La Nonviolenza In Cammino Numero 918 del 20 agosto 2009
6. MAESTRE.
Anna Bravo Ricorda Lidia Beccaria Rolfi

[Riproponiamo ancora una volta il seguente testo di Anna Bravo
originariamente apparso nell'ampio lavoro collettaneo, a cura di Eugenia
Roccella e Lucetta Scaraffia, Italiane, 3 voll., Roma 2004 (nel volume
secondo, alle pp. 23-24).]


"Per rappresentare la dialettica servo-padrone non c'e' bisogno del Lager,
per raccontare il Lager non c'e' bisogno di inventare una storia d'amore tra
carnefice e vittima" - diceva sempre Lidia Beccaria Rolfi, partigiana
piemontese deportata al campo nazista di Ravensbrueck. Alla prima del
"Portiere di notte" si era risentita di fronte alla rappresentazione del
rapporto fra l'ex deportata Charlotte Rapling e l'ex Ss Dirk Bogarde. Non
aveva dimenticato il suo ritorno, quando tanti pensavano che le donne
fossero state deportate per lo svago dei soldati tedeschi, esempio estremo
del sospetto che circonda sempre la prigionia femminile; e aveva in orrore
il repertorio di fantasie sadiche cresciuto rapidamente intorno al binomio
SS-prigioniere.
Maestra elementare di famiglia contadina, nel 1945 Lidia e' una ragazza
ardita e vulnerabile, un'antifascista esistenziale avida di cose fresche e
nuove. Ma sui libri di testo rifatti in fretta e furia trova al posto dei
balilla una schiera di orfanelli poveri tristi e operosi, al posto delle
storie di guerra storie di santi; negli uffici si scontra con i vecchi
funzionari del regime. Non entra in nessun partito, frequenta tutte le
riunioni politiche, lavora per 100 lire al giorno alla Camera del lavoro.
Riprende a insegnare. Al momento di partire per una scuoletta in cima alle
Langhe, e' "pronta a violare subito la nuova legge dell'Italia libera" -
fraternizzando con i genitori degli allievi, leggendo troppi libri e
giornali politici, trascurando le preghiere in classe. In piu' - bella,
bionda, minuta, penetranti occhi castani - si trucca e porta i pantaloni,
fuma, non va in chiesa, balla alle feste dei coscritti. Per la gente del
paese e' una persona cara. Per i benpensanti di campagna e di citta', una
strana ragazza che deve aver avuto una strana esperienza in Germania.
Presto si accorge che anche tra gli antifascisti di deportazione si sa poco,
e quella femminile non interessa proprio. "Deportata? - la apostrofa un
comandante della sua zona - le partigiane si fanno uccidere, non si fanno
prendere prigioniere". Tempo qualche anno, impara a contrattaccare in vari
modi. Insieme ad Anna Maria Bruzzone scrive Le donne di Ravensbrueck, la
prima opera analitico-narrativa sulle deportate politiche, uscita nel '78 e
all'indomani gia' un classico e un battistrada per altre ricerche;
sull'atteggiamento con cui i suoi compagni di partigianato l'accolgono al
ritorno da Ravensbrueck, dice parole essenziali: "Quando tu tentavi di
raccontare la tua avventura, tiravano sempre fuori l'atto eroico: '... pero'
noi!'. I tedeschi li avevano ammazzati loro, i fascisti li avevano fatti
fuori loro... e noi eravamo prigionieri..." - dove l'ironia prende di mira,
insieme all'autocelebrazione, i valori celebrati: orgoglio militare, enfasi
sulla morte, primato del combattente in armi. Per Lidia, a qualificare la
resistenza non sono gli strumenti con cui la si pratica.
Per quasi trent'anni si dedica a far conoscere la prigionia delle donne e a
correggere il clima che l'ha tenuta ai margini. Grande disturbatrice, la
battaglia contro fascismo e negazionismi non le impedisce di criticare
l'equazione resistenza=lotta armata, che oscura ogni altra forma di
opposizione antinazista, a cominciare da quelle attuate in Lager; di
strapazzare gli amici deportati per il loro maschilismo; di imporre la
presenza femminile nelle sedi piu' restie. Cuore vigile, prende posizione
contro i crimini del presente, convinta che compito dei sopravvissuti sia
testimoniare il Lager e insieme farsi portavoce di tutti gli oppressi, in
primo luogo dei meno ascoltati.
Muore nel '96, subito dopo aver pubblicato il racconto del suo ritorno - non
una parola sprecata ne' una mancata, nessun eufemismo linguistico e
politico: era il suo modo di raccontare, che ha portato in tante scuole, in
tante occasioni pubbliche. Lavorava da anni a un libro sull'infanzia sotto
il nazismo, dove accanto ai bambini dei ghetti e dei lager dovevano trovare
posto gli scolari e scolare tedeschi violentemente socializzati alla guerra
e alla riproduzione, i bambini uccisi nella cosiddetta "Operazione
Eutanasia", quelli vittime dell'"Operazione Lebensborn". Non riuscira' a
completarlo; ma dopo il Lager - diceva - era stata tutta vita regalata.

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