Tratto da La Domenica della Nonviolenza Numero 229 del 16 agosto 2009
2. MAESTRE.
La Resistenza Nonviolenta
di Anna Bravo

[Nuovamente riproponiamo il seguente saggio di Anna Bravo (che nuovamente
ringraziamo per avercelo messo a disposizione) originariamente pubblicato
sul quotidiano "La Repubblica" del 26 aprile 2005]


Al tempo della seconda guerra mondiale, in Europa e negli Stati Uniti
circolava l'espressione "sdraiarsi come un danese"
La Danimarca non si era opposta con le armi all'occupazione nazista, il
governo socialdemocratico, pur protestando contro la violazione della
neutralita', era rimasto in carica, aveva consentito alla messa fuori legge
dei comunisti, si lasciava usare come "vetrina democratica" del III Reich,
collaborava mantenendo relazioni economiche con la Germania. Dunque la
Danimarca si era "sdraiata", allo stesso modo di una donna che si sottometta
all'assalto maschile - i discorsi politici ricorrono spesso a metafore
sessuali.
Strana collaborazione, pero', lontanissima dallo zelo della Francia di
Vichy.
Visto che la Germania ha sottoscritto un memorandum in cui si impegna a non
ingerirsi negli affari interni danesi, il governo sceglie di prenderlo alla
lettera, muovendosi sul filo del rasoio con la tattica del "come se": come
se la Germania intendesse davvero rispettare i patti, come se la minuscola
Danimarca potesse negoziare da pari a pari. A volte ci riesce.
Nell'ottobre 1942, Hitler deve rinunciare a far introdurre nel paese leggi
antiebraiche, perche' il governo minaccia di dimettersi, dichiarando che
qualsiasi attacco agli ebrei danesi equivale a un attacco alla Costituzione,
in cui e' garantita l'uguaglianza di tutti i cittadini. Intanto, non solo a
a Copenaghen, molti e molte smettono repentinamente di parlare e di capire
la lingua tedesca, e il rifiuto dell'antiebraismo e' cosi' diffuso e palese
che fra i gerarchi nazisti nascono divergenze su come gestire la situazione.
Nell'agosto '43, di fronte alla pretesa tedesca di schiacciare con la legge
marziale una ondata di scioperi, il governo si autoscioglie, dando una
enorme legittimazione alla pressoche' neonata resistenza.
Poco dopo, a cavallo fra settembre e ottobre, la storia piu' ammirevole.
Quando gli occupanti cominciano ad arrestare in prima persona gli ebrei e
progettano la loro deportazione in massa, ecco che la popolazione - si puo'
davvero dire "la popolazione" - si organizza. Il rabbino della sinagoga di
Copenaghen comunica ai fedeli la minaccia; la resistenza, i partiti, le
Chiese, la diffondono con i loro canali. I cittadini attivano tutto il loro
tessuto associativo, nascondono i ricercati, raccolgono denaro per affittare
un numero di barche suffficiente a caricare in poche riprese migliaia di
persone, li accompagnano nottetempo ai luoghi di imbarco, mentre lungo
strade e sentieri di campagna vigilano i membri della resistenza; infine li
traghettano nella sicura Svezia. Hanno collaborato almeno quaranta
associazioni di vario tipo, organi amministrativi, la polizia, la guardia
costiera - per questo alcuni poliziotti finiranno in Lager. Grazie al popolo
"sdraiato", piu' del 90% dei 7.695 ebrei danesi passa dalla parte dei
salvati. Esempio unico, che alcuni autori hanno cercato invano di
relativizzare, e che, ha scritto Hannah Arendt, dovrebbe essere proposto
agli studenti di scienze politiche, perche' capiscano a quali risultati puo'
arrivare una lotta nonviolenta, sorretta da un buon livello della coesione
sociale e del riconoscimento popolare nelle istituzioni.
*
Prima ancora che nasca una resistenza armata, pratiche conflittuali inermi
si sviluppano in tutta Europa: si va dalla non cooperazione agli scioperi,
dalle proteste pubbliche per la penuria di viveri, alla protezione dei piu'
vulnerabili, alla resistenza alle razzie di lavoratori da gettare nelle
fabbriche del III Reich.
In Polonia, si crea una rete di scuole clandestine contro il disegno nazista
di ridurre quel popolo alla condizione servile.
Soprattutto nei paesi del nord, insegnanti, magistrati, medici, sportivi,
spesso appoggiati dalle Chiese, rifiutano di iscriversi ad associazioni di
mestiere nazificate; in Norvegia non ci sara' piu' alcuna gara fino alla
conclusione della guerra - il che contribuisce a aprire gli occhi a molti
giovani.
Ovunque durissimo, il braccio di ferro porta ad arresti e deportazioni, ma
le istituzioni collaborazioniste sono completamente svuotate, la parvenza di
normalizzazione cui aspirano gli occupanti resta un miraggio.
Pochissime, almeno fino agli anni novanta, le ricerche che mettono a tema
il carattere disarmato di queste lotte, e dovute quasi esclusivamente a
studiosi dell'area nonviolenta, fra cui lo storico francese Jacques Semelin.
Elaborando alla fine degli anni Ottanta il concetto di resistenza civile,
Semelin da' a queste pratiche eterogenee un solido statuto teorico, e ne
chiarisce la specificita': assenza delle armi e metodi in genere
nonviolenti, i cittadini come protagonisti principali, autonomia degli
obiettivi, diretti a contrastare lo sfruttamento e il dominio nazista sulla
societa'. Altra cosa, e piu' complessa, del ruolo di appoggio e supporto
alla resistenza armata, che pure conta ed e' prezioso.
*
Ancora oggi, nell'opinione comune e nella ritualita' ufficiale, e' solo
quest'ultimo aspetto a essere ricordato. Cosi' anche in Italia.
Sull'onda dell'attenzione di Carlo Azeglio Ciampi per il rapporto fra
identita' nazionale e resistenza, le celebrazioni del 25 aprile si sono
aperte da tempo all'esperienza dei civili, presentati come attori solidali e
sofferenti, pero' calati e confusi in una massa indistinta, gregaria alla
lotta in armi. Diversamente che nel dibattito storiografico, quasi mai si
parla della resistenza disarmata come di una realta' autonoma.
Eppure anche da noi e' esistita, ed ha avuto il suo momento unico, iniziato
e cresciuto nei giorni dopo l'8 settembre, quando alla notizia
dell'armistizio con gli alleati l'esercito si dissolve, e decine di migliaia
di militari si sbandano sul territorio nazionale, braccati da tedeschi e
fascisti. Sulle strade - scrive Meneghello ne I piccoli maestri - si
vedevano "file praticamente continue di gente, tutti abbastanza giovani, dai
venti ai trentacinque, molti in divisa fuori ordinanza, molti in borghese,
con capi spaiati, bluse da donna, sandali, scarpe da calcio... Pareva che
tutta la gioventu' italiana di sesso maschile si fosse messa in strada, una
specie di grande pellegrinaggio di giovanotti, quasi in maschera, come
quelli che vanno alla visita di leva".
Dietro quei capi sottratti ad armadi gia' sguarniti, indossati in case
cautamente ospitali o in luoghi appartati, si nasconde una iniziativa di
massa del tutto indipendente da direttive politiche, e carica di rischi -
presa in ostaggio, deportazione, fucilazione. E' la piu' grande azione di
salvataggio della nostra storia, e una testimonianza che fra popolazione e
nazisti/fascisti si e' aperto un contenzioso su aspetti cruciali
dell'esistenza collettiva e della legittimita' pubblica, come i criteri di
innocenza e colpevolezza. E' politica, che altro?
Solo che a agire sono per lo piu' donne, e donne odiosamente definite
"umili", donne ritenute incompatibili con la sfera pubblica, che operano
individualmente o ricorrendo a reti di relazione parentali, di comunita', di
vicinato - strutture basilari della coesione sociale, pero' invisibili alle
categorie dell'analisi politica.
In quegli anni si incontrano storie belle e importanti, che andrebbero
raccontate in ogni occasione, pervicamente. Che aiuterebbero a ripensare il
tema della responsabilita' personale nella guerra e nella resistenza.
E' vero che la lotta armata chiede corpi giovani e sani, che non tutti
possono sparare, vivere in clandestinita', reggere grandi fatiche; ma il
quadro cambia se si pensa a una resistenza diversa, praticabile in molti
piu' luoghi e forme, accessibile a molti piu' soggetti, dalla madre di
famiglia al prete al nonviolento, a chi ha un'eta' anziana o e' fisicamente
debole. "Fai come me" e' un invito che il resistente civile puo' estendere
ben al di la' di quanto possa fare il partigiano in armi, e che mina alle
radici una infinita' di autoassoluzioni.
*
Quelle storie aiuterebbero anche a smontare lo stereotipo della nonviolenza
come utopia per anime belle. Niente affatto. Nel '43, poteva apparire del
tutto irrealistico tentare un salvataggio degli ebrei con mezzi nonviolenti,
in un paese sotto legge marziale direttamente controllato dai nazisti.
Guardando all'oggi, nessuno aveva previsto le rivoluzioni incruente all'est,
e c'e' chi diffida dei militanti di Otpor, l'organizzazione serba per la
resistenza civile contro Milosevic, che girano l'Europa per insegnare le
tecniche non armate, ma che devono pur avere altri fini! - la nonviolenza da
sola non varrebbe la pena. Non era utopica neppure la lunga resistenza
civile della popolazione kosovara; e' stata ottusa la comunita'
internazionale a non sostenere decisamente Rugova, una scelta che nel tempo
ha minato la fiducia nella strategia nonviolenta dando spazio all'Uck.
*
La seconda guerra mondiale ha ancora molto da dire, a cominciare da quel che
si intende per contributo di un paese o di un gruppo alla lotta antinazista
(e a qualsiasi lotta). Oggi lo si valuta ancora in termini di morti in
combattimento; sarebbe giusto, tanto piu' in tempi di guerre contro i
civili, misurarlo anche sulla quantita' di energie, di beni, soprattutto di
vite strappate al nemico; sul sangue risparmiato non meno che sul sangue
versato.
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