi disse una volta un alto uffciale - la semplice non-difesa.
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6. Il pacifista nonviolento dimentica di accompagnare all'etica delle buone (buonissime) intenzioni, nei rapporti di convivenza, l'etica della responsabilita'.
Questa famosa distinzione tra etica delle intenzioni ed etica della responsabilita' non puo' lacerare il nostro agire. Si tratta di due aspetti dell'azione umana. Certamente, a volte e' difficile e drammatico comporli, ma non possiamo scinderli senza dividere l'uomo. Non e' una buona intenzione (anche se fosse per non commettere violenza) quella che e' irresponsabile, che non si cura delle conseguenze: "Fiat justitia, pereat mundus" non e' un buon principio, perche' la giustizia consiste nel far vivere il mondo, e non farlo perire. E non e' una buona responsabilita' quella che cerca alcuni risultati senza vedere come retroagiscono sull'uomo stesso, sul suo animo, percio' sulle sue intenzioni e, di conseguenza, sulle azioni successive e relativi effetti. Giuliano Pontara ha analizzato con cura la brutalizzazione dell'uomo che l'uso delle armi comporta quasi fatalmente (12). E Kant ricordava quel detto: "La guerra e' un male perche' produce piu' malvagi di quanti ne toglie di mezzo" (13). Dunque, le conseguenze di una guerra, anche di difesa, percio' giustificabile, anche quando ottiene un giusto risultato (che pero' dipende sempre, in modo determinante, da fattori di forza e non di ragione) sono gravi e incalcolabili. Un'etica dell'errore - che deve guidare il nostro agire nelle questioni molto complesse, che affrontiamo in condizioni di ignoranza - chiede di non porre conseguenze irreversibili (come argomenta sempre Giovanni Salio). La guerra, come la pena di morte, come le tecnologie pesanti, genera conseguenze irreversibili e incalcolabili. Decidere la guerra, percio', non risponde all'etica della responsabilita' e tanto meno all'etica delle intenzioni. Non cercare ne' costruire alternative alla guerra di difesa viola tanto l'etica della responsabilita' quanto l'etica delle intenzioni.
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7. Il pacifista nonviolento crede di poter dire che la violenza e' una malattia guaribile della natura umana.
E' ben vero che sappiamo tanto poco della nostra natura umana. Le tendenze dominatrici e distruttrici sono una sua malattia o ne fanno parte? L'uomo e' per natura buono o cattivo? Queste infinite questioni non possiamo porcele in termini totali (14). Forse possiamo dire che, se nella nostra natura c'e' tanta grandezza quanta miseria, tanta bonta' quanta malvagita' (ed anche se malvagita' e miseria fossero piu' grandi della bonta'), e' solo
poggiando sul primo aspetto - grandezza e bonta' -, e' solo facendo credito ad esso, che possiamo almeno limitare il male del secondo aspetto. Il quale e' male almeno nel senso innegabile che provoca molta sofferenza supplementare tra gli umani. Mi pare inefficace, tanto a priori quanto a posteriori, poggiare sul male per contenere il male. L'idea di pace fondata sulla forza (perche' gli uomini non saprebbero convivere se non costretti da un terzo piu' forte e dal timore di una pena) ottiene certo qualche primo risultato, ma temo che nello stesso tempo contribuisca a sviluppare (o almeno a conservare forte) il nostro lato deteriore. Senza scavalcare del tutto questo primo piano, che e' il piano della necessita', abbiamo bisogno di costruire con uguale impegno e concorso di energie, tecniche, strutture culturali e sociali, il piano superiore, dove il nostro lato positivo (che e' da supporre e cercare in tutti, anche nel peggiore tra noi) e' garantito nella sua possibilita' di sviluppo, e' favorito dalla fiducia coraggiosa e creativa.
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8. Il pacifista nonviolento vuole il disarmo degli stati.
Ma non serve che io da solo mi disarmi. Neppure serve che tutti disarmino meno uno, il quale si farebbe padrone del mondo. Ritengo non assurda, ma con una sua ragionevolezza, la tesi del disarmo unilaterale assoluto. E' discutibile, ma mi sembra certamente meno irresponsabile delle politiche di armamento crescente, che sono pure parse
ragionevoli. Che qualcuno cominci a disarmare (e non possiamo disarmare altri che noi stessi, altrimenti facciamo quel disarmo che si chiama guerra, cioe' disarmo imposto all'avversario per dominarlo) e' un atto di coraggio responsabile, per la liberazione del mondo dal pericolo delle armi, che difendono poco e male, mentre minacciano molto, anche chi le possiede. Pero', evidentemente, non esiste finora consenso sufficiente a che uno dei nostri stati compia questo passo. Potrebbe farlo un "buon" despota, ma non e' il caso di volere un despota per questo (oppure si'? Potrebbe anche diventare la soluzione meno peggiore. E non e' stato forse l'atto di un despota illuminato l'uso che Gorbaciov ha fatto del suo grande potere per invertire unilateralmente la spirale in crescita degli armamenti?) (15). Allora, la proposta intermedia di Johan Galtung, il transarmo (trasformazione degli armamenti da strutturalmente aggressivi a esclusivamente difensivi), dovrebbe essere considerata ed accolta anche dai "realisti": non disarma la sicurezza, ma disarma l'aggressivita'. Questo passaggio richiede pero' un forte mutamento culturale: il primato della sicurezza comune e globale sopra le posizioni di vantaggio, potere, privilegio, in cui ci possiamo trovare. Ora, invece, i recenti "nuovi modelli di difesa" statunitense e italiano, per loro esplicita dichiarazione, hanno per scopo essenziale la difesa del privilegio economico del Nord del mondo. Tale e' pure la cultura della difesa nell'Europa che vuole unificarsi sul denaro e sulla potenza. Percio' il disarmo non e' tanto un problema di distruzione degli arsenali, quanto delle idee di guerra. E' necessario il primo, ma non e' sufficiente
senza il secondo. Lo esprime bene Raimon Panikkar: "Il disarmo militare richiede un disarmo culturale", perche' "le nostre culture sono spesso belligeranti", vedono i diversi come nemici, inferiori e dunque "sacrificabili". La civilta' occidentale, in specie, ha "qualcosa di inerente" che l'ha portata ad essere bellicosa: "competitivita'..., sensibilita' per il quantitativo e il meccanico, soggettivismo, eccetera". "Il compito della filosofia nel momento attuale e' tanto semplice da enunciare quanto difficile da realizzare...: disarmare la ragione armata" (16).
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Postilla
Accetto volentieri un'osservazione fattami (ma ce ne sarebbero tante altre...) sul primo di questi otto punti di discussione. Per accogliere la critica all'assolutismo e prendere le distanze da questo, avrei omesso di stabilire qualche riferimento fermo, o assoluto che dir si voglia, quasi che non ne vedessi alcuno. Mi pare inutile dire (ma e' meglio
dirlo) che l'essere umano - o forse anche ogni vivente - e' da guardare sempre come fine e non solo come strumento, per dire con le parole di Kant la regola aurea di tutte le morali umane, che Kant presenta come categorica, cioe' non relativa, non condizionata. Questo principio e' nel cuore della cultura nonviolenta, che vorrebbe essere uno sviluppo conseguente dei migliori tentativi morali nelle varie civilta' umane. L'uomo e' dunque da vedere come un relativo-assoluto: condizionato in mille modi, ma portatore di un valore non manipolabile, tanto meno sopprimibile, anzi in realta' insopprimibile. Le religioni dicono questo parlando dell'uomo come immagine di Dio, cioe' simile e partecipe di quanto di piu' assoluto noi pensiamo, e sperando nel riscatto finale (percio' doveroso gia' in questo tempo) degli oppressi, dei calpestati e uccisi. Mi pare che Claudio Napoleoni, tra tanti altri, abbia espresso bene questa visione, dicendo che l'uomo e' "una creatura fatta di nulla che, stranamente, confina con Dio" (17), cosicche' in esso c'e' "una parte imprendibile", non riducibile, non assoggettabile (18). L'uomo e' relativo perche' in balia della morte e dei suoi mille tentacoli. Eppure e' piu' assoluto della morte, se e' vero che l'amore - come dice il biblico Cantico dei cantici - e' forte come la morte; se e' vero che e' grande e degno dell'uomo, come diceva anche Capitini, non rassegnarsi alla morte ma custodire speranze - oltre il breve orizzonte del nostro attuale sguardo - di una vita senza morte, che comincia col vivere senza uccidere.
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Note
1. G. Pontara, in AA. VV., Studiar per pace, vol. I, Thema editore, Bologna-Torino 1988, pp. 15-16).
2. Juergen Moltmann, Utopia, Eschatology, Hope, testo della lezione alla Fondazione San Carlo di Modena, 28 settembre 1993.
3. Heidegger, ivi citato da Moltmann.
4. Lo dimostrerebbero gli studi antropologici; cfr. due soli esempi lontani tra loro: Erich Fromm, Anatomia della distruttivita' umana, Mondadori, Milano 1973; articoli di Riane Eisler, Marija Gimbutas, Alfonso Montuori, su Gilania, la civilta' dell'Europa antica, in "Pluriverso", n. 1, dicembre 1995.
5. Trovo chiarificatrice, a questo riguardo, la classificazione delle diverse idee di pace e di pacifismo che fa Giovanni Salio in Le guerre del Golfo e le ragioni della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1991,
pp. 13-31.
5 bis. Ho raccolto trenta testi da ogni tempo sulla "sconfitta" della vittoria militare nell'articolo "Dov'e', o guerra, la tua vittoria?", in "il foglio" n. 178, febbraio 1991 (ora, portata a oltre cento testi, la raccolta e' pubblicata nel libro Dov'e' la vittoria? Piccola antologia aperta sulla miseria e la fallacia del vincere, con prefazione di Matteo Soccio, Il Segno dei Gabrielli editore, S. Pietro in Cariano, Verona 2005).
6. V. il testo della dichiarazione, il discorso di Gorbaciov, commenti di Raniero La Valle, Bernhard Haering, Pier Cesare Bori (con testi di Gandhi, Tolstoj, Lenin), in "Bozze 87", n. 1.
7. Il titolo originale dell'autobiografia di Gandhi e' An Autobiography or the Story of my experiments with truth, Navajivan Trust, Ahmedabad 1925, traduzione italiana (dopo la prima, Treves e Garzanti, 1931) La mia vita per la liberta', Newton Compton, Roma 1973, 1988.
8. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino 1973 e 1996, pp. 142-144.
9. R. Panikkar, La torre di Babele. Pace e pluralismo, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole (Fi)1990 (cfr le pp. 64, 108-110).
9 bis. E' la tesi di Antonio Parisella, in Sopravvivere liberi. Riflessioni sulla storia della Resistenza a cinquant'anni dalla Liberazione, Gangemi editore, Roma 1997.
10. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, cit. pp. 248-251.
11. V. in "Bozze 91", n. 3-4, la proposta di legge di iniziativa popolare per l'attuazione dell'art. 11 della Costituzione, presentata in Parlamento nel novembre 1993 con 60.000 firme.
12. G. Pontara, Se il fine giustifichi i mezzi, Il Mulino, Bologna 1974.
13. Immanuel Kant, Per la pace perpetua. Progetto filosofico, Primo supplemento.
14. Ma si veda, per esempio, l'articolo scientifico di Giuseppe Barbiero, Analisi della violenza come patologia, in "il foglio" n. 205, dicembre 1993.
15. Sul caso del Costa Rica, unico stato al mondo senza esercito, segnalo l'interessante articolo Costa Rica: giardino di pace e di democrazia, di Aldo Lanfranchi, in "Dialoghi di riflessione cristiana", n. 141, Locarno, aprile 1996. L'esercito fu abolito nel 1949 da don Pepe Figueras, che non era affatto un pacifista, tanto e' vero che proprio lui aveva scatenato una guerra civile contro un presidente usurpatore. Dopo la guerra, la nuova Costituzione aboliva l'esercito per ragioni pragmatiche e garantiva diritti civili e sociali avanzati. Figueras si ritiro' subito lasciando il potere al presidente legittimo. Il Costa Rica ha oggi condizioni di alfabetizzazione, di democrazia, di relativo benessere e di pace invidiabili in una regione
violenta come il Centroamerica. L'assenza dell'esercito ha evitato al paese la possibilita' fisica delle guerre civili. In una contesa territoriale col Nicaragua, nel 1994, questo stato non e' stato indotto ad approfittare del disarmo costaricano. La contesa e' stata risolta con un arbitrato, di cui il Costa Rica ha accettato la sentenza ad esso sfavorevole, senza alcun sacrificio umano. Sarebbe importante studiare bene tutti gli effetti di questo disarmo statale, che possono mandare in crisi la convinzione che solo le armi danno sicurezza.
16. R. Panikkar, La torre di Babele, cit., pp. 171 e 47.
17. Claudio Napoleoni, Cercate ancora. Lettera sulla laicita' e ultimi scritti, Editori Riuniti, Roma 1990, p. 27.
18. Raniero La Valle, Introduzione al libro citato di C. Napoleoni, p. XXX.

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