Tratto da Voci e Volti della Nonviolenza Numero 360 del 17 agosto 2009
La Shoa' e i Giusti in Italia
di Anna Bravo

[Riproponiamo ancora una volta il seguente saggio di Anna Bravo
originariamente pubblicato come voce "Giusti d'Italia", nel Dizionario
dell'Olocausto, Einaudi, Torino 2004, 2007 (edizione italiana curata da
Alberto Cavaglion)]


Poco numerosi, relativamente ben integrati nel tessuto sociale e nelle
istituzioni, concentrati nelle citta', gli ebrei italiani parlavano la
stessa lingua dei loro connazionali e avevano abitudini cosi' simili da
riuscire in pratica indistinguibili. Nonostante la tradizione
dell'antigiudaismo cristiano e la propaganda del regime, non esisteva un
diffuso antiebraismo radicale. L'occupazione tedesca, che dura venti mesi
mentre nel resto dell'Europa si conta in anni, inizia quando i tedeschi sono
manifestamente in difficolta' su tutti i fronti, e la popolazione ha
sperimentato l'incapacita' del regime a garantire minime condizioni
materiali, conosce i disastri militari dell'Italia, e' ostile alla guerra e
potenzialmente solidale con le sue vittime: nell'Italia del '43-'45 chi
protegge gli ebrei puo' sperare, se non nell'appoggio, in una certa
benevolenza dei concittadini. Infine a Roma c'e' il Vaticano, sede del
papato con la sua autorita' internazionale, e centro di una rete fitta di
parrocchie e conventi con una lunga pratica di asilo ai bisognosi.
Gli aspetti favorevoli allpopera dei soccorritori sono dunque molti. Eppure
8.000 ebrei/e italiani vengono deportati, a volte su delazione o per
l'accanimeto di funzionari statali, piu' spesso perche' non trovano nessuno
disposto a spendersi per loro. E' vero che il rischio e' grande, e che i
nazisti considerano gli italiani una popolazione inferiore e traditrice
contro cui infierire. Resta il fatto che ci si decide a dare aiuto solo
quando e' evidente che per gli ebrei e' questione di vita o di morte, e che
a agire e' una minoranza.
Come in tutta Europa, si tratta di persone diverse fra loro, non
riconducibili a un determinato tipo umano e sociale o a una fede religiosa o
politica, e neppure alla difficilmente verificabile categoria della
"personalita' altruista" o a una condizione di marginalita' sociale che
favorirebbe autonomia di giudizio e scelte trasgressive. Sono differenti
anche le modalita' di azione. C'e' chi si appoggia a forze partigiane, chi
fa riferimento alle reti di resistenza civile che lavorano per mettere in
salvo in Svizzera antifascisti e prigionieri alleati, chi e' in contatto con
la Delasem, l'organizzazione ebraica di soccorso ai perseguitati; altri si
servono dei rapporti fra parrocchie e fra conventi, altri ancora usano la
loro posizione nelle catene ufficiali di comando, come quei capi militari e
alti funzionari delle zone occupate dall'Italia - Croazia, sud della
Francia, Grecia - che in varia misura e con varie motivazioni ostacolano gli
arresti di ebrei del luogo.
Alla base di moltissime iniziative ci sono networks di tipo familiare,
amicale, di comunita', di vicinato, quasi sempre piccoli o piccolissimi,
spesso costituiti di un individuo con una minima rete di aiutanti; a volte
c'e' una sola persona. Per lo piu' si comincia offrendo occasionalmente
cibo, contatti o ospitalita', per poi passare a un sostegno piu'
continuativo e impegnativo, e si arriva all'illegalita' gradualmente e senza
averlo programmato, ma in tempi rapidi e conoscendone i pericoli.
*
Di questa minoranza i Giusti italiani (325 al gennaio 2003) costituiscono
uno spaccato, non un campione - in quegli anni, per esempio, l'aiuto offerto
da una famiglia veniva accreditato al padrone di casa, anche se l'iniziativa
era stata della moglie, figlia o sorella; il riconoscimento dipende da molte
variabili, compreso il caso. Ma le vicende dei Giusti sono indicatori
preziosi delle dinamiche sociali e delle vie attraverso cui si diventa
salvatori.
Nella situazione italiana, i network informali hanno un ruolo di spicco, e
per buone ragioni. L'8 settembre 1943 il paese esce da vent'anni di un
regime che ha frantumato l'opposizione e avviato la fascistizzazione delle
strutture sociali. I partiti antifascisti mancano di radicamento, mezzi, a
volte di consapevolezza. Diversamente che in altri paesi europei, le
associazioni professionali, culturali o di altro tipo e i grandi nomi
dell'intellettualita' non si attivano in alcun modo. I sentimenti civici,
storicamente deboli, sono sbriciolati; la coesione sociale e' scarsa, le
istituzioni statali svuotate.
Al contrario, i legami personali, familiari e comunitari, tradizionalmente
piu' solidi, reggono, ed ecco perche' riescono a realizzare le iniziative
piu' efficaci (ma anche meno visibili alle categorie della politica).
*
Almeno in un caso e' documentato il coinvolgimento di un'intera comunita'. A
Nonantola, un paese dell'Emilia-Romagna, nell'estate '42 sono accolti una
novantina di ragazzi ebrei di vari paesi europei, che il presidente
nazionale della Delasem Vittorio Valobra e' riuscito a trasferire dalla
Jugoslavia. Sistemati a villa Sacerdoti alla periferia di Nonantola, i
piccoli profughi vivono abbastanza tranquillamente e trovano amici fra gli
abitanti. Rapporti preziosi, perche' dopo l'8 settembre 1943, quando i
tedeschi occupano il paese, i ragazzi saranno nascosti, oltre che nei locali
del Seminario e nell'asilo delle suore, presso famiglie del posto. Nel
frattempo si prepara la loro fuga verso la Svizzera. I due Giusti di
Nonantola, il dottor Giuseppe Morreali e don Arrigo Beccari, riescono a far
preparare carte d'identita' false intestate al comune di Larino, in
provincia di Campobasso, dove si spera sia impossibile fare controlli. Tutto
avviene all'interno della comunita', e solo per facilitare il passaggio in
Svizzera Beccari e Morreali cercano contatti con il neonato movimento
partigiano del centro-nord.
*
Fra quanti decidono e operano da soli o quasi - il gruppo forse piu'
eterogeneo - alcuni hanno una storia di impegno politico. Cosi' il medico
piemontese Carlo Angela, che era stato tra i fondatori del partito
Democrazia sociale nel 1921, e che per il suo antifascismo aveva scontato
vessazioni e ostacoli nella carriera. Nel 1943, Angela dirige la clinica
psichiatrica Villa Turina Amione di San Maurizio Canavese, un paese delle
valli torinesi. Ha moglie e due figli appena adolescenti, e' di poca salute,
e' lui stesso sotto sorveglianza; il paese e' stato piu' volte rastrellato,
fascisti e tedeschi entrano a loro piacere nella clinica, fra i dipendenti
non mancano i collaborazionisti. Eppure Angela accoglie a Villa Turina varie
famiglie ebree, scrive falsi certificati medici, fronteggia le ispezioni e
gli interrogatori dei fascisti, nel febbraio '44 e' preso in ostaggio e si
salva fortunosamente. Nel caso di Renzo Segre e Nella Morelli, ospitati per
20 mesi facendo passare lui per malato, lei per sua assistente, arriva a
presentarsi al temutissimo presidio fascista torinese per farsi garante
della loro identita' fittizia. Sostenuto soltanto da un piccolissimo nucleo
di dipendenti della clinica, il settantenne Angela opera con piu' efficacia
delle forze della resistenza e del clero locale.
*
34 anni, figlia di commercianti milanesi, corista alla Scala, Liuba Bandini
non ha invece un curriculum politico e ha imparato a detestare i
totalitarismi attraverso l'esperienza dell'ex marito Giorgio Scerbanenco,
profugo dall'Ucraina. Anche lei agisce di propria iniziativa e
sostanzialmente da sola, nascondendo nella sua casa milanese i coniugi
Alberto e Marisa Campelung dal primo dicembre 1943 alla primavera 1945;
l'unico sostegno le viene dalla sorella Ines, che abita nello stesso stabile
e custodisce i bagagli della coppia. Il 14 marzo, avvertiti che i tedeschi
sono sulle loro tracce, i Campelung devono fuggire, e Liuba viene
pesantememente minacciata dalla polizia SS. Non solo tiene testa
all'interrogatorio, lei donna sola e madre di un bimbo di 4 anni, ma per
quanto sorvegliata riesce in seguito a far arrivare qualche aiuto ai suoi ex
ospiti.
*
Per quanto riguarda l'opera di preti e religiosi/e, non esiste alcuna
specifica direttiva del papa che la solleciti, e l'impegno nasce per altre
vie.
Alcuni si attivano su richiesta e in accordo con la Delasem, come don
Francesco Repetto, giovane segretario del cardinale di Genova Pietro Boetto,
cui poco dopo l'8 settembre Valobra aveva chiesto di distribuire sussidi
agli ebrei della zona e agli stranieri rifugiati. Dato che molti sono presto
costretti a nascondersi, Repetto si trova a procurare viveri, documenti
falsi, asilo presso conventi e privati, guide per la fuga in Svizzera.
Intanto lavora per mobilitare una quantita' di religiosi nella diocesi
genovese e per sensibilizzare sacerdoti e vescovi dell'Italia
settentrionale. Scoperto nel luglio '44, sara' sostituito da un altro futuro
Giusto, don Carlo Salvi.
Molti religiosi/e agiscono pero' indipendentemente dai canali delle Curie:
in Piemonte, il domenicano padre Girotti, che sara' deportato nell'estate
'44 e ucciso a Dachau, ospita nel suo monastero molti ebrei, pare senza
chiedere e dire nulla ai superiori gerarchici.
A Assisi, dove non ci sono rappresentanti della Delasem, e' invece la chiesa
a prendere l'iniziativa. Nella cittadina era gia' in piedi un comitato per
l'assistenza ai profughi promosso dal vescovo Nicolini e affidato a don Aldo
Brunacci - un organismo perfettamente legale, che colmava il vuoto lasciato
dalla crisi delle istituzioni e che si giovava delle tante strutture di
accoglienza. Quando dopo l'8 settemebre cominciano ad arrivare ebrei
italiani e profughi di altri paesi che non parlano la lingua e hanno bisogno
di tutto, il comitato passa a operare segretamente. Don Brunacci persuade
alcuni impiegati comunali a procurare documenti in bianco e un tipografo a
creare timbri ufficiali di comuni delle zone occupate dagli alleati o
distrutti dai bombardamenti. Nel frattempo si rivolge alle suore di Assisi e
del circondario perche' ospitino nelle loro foresterie le persone senza
mezzi, facendole passare per pellegrini stranieri. Partecipa al lavoro di
assistenza anche padre Rufino Nicacci, superiore del convento di San
Damiano, che fra l'altro sistema molti rifugiati presso il monastero delle
Clarisse di San Quirico, assicurando loro viveri e conforto.
Don Brunacci dira' in seguito che Nicolini gli aveva confidato di aver
ricevuto una lettera del segretario di stato vaticano Maglione con l'invito
a soccorrere antifascisti e ebrei, e che a ogni vescovo ne era stata mandata
una simile. Ma di nessuna si e' mai trovata traccia. Probabilmente Brunacci
aveva visto una lettera nelle mani del vescovo, che gli aveva lasciato
credere che si trattasse della richiesta papale, e si era convinto che fosse
cosi' perche' lo desiderava e lo trovava naturale; e forse a sua volta ne
aveva fatto cenno ad altri preti, a suore e monaci per guadagnarne
l'appoggio. Certo, come molti altri italiani/e, don Brunacci e padre Nicacci
agiscono spinti dalla pietas cristiana; ma nessun sentimento affiorerebbe in
assenza di quell'immedesimazione con i perseguitati che puo' nascere
dall'incontro con la loro sofferenza e il loro bisogno di protezione, e che
e' il tratto piu' diffuso fra i soccorritori, indipendentemente dalla loro
religione e religiosita'.
*
Segue lo stesso impulso il padovano Giorgio Perlasca, il piu' noto e il piu'
singolare fra i salvatori italiani. Fascista, volontario nellle guerre
d'Etiopia e di Spagna, ma ostile alle leggi antiebraiche del '38 e
all'alleanza con la Germania, di mestiere commerciante di carni, Perlasca si
trova a Budapest nell'inverno '44, al momento in cui stanno precipitando
deportazioni e massacri. Si offre di collaborare con l'ambasciata spagnola,
che di concerto con quelle di altri paesi neutrali, ospita gruppi di ebrei
in edifici extraterritoriali e li fornisce di lettere di protezione; alla
partenza del titolare d'ambasciata decide di rimanere per continuare
l'opera, spacciandosi per il nuovo incaricato d'affari spagnolo. Fatta
eccezione per un microgruppo di aiutanti, Perlasca e' solo, con pochi mezzi,
e il suo bluff lo rende vulnerabilissmo; eppure moltiplica le lettere di
protezione, riempie le case, accorre per fronteggiare le aggressioni di SS e
bande naziste, tratta con i capi della polizia e delle Croci frecciate
alternando lusinghe, minacce, promesse di impunita', corruzione. Alla fine,
circa 5.000 persone saranno salve, un risultato reso possibile dalle doti
personali del protagonista, ma, imprevedibilmente, anche dal suo passato: al
momento del congedo dalla guerra di Spagna, Perlasca ha infatti ricevuto
dalle autorita' franchiste un documento che lo legittima a rivolgersi in
caso di necessita' a qualsiasi sede diplomatica spagnola. Nell'Ungheria del
44, che dopo il rovesciamento italiano delle alleanze e' un paese nemico, ha
bisogno di una nuova identita' come cittadino spagnolo per salvarsi e
tornare in Italia, e la ottiene. Diventera' invece un paradossale esempio di
Giusto, che salva gli ebrei nonostante sia (sia stato) fascista, e nello
stesso tempo perche' e' (e' stato) un fascista e ha combattuto al fianco dei
fascisti spagnoli.
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