2. MAESTRE.
Storie da Scoprire, Storie da Ripensare
di Anna Bravo

Ringraziamo Anna Bravo (per contatti: anna.bravo@iol.it) per averci messo a
disposizione il seguente saggio apparso col titolo "Storie da scoprire,
storie da ripensare" nel fascicolo della rivista "Parolechiave", n. 40,
2009, monografico sulla nonviolenza.


Quale nonviolenza
Le guerre del novecento e di questi primi anni duemila hanno a tal punto
inverato i timori e gli avvertimenti dei pacifisti che sentirne ventilare di
nuove suona incredibile. L'unica a conservare l'immagine del conflitto
giusto e necessario e' la seconda guerra mondiale. Guerra annunciata e resa
difficilmente evitabile dalla politica di Germania, Italia, Giappone. Guerra
a forte componente ideologica, civilta' contro barbarie, democrazie contro
totalitarismi - una visione cosi' radicata e funzionale che ancora oggi c'e'
chi tende a dimenticare il patto Molotov-Ribbentrop, e ad arruolare
implicitamente fra le democrazie l'Urss del '41-'45.
Dopo gli esiti dello strumento guerra e il crollo incruento dei regimi
all'est, ci si poteva aspettare uno spostamento delle opinioni publiche
verso la nonviolenza, e in parte e' avvenuto. Ma interesse non equivale a
informazione. La nonviolenza rischia il destino di quei classici che tutti
dicono di conoscere senza averli letti, chi di nonviolenza scrive e parla ha
spesso l'impressione di dover ogni volta ricominciare da zero. La si scambia
con una rinuncia ai conflitti, quando e' una politica per gestirli in modo
evoluto; con una pratica per anime belle, capeggiata da esotici visionari,
riservata a societa' con tasso minimo di tensioni interne, o a situazioni in
cui gli avversari pongono alcuni limiti alla propria distruttivita'. Al
contrario, l'India era un paese gremito di contraddizioni, e Gandhi un
leader sperimentato, abile nel negoziare e nell'organizzare grandi scene di
teatro politico da esporre agli occhi del mondo; quanto alla condotta delle
controparti, si da' vita a lotte nonviolente persino nell'Europa sotto
dominio nazista. Invece che un umanesimo dalle molte radici, alcuni vedono
nella nonviolenza un'emanazione esclusiva delle religioni, e nelle religioni
il vecchio oppio dei popoli che Kurt Vonnegut ha reinterpretato cosi': "Come
amico sincero degli oppressi, (Marx) voleva dire che era contento che
avessero qualcosa con cui alleviare almeno un po' le loro pene" (1). Fra i
militanti dei movimenti no global, c'e' chi ha mostrato di considerare la
nonviolenza una modalita' transitoria da impiegare in attesa dello scontro
"vero", oppure una semplice tattica di piazza, mentre implica una
rivoluzione interiore ed esige un apprendistato continuo.
Ma quando l'apprendistato c'e', non sempre e' benvisto. Durante le
"rivoluzioni di velluto" all'est, su alcuni giornali si "denunciava" la
presenza di militanti di Otpor, l'organizzazione serba per la resistenza
civile contro Milosevic, che sarebbero andati in giro per l'Europa
insegnando le tecniche delle manifestazioni nonviolente, ma che dovevano pur avere altri fini! - la nonviolenza da sola non sarebbe valsa la pena.
Ancora oggi, in Italia molti scrivono "non violenza" invece della dizione
consolidata "nonviolenza" cara a Capitini; e' vero che un termine impreciso
e' comunque meglio della disattenzione, e' vero che non necessariamente le
parole devono seguire la coscienza, possono anche precederla. Ma il fatto
testimonia quantomeno una scarsa familiarita' con il linguaggio nonviolento.
Quante somiglianze con il femminismo, che pur essendo sempre piu' citato,
non e' certo altrettanto conosciuto. Deve essere il destino dei temi che
minacciano di disorganizzare l'orizzonte simbolico dominante, e che in parte
hanno gia' contribuito a modificarlo.
Il Novecento dei genocidi, dei lager, del gulag, delle persecuzioni
"etniche", e' infatti anche il secolo che ha tentato di affermare il primato
dei diritti umani contro la pretesa degli stati a colpire i cittadini in
nome della propria sovranita'. Gradatamente il principio si e' fatto strada,
sul piano giuridico si stanno ponendo faticosamente le basi di un diritto
internazionale fondato sul principio di opposizione alla barbarie. Nasce da
qui il dilemma fra "mai piu' guerre" e "mai piu' Auschwitz" che ha segnato
gli ultimi decenni. E, attraverso un cammino tortuoso, nasce da qui
l'ossimoro "guerra umanitaria", con cui si cerca di affrontare il contrasto
fra le regole dell'ordinamento mondiale, che bandiscono l'uso della forza
contro stati sovrani, e le ripetute Dichiarazioni universali dei diritti,
emanate per proteggere gli individui dai loro governanti.
E' una complessita' che si e' riverberata in vari modi sulle teorie
nonviolente - uso il plurale non solo perche' il concetto ha storie e
origini diverse, ma perche' fotografa la realta' di oggi. La nonviolenza e'
un mondo variegato, non identificabile tout court con il pacifismo, che ne
e' piuttosto un'espressione legata al tempo o alla minaccia di guerra e che,
in Italia e non solo, e' piu' vicino alle forze politiche, piu' vistoso,
piu' rumoroso. Piuttosto che un pacifista, il nonviolento e' un facitore di
pace (2). Quale nonviolenza, pero'?
Da molti anni, si e' cristallizzata una controversia fra due componenti che,
molto grossolanamente, si possono identificare nei pacifisti "senza se e
senza ma" e nei teorici dell'ingerenza umanitaria, favorevoli a operazioni
di polizia internazionale contro le violazioni dei diritti umani - e qui
spiccano alcuni ex dei movimenti anni Sessanta e Settanta, che secondo
Berman (3) avrebbero sostituito all'utopia della rivoluzione quella di un
mondo capace di farsi carico dei piu' vulnerabili, al di la' e a dispetto
degli stati in cui vivono. A prezzo di contraddizioni radicali. Perche' da
un lato quell'utopia si inserisce nella spinta alla delegittimazione della
violenza che caratterizza in occidente il passaggio del secolo. Dall'altro
e' costretta a scommettere sulla capacita' regolatrice di organismi che
hanno gia' dato cattiva prova di se'.
Ma anche il pacifismo "senza se e senza ma" sconta la contraddizione fra la
solidarieta' alle vittime e il rifiuto di qualsiasi azione militare, a
favore della trattativa a oltranza. Qui il secondo lascito della guerra
mondiale - il nazismo come spartiacque della storia e della memoria - gioca
nei due sensi. Per gli "interventisti" mostra dove puo' portare la linea
dell'appeasement, per i pacifisti "senza se e senza ma" e' il termine di
paragone rispetto al quale le dittature di oggi sbiadiscono. Ironia: per
avvalore questa tesi, l'antiebraismo di sinistra serpeggiante nei movimenti
pacifisti e' costretto a appoggiarsi proprio sulla Shoah, mentre i peggiori
tiranni possono a loro volta rivendicare di non essere paragonabili a
Hitler. Gioca nei due sensi anche il carattere selettivo delle scelte, in
cui i principi si intrecciano nel primo caso con la diversa fattibilita'
degli interventi (si' in Jugoslavia, no in Russia), nel secondo con una
sensibilita' a dir poco variabile da situazione a situazione - nessun corteo
di decine di migliaia di persone per il Tibet o il Darfur (4).
Nel frattempo, il terrorismo ha creato un quadro nuovo. Il vincolo alle
politiche di creazione dell'odio, l'avversione a ogni negoziato eccetto
quelli gestiti in prima persona, la clandestinita', la lontananza fisica,
minano gli strumenti elettivi della nonviolenza - l'esempio, l'educazione,
lo scandalo dell'inermita', la mediazione. Oggi a trovarsi in primissimo
piano sono gli ancora esili, semisconosciuti e in senso proprio eroici
gruppi nonviolenti all'opera in Medio Oriente, Africa, Asia - e quanti
lavorano per sostenerli.
*
Oblio e incompetenza
Parlando di eventi e microeventi degli anni '68, Philippe Artieres (5) ha
riaffermato l'urgenza di una storia dell'oblio e delle procedure che l'hanno
costruito - meccanismi, interessi, inclinazioni non necessariamente
razionali e consapevoli. Ma la parola oblio si addice solo in parte alla
nonviolenza. Si dimentica quel che si e' conosciuto, come Gandhi e i
movimenti per i diritti civili degli afroamericani. Per lotte e idee
ignorate e travisate all'origine, meglio parlare di una percezione mancata o
distorta, di uno sguardo incompetente. E' una storia ancora in buona parte
da fare. Ne conosciamo le matrici di lungo e lunghissimo periodo:
l'associazione fra maschile e violenza/guerra (e fra donne e pace), cosi'
antica e pervasiva che le forme in cui si incarna non sembrano construzioni
simboliche, ma espressioni di un dato di natura. L'ideologia secondo cui il
vero cittadino e il vero uomo ha il diritto/dovere di portare le armi - e'
il prototipo trasmesso alla modernita' dalla rivoluzione francese (6), che
si e' via via dispiegato in una costellazione di idee e figure non sempre
coerenti fra loro e non sempre riducibili a una posizione politica:
dall'appoggio comunista alle guerre di liberazione all'immagine del ribelle
quarantottesco, dall'ardito dannunziano al combattente di Spagna, dal
proletario armato al guerrigliero, dal militante avanguardia della classe al
morituro che vanta il suo speciale diritto sul mondo - in una scritta murale
trovata in un acquartieramento tedesco a Pisa nel 1943 si leggeva: "Gli
uomini che devono combattere/ Debbono avere cio' che vogliono/ Lasciateli
bere, lasciateli baciare/ Chissa' quanto presto dovranno morire" (7).
Sono modelli, certo, semplificazioni, che hanno avuto (hanno?) un punto di
forza straordinario nell'ideologia leninista della violenza levatrice della
storia e della maturazione individuale. Non e' il pensiero di Marx in cui,
l'ha precisato Hannah Arendt, a costruire la storia e a formare l'uomo e'
invece il lavoro (8). Ma molti credono o hanno creduto che lo fosse.
Di queste genealogie della violenza abbiamo analisi irrinunciabili, mentre
scarseggiano le ricerche sui modi in cui soggetti, comunita', culture
l'hanno interpretata in date circostanze - penso ancora una volta alla
seconda guerra mondiale, che ha catalizzato fraintendimenti vecchi e nuovi.
*
Il paese sdraiato
Durante la guerra, era stata coniata l'espressione "sdraiarsi come un
danese". Perche' la Danimarca, consapevole della sproporzione di forze, non
si era opposta con le armi all'occupazione nazista, e il governo
socialdemocratico, pur protestando contro la violazione della neutralita',
era rimasto in carica, aveva consentito alla messa fuorilegge dei comunisti,
si lasciava usare come "vetrina democratica" del III Reich, collaborava
mantenendo relazioni economiche con la Germania. Dunque la Danimarca si era "sdraiata", allo stesso modo di una donna che si sottometta all'assalto
maschile - i discorsi politici ricorrono spesso a metafore sessuali.
Strana collaborazione, pero', lontanissima dallo zelo di Vichy. Visto che la
Germania ha sottoscritto un memorandum in cui si impegna a non
intromettersirsi negli affari interni danesi, il governo sceglie di
prenderlo alla lettera, sfruttando le esitazioni di Hitler a infierire su un
popolo "tipicamente ariano" e muovendosi sul filo del rasoio con la tattica
del "come se": come se la Germania intendesse davvero rispettare i patti,
come se la minuscola Danimarca potesse negoziare da pari a pari. Spesso ci
riesce. Cosi', quando nell'ottobre 1942 i plenipotenziari nazisti premono
per far introdurre leggi antiebraiche, il governo minaccia di dimettersi,
denunciando un'ingerenza che il memorandum aveva escluso, e resta fermo su questa linea: qualsiasi attacco agli ebrei danesi equivale a un attacco alla
Costituzione, che garantisce l'uguaglianza di tutti i cittadini.
A ottobre 1943, la vicenda piu' ammirevole. Appena si viene a sapere che gli
occupanti stanno preparando arresti di massa con deportazione immediata,
ecco che la popolazione - si puo' davvero dire "la popolazione" - si
organizza. Il rabbino della sinagoga di Copenaghen comunica ai fedeli la
minaccia; la resistenza, i partiti, le Chiese, la diffondono con i loro
canali. I cittadini attivano il loro tessuto associativo, nascondono i
ricercati, raccolgono denaro per affittare un numero di barche suffficiente
a caricare in varie riprese migliaia di persone, li accompagnano nottetempo
ai luoghi di imbarco, mentre lungo strade e sentieri di campagna vigilano i
membri della resistenza; infine li traghettano nella sicura Svezia (9).
Hanno collaborato almeno quaranta associazioni di vario tipo, organi
amministrativi, la polizia, la guardia costiera - per questo alcuni
poliziotti finiranno in Lager. Grazie al popolo "sdraiato", piu' del 90% dei
7.695 ebrei danesi (e tedeschi rifugiati in Danimarca prima della guerra)
passa dalla parte dei salvati. Esempio unico, e unico caso di uno Stato
insignito come tale del titolo di "Giusto tra le nazioni".
*
Un nuovo punto di vista
Pratiche antinaziste inermi si sviluppano in tutta Europa prima ancora che
nasca la lotta armata: si va dalla noncooperazione agli scioperi, dalle
proteste pubbliche per la penuria di viveri alla protezione dei piu'
vulnerabili, alla resistenza alle razzie di lavoratori da gettare nelle
fabbriche del III Reich. In Polonia si crea una rete di scuole clandestine
contro il disegno nazista di ridurre quel popolo alla condizione servile. In
Belgio e nei paesi del nord, insegnanti, magistrati, medici, sportivi,
spesso appoggiati dalle Chiese, rifiutano di iscriversi ad associazioni di
mestiere nazificate; in Norvegia non ci sara' piu' alcuna gara fino alla
conclusione della guerra - il che contribuisce ad aprire gli occhi a molti
giovani. Ovunque durissimo, il braccio di ferro porta ad arresti e
deportazioni, ma le istituzioni collaborazioniste sono completamente
svuotate, la parvenza di normalizzazione cui aspirano gli occupanti resta un
miraggio.
Pochissime, almeno fino agli anni Novanta, le ricerche che mettono a tema il
carattere disarmato di queste lotte, e dovute quasi in esclusiva a studiosi
dell'area nonviolenta. Fra loro, lo storico francese Jacques Semelin, che
alla fine del decennio Ottanta mette a punto il concetto di resistenza
civile (10). E' una svolta. Semelin da' a quelle pratiche eterogenee un
solido statuto teorico e ne chiarisce la specificita': assenza delle armi e
metodi in genere nonviolenti, protagonisti i cittadini in quanto tali,
autonomia degli obiettivi, diretti a contrastare il dominio nazista sulla
societa'. Altra cosa, e piu' complessa, del ruolo di appoggio ai partigiani.
Semelin argomenta con grande equilibrio. Previene gli equivoci fissando
alcuni punti chiave: la resistenza civile non e' in competizione con la
lotta armata, non ricomprende qualsiasi atteggiamento conflittuale ma solo
quelli dotati di un'intenzione o di una funzione antinazista, non equivale
automaticamente ad azione nonviolenta, e quest'ultima non e' un dogma da
seguire in qualsiasi contesto (11). Ma e' altrettanto fermo nel confutare le
interpretazione che riducono le pratiche inermi ad appendici del movimento
partigiano, nel rappresentare la societa' come il luogo di un antagonismo
non interamente rappresentabile dalla lotta armata, ne' integrabile nelle
categorie usate fino allora. E' un punto di vista nuovo, interessante, senza
alcun cedimento all'iconoclastia. Eppure viene accolto con una certa
diffidenza, a volte tacciato di revisionismo, piu' spesso semi-ignorato.
Come se la falsa percezione delle pratiche nonviolente si fosse estesa alla
loro narrazione. E' cosi' in tutta Europa. Aveva ragione Lidia Menapace,
quando nel '97 diceva di temere che in nome dell'autodifesa si perdesse la
capacita' di avviare un discorso che non fosse "ne' una celebrazione
continua ne' una svalutazione in blocco" (12).
Quando, grazie alla disponibilita' degli Istituti Cervi e Gramsci, Semelin
partecipa nel '95 a Roma a un convegno sulla Resistenza, dira' che e' la
prima volta che viene invitato a un incontro di tipo accademico.
Cosa hanno da perdere i partigiani e i loro storici? Da un lato niente,
anzi. La partita e' fra la minoranza dei resistenti senza armi e la
maggioranza che ha evitato di prendere posizione, e potrebbe far vacillare
un'infinita' di autoassoluzioni: se la lotta armata chiede corpi giovani e
sani, capaci di reggere grandi fatiche, quella senza armi e' praticabile in
molti piu' luoghi e forme, accessibile a molti piu' soggetti, dalla madre di
famiglia al prete a chi ha un'eta' anziana. "Fai come me" e' un invito che
il resistente civile puo' estendere ben al di la' di quanto possa fare il
partigiano, e che aiuta a ripensare il tema della responsabilita' personale
esaltando l'aspetto della scelta caro agli antifascisti.
D'altro lato, a rischiare di venire sovvertiti sono alcuni caposaldi della
storia della guerra. Aver raggiunto certi risultati senza usare le armi puo'
suggerire l'idea che si sarebbe potuto agire allo stesso modo in molte
situazioni in cui si dava per scontato che non ci fosse altra via. Chi le ha
usate puo' sentire minacciata la propria egemonia nell'immagine nazionale -
con l'eccezione della Germania, tutti gli stati europei hanno preso a
simbolo della rinascita postbellica la figura minoritaria del giovane
maschio combattente. Dare valore alla resistenza civile porterebbe in luce,
accanto e a volte al posto della virtu' eroica del combattimento, la virtu'
quotidiana che Todorov identifica nella cura (13). Rimetterebbe in
discussione quel che si intende per contributo di un gruppo, di una
categoria, di un paese, alla lotta antinazista. Oggi si continua a valutarlo
in termini di morti in combattimento; sarebbe sensato misurarlo anche sulla
quantita' di energie, di beni e soprattutto di vite strappate al III Reich.
Ne uscirebbe capovolta la gerarchia delle nazioni, con la Danimarca che
dall'ultimo posto salirebbe al primo, Russia e Stati Uniti che
scivolerebbero in basso - gli eserciti, e spesso i movimenti di resistenza,
vedono la salvezza degli ebrei piu' come un risultato della guerra
vittoriosa che non come un obiettivo; certo non la mettono al primo posto.
Ha scritto Hannah Arendt che l'esempio danese dovrebbe essere proposto agli
studenti di scienze politiche, perche' capiscano a quali risultati puo'
arrivare una lotta nonviolenta, sorretta da un buon livello della coesione
sociale e del riconoscimento popolare nelle istituzioni (14). Ma la vicenda
non e' entrata nella mitologia della guerra, il salvataggio e' stato visto
per lo piu' come un affare tra la Danimarca e gli ebrei, il paese come una
singolare piccola comunita' dal senso civico ipertrofico, con un governo
amichevole che ha concesso agli hippies di creare il quartiere di
Christiania e di viverci tranquilli. Un'olegrafia, e per di piu' ormai
menzognera.
*
Le italiane, fantasmi meritevoli
La resistenza civile italiana ha la particolarita' di sembrare piu'
discontinua, meno strutturata, meno "politica" di quanto non sia in Francia,
Danimarca, Olanda; ma, in forme quasi opposte a quelle danesi, anche
l'Italia ha avuto il suo momento unico.
Sono i giorni del dopo 8 settembre, quando la notizia dell'armistizio con
gli alleati getta gli alti comandi nel caos, l'esercito si dissolve e
centinaia di migliaia di militari sono allo sbando, braccati da tedeschi e
fascisti. Per chi li protegge sono previste deportazione e pena di morte.
Eppure scatta una mobilitazione soprattutto femminile per nasconderli,
rivestirli in borghese, metterli sulla via di casa. "Pareva - scrive Luigi
Meneghello, uno dei pochissimi a capire il senso del fenomeno - che
volessero coprirci con le sottane", e aggiunge che sulle strade d'Italia si
vedevano "file praticamente continue di gente, tutti abbastanza giovani, dai
venti ai trentacinque, molti in divisa fuori ordinanza, molti in borghese,
con capi spaiati, bluse da donna, sandali, scarpe da calcio (...) Pareva che
tutta la gioventu' italiana di sesso maschile si fosse messa in strada"
(15). Dietro quei capi sottratti ad armadi gia' sguarniti, indossati in case
cautamente ospitali o in luoghi appartati, si nasconde la piu' grande
operazione di salvataggio della nostra storia (16).
Tutto avviene grazie a iniziative individuali e di microgruppi, in assenza
di direttive politiche, di appelli di figure eminenti. E si capisce perche'.
L'8 settembre l'Italia esce da vent'anni di un regime che ha frantumato
l'opposizione, infiltrato le strutture sociali e avviato la
"nazionalizzazione" delle masse; i sentimenti civici, gia' storicamente
deboli, sono sbriciolati, le risorse miserrime; le vecchie istituzioni
statali hanno perduto ogni credibilita', mentre i partiti e le nuove
organizzazioni di massa mancano di radicamento, quadri, mezzi, conoscenze,
una condizione che di per se' circoscrive il loro ruolo nella mobilitazione
popolare.
Fra le protagoniste di quei giorni, scoperte lungo una ricerca su donne e
guerra (17), svetta Rosa S., torinese di mezza eta', di famiglia operaia,
nata e cresciuta nel semiproletario Borgo san Paolo. Rosa S. si rende subito
conto delle dimensioni di massa del pericolo e del bisogno, e immersa com'e'
nelle reti di parentela, di fabbrica, di quartiere, di vicinato, di
parrocchia, comincia a fare incetta di indumenti borghesi un po' dovunque,
da familiari e conoscenti fino alle suore di un istituto di carita'. La sua
casa diventa cosi' un centro di raccolta dei militari, il suo dopo 8
settembre un exploit imprenditoriale. Riveste i primi sbandati, la voce
corre, ne arrivano sempre di nuovi. Lei li fa dormire nelle cantine
dell'edificio, li sveste, li riveste. Comprese le scarpe, perche' quelle
dell'esercito li tradirebbero; allora ne da' un paio di "civili" a uno, gli
toglie le sue, le tinge, e appena asciutte le passa a un altro - modello
catena di montaggio -, in piu' l'amore del lavoro ben fatto che puo' salvare
una vita. "La mia mamma era tremenda, ha raccontato la figlia Chiara, aveva
uno spirito d'iniziativa... alla fine li accompagnava alla stazione, li
baciava, li abbracciava, cosi' e cosa', mio parente, e li metteva sui carri
bestiame, perche' allora non c'era altro" (18). Di notte bruciava nel
cortile le divise abbandonate e buttava le armi nei tombini.
E' una storia di slancio, generosita', inventiva, coraggio, gli aspetti che
un'altra torinese, Lisa Foa (19), ricorda di aver incontrato tante volte
durante la Resistenza. E non e' affatto una storia privata: cambiare status
a un individuo, da militare trasformarlo in civile, attiene al giuridico
allo stesso modo del suo precedente inverso, che ha trasformato il civile in
militare. E' anche la testimonianza che fra popolazione e nazisti/fascisti
si e' aperto un contenzioso su aspetti cruciali dell'esistenza collettiva e
del sistema di legittimita', come i criteri di innocenza e colpevolezza. E'
politica, che altro?
Ma nelle interpretazioni di allora, la politica si identifica con l'azione
delle avanguardie organizzate, non con la transeunte iniziativa popolare; le
lotte inermi e "spontanee" sono giudicate una forma minore
dell'antifascismo, una componente utile ma secondaria. Tanto piu' quando si
tratta di donne (e donne odiosamente definite "comuni" o "umili"), che sono
ritenute incompatibili con la sfera pubblica e che operano, come Rosa S.,
attraverso reti informali, inattingibili dalle categorie della poltica. Ci
si trova di fronte a casi lampanti di autoorganizzione, e non si vede altro
che un ampliamento del ruolo materno fuori dalla famiglia oppure una
espressione di pietas - e' vero, e' straordinario, ma non e' tutto. Donne,
meritevoli fantasmi. Italiani, osservatori incompetenti.
Senza armi, senza tessere o contatti di partito, la manager del salvataggio
e esperta di pubbliche relazioni Rosa S. non e' prevista nelle mitografie e
storiografie resistenziali, a cominciare da quella azionista delle due
Italie, la prima incarnata dai "pochi pazzi" disposti a sacrificarsi per
l'onore comune, la seconda dai "troppi savi" votati in esclusiva a
proteggere se stessi. Rosa S. sta fuori, a lato, in un altro intreccio
narrativo.
Anche nei mesi successivi, ai circuiti politici si affiancano, a volte si
mischiano, concertazioni di piccolo raggio e exploit individuali - il che
non aiuta la comprensione. Le due centrali egemoniche di allora, la
comunista e la cattolica, sono lontanissime dal valorizzare la categoria di
cittadino, colpevole di scavalcare le distinzioni di classe e insieme la
legge di dio (20). E bollano l'affermazione dell'individualita' come
egoismo -quando, a ben vedere, l'individualista e' il solo che puo' dare una
solidarieta' gratuita all'altro da se'; chi si identifica in una comunita' -
familiare, politica, religiosa, culturale - agisce sempre anche a proprio
favore.
Da molti punti di vista, l'Italia rappresenta un picco di frantendimenti e
di oblio. Beninteso, non c'e' alcun complotto per tenere lontane dalla
storia le donne (e gli inermi); bastano la routine storiografica e la
convinzione di molti partigiani, e in genere dei combattenti, di non dover
condividere con nessuno il merito di aver lottato per riscattare la patria.
C'e' se mai candore: quella dell'eroismo e' una partita fra maschi, cosi'
come il riconoscimento del valore militare del nemico, o della sua buona
fede.
Del resto, neppure il concetto di resistenza civile puo' rendere davvero
giustizia alle donne. Anzi, sgombrato il campo dalla gerarchia
armati/inermi, diventano persino piu' evidenti altri fattori di esclusione.
Anche nella resistenza civile ha corso lo stereotipo dell'estraneita'
femminile alla politica, e sono all'opera meccanismi che possono tenere le
donne ai margini, per esempio il difetto di democrazia interna imposto dalla
clandestinita' e il vizio della cooptazione. E' un paradosso: si inaugurano
pratiche inermi associate al femminile, si conservano stili politici e
modelli organizzativi largamente maschili. Fortunatamente il buon confronto
con gli studi delle donne ha dato frutti. All'inizio, Semelin privilegiava
le mobilitazioni istituzionali e le iniziative tendenzialmente di massa e
politicamente organizzate, riservando a quelle individuali e di piccoli
gruppi lo statuto piu' debole di disubbidienza o dissenso; oggi tende a
ricomprenderle a pieno titolo nella categoria di resistenza civile. Ma
quello fra nonviolenza e donne (e femminismo) e' un rapporto aperto - per
intuirne la complessita' basta pensare all'adozione da parte di Gandhi di
valori e pratiche tradizionalmente femminili. E, almeno in Italia, la
situazione e' un po' sbilanciata: grande interesse da parte di molti
nonviolenti, decisamente meno, salvo preziose eccezioni (21), da parte delle
femministe.
*
Kosovo: poteva non succedere
Passano decenni, idee e comportamenti sembrano in via di trasformazione, ma a mostrarne la vischiosita' interviene la vicenda del Kosovo, mitica culla
del popolo serbo abitata da secoli da una fortissima maggioranza albanese, e
secondo molti studiosi massimo punto di frizione nella ex Jugoslavia. La
scalata repressiva della Serbia inizia nell'88 con una riduzione drastica
dell'autonomia del Kosovo, prosegue con l'arresto di molti leader del
partito comunista albanese fedeli alla Costituzione di Tito, con lo
scioglimento del parlamento, l'occupazione militare del territorio,
l'espulsione degli albanesi da giornali, universita' e da tutte le cariche
amministrative e politiche, il licenziamento di circa 150.000 lavoratori,
operai, medici, insegnanti, impiegati. A partire dal giugno 1991, il numero
di ragazzi kosovari ammessi alle scuole viene talmente ridotto che gli
studenti serbi diventano la maggioranza. Agli insegnanti di lingua e storia
albanese viene richiesto di insegnare in serbo, poco dopo agli studenti di
ogni ordine e grado viene impedito l'accesso alle aule. E' il tentativo di
cancellare l'identita' della regione e di decapitarla della sua classe
intellettale e del suo futuro ceto medio.
Quel che differenzia il Kossovo dalle altre zone toccate dalla guerra, e' la
risposta sostanzialmente nonviolenta della popolazione, che comincia a
costruire le sue istituzioni alternative di resistenza civile, sostenute
dall'autotassazione popolare e dai contributi degli emigrati - uffici,
sanita', elezioni autorganizzate, scuole, aiuti a chi ha perso il lavoro. La
nonviolenza e' teorizzata e divulgata su impulso di Ibrahim Rugova (22),
massimo dirigente della Lega democratica per il Kosovo, eletto piu' volte
alla presidenza del paese da votazioni quasi plebiscitarie. E' grazie a
questa impostazione - e al fatto che nei primi anni Novanta il grosso delle
forze serbe e' impegnato in Bosnia - che non si arriva subito a un conflitto
aperto a dispetto della spaccatura ormai totale fra le due popolazioni.
Con il tempo, pero', la fiducia nella strategia nonviolenta si logora. Il
governo serbo continua impunemente nella sua poltica di apartheid, la
comunita' internazionale non capisce ne' i kosovari ne' il loro presidente,
e non da' alcun appoggio sostanziale alla resistenza. Rugova e' una guida
rispettata e amata, un intellettuale gandhiano che vuole negoziare, non
vincere e tantomeno stravincere, che ha in mente uno stato senza esercito e
senza frontiere, interetnico, aperto a tutti; ma gli incompetenti occhi
occidentali vedono uno strano leader, troppo mite (un po' effeminato, con i
suoi piccoli foulard al collo? certo piuttosto goffo, con i suoi completi da
magazzini Gum). Un utopista, che ha misteriosamene "ammorbidito" un popolo
battagliero, e che in anni e anni non e' riuscito a ottenere niente dalla
Serbia. Vedono saggezza e la scambiano per moderazione, vedono apertura e la scambiano per ambiguita'.
Fra il '96 e il '97 si affaccia l'Uck, un Esercito di liberazione del
Kosovo, che sempre piu' spesso risponde con la violenza alla violenza delle
milizie serbe. Quando a maggio del '98 parte una ulteriore scalata di
aggressioni, l'Uck guadagna ascolto a livello internazionale - le armi, un
esercito, ecco qualcosa di familiare, da prendere sul serio. Alle due
Conferenza di Rambouillet, ultimo tentativo di soluzione pacifica, Rugova
viene emarginato.
Il 24 marzo 1999 la Nato da' il via ai bombardamenti su Serbia e Kosovo,
l'Uck scende in conflitto aperto, Milosevic ne approfitta per scatenare le
milizie e lo stesso esercito in una "pulizia etnica" giudicata da molti
osservatori ancora peggiore di quella praticata in Bosnia. Dopo tre mesi, la
Serbia accetta di ritirare le sue truppe dal Kosovo, e si arriva
all'armistizio in una situazione confusissima, fra ipotesi contrastanti per
il dopoguerra. Con il rientro dei profughi deportati al confine su ordine di
Milosevic, scatta la resa dei conti, gran parte della popolazione serba
fugge e la forza Onu dispiegata per la fase di transizione stenta ad
assicurare un minimo di ordine. Sebbene Rugova vinca ancora una volta le
elezioni, la nonviolenza ha perso. Poteva andare diversamente.
L'intera vicenda sembra una dimostrazione in vitro della pochezza allarmante
dei leader mondiali. Piu' di eventuali interessi strategici ed economici, ha
probabilmente pesato anche su di loro il dilemma fra "mai piu' guerre" e
"mai piu' Auschwitz". Ha pesato il ricordo di Srebrenica. Ma la mentalita'
e' cambiata poco: la lotta senza armi non basta a sollecitare prese di
posizione rapide e ferme, un esercito di liberazione si', malgrado i molti
lati oscuri dell'Uck. Si aspetta senza sfruttare a fondo gli strumenti di
pressione economici e diplomatici. Finche' la situazione diventa esplosiva,
internet, stampa e tv la denunciano, l'opinione pubblica segue in diretta la
catastrofe umanitaria. A questo punto si agisce con le armi, come se la
vergogna per aver tollerato il massacro di Srebrenica si potesse lavare solo
con un intervento militare. L'aspetto piu' scandaloso e' che, salvo il
maggiore spazio mediatico concesso al Dalai Lama, una linea simile si sta
riproducendo in Tibet: la nonviolenza mostra segni di stanchezza, il mondo
non esercita neppure le forme di dissuasione previste dall'ordinamento
internazionale.
Per il Kosovo, si puo' davvero parlare di un intreccio fra incompetenza e
oblio: nel decennale del primo bombardamento, sulla resistenza nonviolenta
del paese non si e' spesa una parola.
*
Movimenti dalla vista corta
Quali effetti possano avere oblio e e distorsioni, si puo' misurare sulle
aporie del movimenti degli anni Sessanta e Settanta. Agli inizi, le lotte
sono quasi ovunque pacifiche, ma non programmaticamente, e solo piccole
minoranze riconoscono nella nonviolenza un caposaldo politico e un valore.
Eppure sarebbe bastato guardarsi intorno con mente libera per incontrare
teorie e pratiche altre da quelle del marxismo ortodosso o critico. Sarebbe
bastato confrontarsi con tutti gli aspetti dei movimenti americani, in primo
luogo di quello per i diritti civili dei neri. Anche se e' meno rigorosa
della Southern Christian Leadership Conference di Martin Luther King,
l'Sncc, forse la piu' grande e attiva organizzazione di giovani, porta la
nonviolenza iscritta nel suo nome - Sncc vuol dire Student Non-violent
Coordinating Committee.
Il movimento lavora, oltre che per la registrazione degli afroamericani agli
uffici elettorali, nell'insegnamento alle freedom schools, per il
potenziamento delle reti di auto-aiuto, per la creazione di scuole, case
della liberta', biblioteche. Per anni - anni in cui le polizie locali e i
razzisti infieriscono sui militanti incarcerando, ferendo, uccidendo - i
metodi di lotta piu' diffusi sono i sit-in, le marce pacifiche, la
noncollaborazione, il boicottaggio. E' la specificita' piu' gloriosa di un
movimento che nasce da una rivolta etica contro il razzismo, la poverta', lo
scarto fra gli ideali del paese e i comportamenti delle istituzioni (23);
che è fortemente radicato nella fede religiosa e nella tradizione americana
di disobbedienza civile; che ha un leader come Martin Luther King - e la
capacita', simile a quella danese, di usare in modo accorto il principio del
"come se": come se le leggi fossero davvero uguali per tutti, come se il
primo pensiero del governo federale fosse farle rispettare.
Beninteso, quello per i diritti civili non e' il movimento perfetto: l'Sncc
e' imbevuto di maschilismo, durante le registrazioni per il voto c'e' chi
affronta la polizia con uno spirito da pistola piu' veloce del west (24),
nella seconda meta' degli anni Sessanta fermentano idee di violenza che
troveranno uno sbocco in effimeri gruppetti armati. Ma il successo sul piano
legale nasce da un insieme irripetuto di iniziative giudiziali e di lotte
nonviolente.
Peccato che fra i tanti contenuti passati attraverso l'Atlantico, questi
siano fra i meno seguiti. Di nonviolenza praticamente non si parla. E
inizialmente neppure di violenza. A proposito del '68 a Torino, Guido Viale
scrive: "il movimento studentesco non l'ha inventata (la violenza), ne'
scoperta. La riceve" (25).
Vero. Ma se la accoglie e' perche' ha gia' in se' le genealogie della
violenza, che camminano in relativa autonomia. La Weatherman Temptation
(26), la sindrome dell'impazienza, non nasce solo dalla giovinezza, viene da
lontano. Gridare slogan inneggianti a Stalin o a Pol Pot e' una barbarie
sorretta da un lascito potente. Non e' la sola, e non c'e' bisogno di
conoscere quei modelli per esserne influenzati. Se si dicesse al militante
di un servizio d'ordine che fra i suoi antenati si contano Junger e
D'Annunzio, ne sarebbe offeso. Ma e' cosi'. Negli Stati Uniti, sono le donne
dell'Sncc a denunciare lo spirito da pistola piu' veloce del west dei
militanti, e ad associarlo al mito della frontiera. In Italia, nel giro di
pochi mesi si passa dall'ironia affettuosa verso la retorica partigiana alla
resistenza leggendaria, tradita, di classe, secondo il topos nazionale della
rivoluzione tradita gia' applicato al Risorgimento. Ha ragione Viale quando
scrive che "il movimento non si interroghera' mai a fondo sulle sue ragioni
e sui suoi principi" (27). Isabelle Sommier ha notato anzi che nel fiume di
documenti prodotti negli anni Settanta non ne esistono di esplicitamente
dedicati ai modi di legittimazione della violenza, come se non se ne
sentisse il bisogno (28). In tempi relativamente brevi, con dissensi rari e
isolati, la violenza guadagna simpatie anche fra quelli che non la
praticano. Mentre nei primi anni Sessanta era l'eccezione, ora l'eccezione
e' la nonviolenza (29).
Anche le percezione distorte camminano in autonomia. In tutta Europa, quando ci si comincia a richiamare all'eredita' della resistenza antinazista, al
suo interno si trova quel che si cerca, l'immagine di una violenza giusta e
necessaria. Non si trova quello che non si cerca e che nei decenni
precedenti ben pochi hanno cercato: le lotte delle donne, le molte pratiche
di resistenza civile che offrirebbero un modello diverso di conflittualita',
i reticoli di opposizione nei Lager, il rifiuto da parte di 700.000 militari
italiani internati in Germania di arruolarsi nell'esercito di Salo', che al
piu' viene definito resistenza passiva. Passivo un no opposto ai nazisti
dall'interno di un campo di prigionia?
La scarsa immedesimazione nella primavera di Praga si deve, oltre che al suo
"riformismo", all'incapacita' di apprezzare i suoi metodi nonviolenti, i
soli praticabili in una realta' per cui valgono, fatte le debite differenze,
le osservazioni di Tom Holt sulla lotta per i diritti civili: la scelta non
era fra violenza e nonviolenza, era fra azione nonviolenta e nessuna azione
(30). Un fraintendimento simile colpisce il sano aspetto di ritualizzazione
che opera negli scontri di piazza. "A un certo punto, era diventato un gioco
che si riproduceva, un gioco militare. Mi ricordo che a Milano facevamo un
corteo alla settimana". "Se c'era una forte componente di violenza [negli
scontri con la polizia], spesso c'era anche un elemento direi ludico. Nel
'77 la cosa comincia a essere differente, perche' non fa piu' parte del
gioco" (31). Gioco pericoloso, infantile, esibitivo, per soli uomini; ma
patteggiare con la propria forza fisica, con la rabbia, con la voglia di
visibilita' (e con la paura), gli regala un tocco di saggezza e di senso del
limite. Forse uno spirito non troppo diverso presiedeva alle tregue
stipulate durante la Resistenza per dare un po' di respiro all'economia di
una zona, per contenere il danno sociale - tutt'altra cosa da quelle decise
per isolare i comunisti. Persino durante il maggio, c'e' stata
un'autolimitazione, in caso contrario una battaglia fra giovani maschi
variamente armati sarebbe finita in un massacro. Ma pochi autori hanno messo a fuoco il tema; nessuno, che io sappia, ha considerato questa riduzione preventiva del danno come un vanto da rivendicare. Incompetenza percettiva, oblio? Direi la prima, se e' vero che su "La Stampa" del 20 marzo 2009, Miguel Gotor ironizza sugli studenti di destra e di sinistra, che il giorno
prima all'Universita' di Torino si erano fronteggiati a lungo scandendo
slogan e insultandosi a sangue, senza mai passare all'atto (32). Certo, era
una "recita". Ma sarebbe stato piu' serio spaccarsi reciprocamente la testa?
Nasce anche da questo intreccio di visioni monche e di scoperte tardive, il
rischio per gli ex militanti di sbandare fra due vicoli ciechi: un eccesso
di severita' verso se stessi anche per reazione a chi si autoassolve, e un
eccesso di indulgenza, come quando si rivendica la propra estraneita',
dimenticando di essere stati fianco a fianco con i lanciatori di bottiglie
molotov, con i portatori di manici di piccone e di chiavi inglesi (33).
*
Segni di cambiamento?
Da decenni, la nonviolenza fatica a costruire una sua mitografia. Si sono
scritti milioni di libri per raccontare eventi che hanno fatto milioni di
morti, infinitamento meno su quelli che li hanno evitati. Si sono girati
migliaia di film su tutte le guerre, infinitamente meno sui loro oppositori.
Neppure chi crede nella nonviolenza e' libero dagli automatismi. In un
manuale di storia, mi sono trovata a dedicare moltissimo spazio alla grande
guerra, ma pochissimo alle crisi marocchine e alle guerre balcaniche, mentre
sarebbe stato altrettanto importante descrivere come avviene che un
conflitto non deflagri, o che resti circoscritto. Se lo storico assomiglia
all'orco che fiuta l'odore della carne umana, evidentemente preferisce
quella sanguinolenta.
Non che niente sia cambiato. Pensatori colpevolmente dimenticati come Nicola Charomonte sono stati scoperti/riscoperti (34). Dentro e fuori
dall'universita', piu' spesso fuori, si incontrano analisi capaci di fare da
stimolo e da spartiacque. Solo che spesso i testi escono con piccole case
editrici a circolazione limitata, di rado vengono recensiti sui grandi
quotidiani e sulle riviste disciplinari, la ricerca ha finanziamenti
microscopici rispetto ad altri filoni culturali. Tranne alcune eccezioni, i
nonviolenti non stanno in parlamento e negli organigrammi dei partiti, hanno
uno scarso accesso ai media - e, ironia, periodicamente li si accusa di non
esistere. In compenso e' cresciuto l'interesse per la soluzione pacifica
delle crisi locali e internazionali; in molti paesi, i termini con la radice
"bellum" hanno ormai lo stigma della scorrettezza politica, in Italia la
nonviolenza e' diventata un ingrediente per attestare la democraticita' di
un movimento o di un partito. Sui giornali e' cresciuto lo spazio per
vicende di salvataggio e di pacificazione, in rete si incontrano bollettini,
riviste, blog. Sono segnali importantissimi. Eppure l'impressione e' di
assistere a flussi e riflussi legati alla cronaca e alla temperie politica.
In quel banco di prova che sono le commemorazioni nazionali, si sono
introdotti elementi non guerreschi, ma a mettere al centro le vittorie e le
sfilate militari non si rinuncia.
Fanno storia a se' gli Stati Uniti, dove fra le celebrazioni spiccano quelle
per la conquista dei diritti civili e per Martin Luther King. Ma si tratta
di una cultura in cui la disobbedienza nonviolenta e' un valore caro a
molti, in cui il passaggio alle armi di una piccola parte dei giovani
attivisti non ha dissolto la grande narrazione che va da Thoreau a Rosa
Parks ai sit-in. Si tratta, anche, di un paese che sapeva e sa di avere
molto da farsi perdonare dai sui cittadini neri, che e' cambiato e tiene a
mostrarlo. Paradosso: lo stato che dal 1945 ha combattuto piu' guerre e' lo
stesso che rende onore alla nonviolenza come parte eminente
dell'autoimmagine collettiva.
*
Una mitografia complicata
Raccontare puo' essere difficile. Guerra e violenza sono da millenni oggetti
storici legittimati, si possono indagare sia apprezzandole sia detestandole,
non esigono cambiamenti soggettivi. La nonviolenza e' tema riconosciuto da
pochi decenni, chiede una certa dose di empatia e un riassestamento
interiore, diversamente neppure si arriverebbe a coglierne le
manifestazioni. Perche' non contempla gli ingredienti classici che hanno
sorretto, e in parte ancora sorreggono, la narrazione dei conflitti secondo
il linguaggio del padre: il Potere, la Forza, gli Eroi, il male assoluto
contro il bene assoluto, il tempo fuori del tempo, il sangue e la morte. Il
loro gusto (35). E il loro glamour, che ancora oggi induce qualche
sprovveduto, qualche cuore frivolo o rozzo, a vedere negli ex brigatisti i
paladini sfortunati della giusta causa, i "veri uomini".
A uno sguardo incompetente, le pratiche della nonviolenza sembrano invece
storie di routine, un poco suggestivo lavoro da formica spesso fuso nella
quotidianita'; e il nonviolento si augura che continui cosi', perche'
precipitazione e sangue sarebbero il segno del fallimento. Penso ai
comportamenti di pace in tempo di guerra, ai tentativi di creare situazioni
in cui nessuno dei soggetti sia danneggiato, umiliato, battuto. Situazioni
"win-win", in cui esistono solo vincitori, come insegna la teoria dei
giochi. E' il passaggio dal sensato rifiuto di stravincere del politico
intelligente al rifiuto di vincere, perche' in guerra non c'e' vittoria
(36) - la resistenza civile kosovara, o almeno una sua parte, lavorava
proprio in questa prospettiva.
Penso alla scommessa piu' ambiziosa, la possibilita' di "contagiare" il
nemico con l'esempio -il che mette un punto interrogativo poderoso sulla
stessa idea di nemico. Quando Gandhi ammonisce i britannici: "Vi sfiniremo
con la nostra capacita' di soffrire", punta sia a colpire l'opinione
pubblica internazionale, sia a costringere il governo inglese a vergognarsi
della propria violenza. In Danimarca, dopo le pressioni di Hitler per far
introdurre leggi razziste, molti e molte smettono repentinamente di parlare
e di capire la lingua tedesca, il rifiuto dell'antiebraismo e' cosi' diffuso
e palese che fra i gerarchi del III Reich si creano divergenze su come
gestire la situazione (37). Il contrasto presente in molti racconti di
guerra fra il topos del tedesco buono e i tedeschi come cieca forza del
male, si affievolisce se si considera l'attitudine specialmente femminile a
far leva sui punti deboli del nemico: spesso, quando si parla del "tedesco
buono" si intende il tedesco rabbonito.
E' tutto un campo di spostamenti progressivi, di azioni simboliche, di sfide
avvolte da un'aura di simulata naturalezza, di gesti volti a cambiare le
carte in tavola, di cambiamenti molecolari. Gli exploit possono esserci o
mancare, non puo' mancare questa trama che li sorregge e che non si lascia
intravedere se non ci si mette alla sua ricerca. Ne' storia delle strutture,
dunque, ne' storia degli eventi, piuttosto un vaglio fine in profondita' e
in superficie.
Penso anche alla difficolta' di raccontare gli oppressi senza rinchiuderli
nella categoria delle vittime, come si tende a fare da quando il modo
principale per avere voce e' dichiararsi tali, in una gara a chi lo e' di
piu'. Dietro la potenza simbolica assegnata oggi alla figura della vittima -
lo ha notato Tamar Pitch (38) - e' tacitamente all'opera una
rappresentazione del sociale in termini di offensore-offeso, paralleli a
quelli amico-nemico. Persino il grande tema narrativo della "strage degli
innocenti" puo' implicare un doppio equivoco: nasconde le pratiche di
resistenza, sacralizza la passivita' - quanto si insiste sul fatto che gli
uccisi nei massacri nazisti "non avevano fatto niente"! e il senso e':
niente per ostacolare gli occupanti.
Penso alla difficolta' di raccontare i tempi medi e lunghi. Malgrado gli
attuali inni alla lentezza, la buona guerra resta la guerra-lampo, il blitz,
parola tuttofare usata a proposito e a sproposito. Eppure chi puo' ignorare
che i cambiamenti profondi hanno ritmi propri? Mandela e' stato in carcere
per 27 anni, ma l'apartheid e' finito senza guerra civile. In Gran Bretagna
il primo gruppo contro la tratta degli schiavi si forma nel 1787, e
l'abolizionismo vince nel 1838, pacificamente. A portare le donne nere fuori
dalle cucine dei bianchi, diceva qualche attivista negli anni Cinquanta, era
stato Hitler; ma per farle sedere nella parte "bianca" di un autobus ci era
voluto Martin Luther King.
Di queste difficolta', la prova regina e' il linguaggio: nei discorsi
politici e quotidiani non si contano le parole a connotazione guerresca,
tattica, strategia, schieramenti, discesa in campo, e si fatica a trovarne
altre. Con la consueta perfetta semplicita', Lidia Menapace ha osservato:
""se tu dici a un politico tradizionale di parlare senza simboli militari
non arriva alla fine della prima frase" (39).
Che oggi si tenda a usare l'espressione "avversario" invece di nemico e' un
risultato significativo, ma non necessariamente acquisito. Senza nemici non
ci sono eroi, e memoria e storia hanno bisogno di simboli. Anche la storia
e memoria della nonviolenza, che pero' deve inventarne di diversi - temi e
figure capaci di opporsi alle accuse di utopismo e alle profezie di
fallimento, di riaffermare la giustezza dei metodi e la loro possibilita' di
successo. Per le guerre, si direbbe, bastano capi mediocri o pessimi, per la
nonviolenza occorrono guide eccezionali, Gandhi, King, il Dalai Lama,
Mandela, Tutu, Aung San Suu Kyi, Rugova, in Italia Capitini, Dolci, padre
Balducci. E altre e altri semidimenticati: come molti intellettuali del
dissenso nonviolento all'est, decisivi per il crollo delle dittature almeno
quanto la crisi economica e sociale; come i sindacalisti e le leader
popolari della fabbrica di orologi Lip di Besancon, dove nel 1973 si lotta
per mesi contro la chiusira dello stabilimento, scegliendo modalita'
ampiamente pacifiche, in controtendenza con lo spirito dell'epoca (40). Di
chissa' quante altri e altre non conosciamo l'esistenza.
*
Un'icona semivera
Il bisogno di simboli e di figure simbolo e' cosi' vitale che almeno in un
caso documentato se ne costruisce una, non partendo da zero, ovviamente,
piuttosto mischiando verita' e verosimiglianza. Riguarda il re di Danimarca
Cristiano X. Durante e dopo la guerra, corre voce che si sia fatto cucire
una stella gialla sulla manica. Che un soldato tedesco, vedendolo cavalcare
da solo in mezzo alla folla, abbia chiesto a un ragazzo come mai fosse senza
guardia del corpo, e che il ragazzo abbia risposto: "La sua scorta siamo
tutti noi". Si sa che ha ordinato di rimuovere la bandiera nazista esposta
sulla sede del Parlamento, e si aggiunge che ha costretto un generale
tedesco a toglierla lui stesso. Si tiene a dire che nel '42 Hitler gli ha
mandato un lungo e caloroso telegramma per il suo settantaduesimo
compleanno, e che Cristiano ha risposto con quattro parole: "Molte grazie.
Re Cristiano" - un gelo che porta al richiamo in patria dell'ambasciatore
tedesco a Copenaghen e di quello danese a Berlino.
Gli ultimi due fatti sono a grandi linee veri, come e' vero che il re avalla
le campagne delle autorita' e dei cittadini a favore degli ebrei deportati.
Il secondo e' dubbio, il primo impossibile - in Danimarca non si arrivera'
mai a imporre agli ebrei la stella gialla. Eppure ancora negli anni
Settanta, poteva succedere che un rotocalco raccontasse la storia del
sovrano senza paura che attraversava Copenaghen con quel simbolo cucito
sulla manica. Da un personaggio autoritario e poco amato era nata un'icona.
Si puo' sperare che gli equivoci si dissipino, che la stessa nonviolenza
lavori su se stessa per rispondere a realta' nuove - chi la vede come una
dottrina conchiusa le rende un cattivo servizio. Non si puo' sperarare che
le si perdoni il doppio peccato originale che fonda il rifiuto della forza:
la volonta' di guardare all'altro come a un essere umano di pari dignita',
non come a un rivale o a una minaccia; il richiamo alla pazienza, al senso
del limite, alla sobrieta', all'umilta', alla cura delle cose piccole e
gracili, che il prometeismo maschile-militar-tecnonologico del Novecento si
e' diligentemente impegnato a distruggere (41).
*
Note
1. Kurt Vonnegut, Ricordando l'apocalisse, Feltrinelli, Milano 2008, p. 26.
2. L'espressione e' di Alex Langer, Minima personalia, Fondazione Langer,
Bolzano 2004, p. 6.
3. P. Berman, Il Sessantotto. La generazione delle due utopie, Einaudi,
Torino 2006.
4. Per un'informazione sulle attivita' e sul dibattito nel mondo della
nonviolenza segnalo, senza alcuna pretesa di esaustivita', i notiziari
dell'Accademia apuana della pace e del torinese Centro studi Sereno Regis e
specialmente la rivista "La nonviolenza e' in cammino" (tutti e tre on
line), "Testimonianze", "Azione nonviolenta" e i relativi Quaderni.
5. P. Artieres, Reves d'histoire, Les Prairies ordinaires, Paris 2006, pp.
122-23.
6. Mi limito a citare l'ormai classico J.B. Elshtain, Donne e guerra, Il
Mulino, Bologna 1991, e il tuttora utile G. Bonacchi, A. Gruppi (a cura di),
Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, Laterza,
Roma-Bari 1993.
7. I versi sono citati da F. Battistelli, Guerrieri ingiusti. Inconscio
maschile, organizzazione militare e societa' nelle violenze in guerra, in M.
Flores (a cura di), Stupri di guerra, di prossima pubblicazione.
8. H. Arendt, Du mensonge a' la violence, Calmann-Levy, Paris 2006 (I ed.
1969), pp. 114-116.
9. H. Arendt, La banalita' del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli,
Milano 1993, pp. 177-182 (ed. or. 1964). Vedi anche J. Bennet, La Resistenza
contro l'occupazione tedesca in Danimarca, Edizioni del Movimento
Nonviolento, Perugia 1979.
10. J. Semelin, Senz'armi di fronte a Hitler. La resistenza civile in Europa
(1939-1943), Sonda, Torino 1993, da cui traggo le notizie precedenti.
11. Negli ultimi anni, fa notare Sergio Luzzatto (La crisi
dell'antifascismo, Einaudi, Torino 2004, pp. 26-27), si e' invece diffusa
una sensibilita' che ha trasformato in luogo comune (a volte rinnegato nei
fatti) la tesi secondo cui non c'e' progetto, non c'e' ideale personale o
collettivo che giustifichi lo spargimento di sangue: assolutizzazione
pericolosa, che puo' approfondire il solco fra le diverse forme di
resistenza.
12. L. Menapace, Occhio sul mondo, "Il paese delle donne", 37/38, 1997.
13. Per la distinzione tra virtu' "eroiche" e "quotidiane" T. Todorov, Di
fronte all'estremo, Garzanti, Milano 1992.
14. Arendt, La banalita' del male cit., pp. 177-182.
15. L. Meneghello, I piccoli maestri, Mondadori, Milano 1986, p. 27.
16. E. Galli della Loggia, Una guerra "femminile"?, in A. Bravo (a cura di),
Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 2008.
17. La ricerca, svolta fra l'88 e il '94, comprende 120 interviste
biografiche a donne quasi tutte residenti in Piemonte e parecchie
videointerviste a cura di Anna Gasco.
18. Il racconto e' in A. Bravo, A. M. Bruzzone, In guerra senza armi. Storie
di donne 1943-1945, Laterza, Roma-Bari 2000, al capitolo Madri.
19. Lisa Foa, Momenti magici, "Una citta'", 31, 1994.
20. Ma anche in Francia, dove quel concetto e' parte fondativa
dell'autoimmagine nazionale, la situazione non e' cosi' diversa.
21. Sui limiti di genere, cfr. A Dogliotti, Uno sguardo pedagogico alla
cultura della nonviolenza. Donne ed educazione alla pace, "Notizie minime
della nonviolenza", n. 110, 4 giugno 2007. Nell'impossibilita' di dare conto
di tutti i contributi, mi limito a citare il recente G. Providenti, La
nonviolenza delle donne, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2007.
Moltissimo spazio e' dedicato alla questione in "La nonviolenza e' in
cammino".
22. Sul suo pensiero cfr. I. Rugova, La question du Kosovo, Fayard, Paris
1994 (mai tradotto in Italia). Sullo sviluppo della vicendae A. L'Abate,
Prevenire la guerra nel Kossovo, Quaderni della Difesa Popolare Nonviolenta,
La Meridiana, Molfetta 1997.
23. J. Newfield, Prophetic Minority, New American Library, New York 1966, p.
15.
24. Un'analisi critica e solidale in S. Evans, Personal Politics. The roots
of Women's Liberation in the Civil Rights Movement and the New Left, Vintage
Books Edition, New York 1980.
25. G. Viale, Il Sessantotto: tra rivoluzione e restaurazione, Mazzotta,
Milano 1978, p. 42.
26. J. Wienert, the Weatherman Temptation, in "Dissent", primavera 2007.
27. Viale, Il Sessantotto cit., p. 42.
28. I. Sommier, La violence politique et son deuil. L'apres 68 en France et
en Italie, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 1998.
29. Per una analisi sull'Italia che mette in luce la complessita' del
periodo, repressione compresa, cfr. G. Crainz, Il paese mancato. Dal
miracolo economico agli anni Ottanta, Donzelli, Roma 1996.
30. T. Holt, Generation(s) de resistance. Le mouvement des droits civiques,
in M. Zancarini-Fournel, Le moment 68. Un ehistoire contestee, Seuil, Paris
2008, pp. 196-197.
31. Le citazioni sono di Luigi, di Lotta continua, e di Pino, di Autonomia
operaia, in Sommier, La violence politique et son deuil cit., p. 80.
32. M. Gotor, La recita antifascista, "La Stampa", 20 marzo 2009.
33. Per una maggior esplicitazione di questi punti di vista, mi permetto di
rimandare ad A. Bravo, A colpi di cuore. Storie del Sessantotto, Laterza,
Roma-Bari 2008, ai capitoli Amore e Violenza.
34. Segnalo il nuovo interesse del gruppo riunito intorno alla rivista "Una
citta'", alla cui cura si deve la recente edizione degli scritti di
Chiaromonte sui giovani, La rivolta conformista, Ed. Una citta' societa'
cooperativa, Forli' 2009.
35. Per Joanna Bourke (La seduzione della guerra. Miti e storie di soldati
in battaglia, Carocci, Roma 2003) il soldato sperimenterebbe il piacere
dell'uccidere. Ma sono ormai molti i testi che insistono sulla sofferenza e
lo spossessamento vissuti dai combattenti. Un omaggio grato va a Enzo
Forcella e Alberto Monticone per il loro pionieristico Plotone d'esecuzione.
I processi della prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 1968.
36. E. Peyretti, Dov'e' la vittoria?, Il Segno dei Gabrielli, Negarine (Vr)
2005.
37. Hannah Arendt fa notare che di fronte a una resistenza aperta (l'unica)
sullo statuto e il destino degli ebrei, i tedeschi che si trovano coinvolti
cambiano mentalita'. Non vedono piu' lo sterminio di un intero popolo come
una cosa ovvia. Urtando in una resistenza basata su saldi principi, la loro
"durezza" si scioglie come ghiaccio al sole, permettendo il riaffiorare di
un po' di coraggio. Cfr. H. Arendt, La banalita' del male cit., pp. 177-182.
38. T. Pitch, L'embrione e il corpo femminile, al sito
www.costituzionalismo.it
39. Un dialogo fra generazioni diverse, di Giovanna Providenti e Lidia
Menapace, in G. Providenti, La nonviolenza delle donne cit., p. 16.
40. Una sintesi della lotta in J-P Le Goff, Mai 68. L'heritage impossible,
La Decouverte, Paris 2002, pp. 239-247.
41. Su questi temi, specie sul fordismo, vedi l'irrinunciabile e molto
dibattuto M. Revelli, Olte il Novecento. La politica, le ideologie e le
insidie del lavoro, Einaudi, Torino 2001.


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