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Cantiere del Cipax
Centro interconfessionale per la pace
Un luogo di pace per ascoltare racconti, scambiare esperienze, costruire il futuro


Attività 2004 2005

Serata in Ricordo di Dom Helder Camara Organizzata Insieme alla Comunita’ di S. Paolo

23 settembre 2004


Luigi Sandri: Noi facciamo questa serata perché vogliamo bene a don Helder, però c’è anche un piccolo motivo comunitario (se vogliamo etichettarlo così), perché il 9 giugno del 1973, l’allora abate di S. Paolo Giovanni Franzoni scrisse quella famosa lettera pastorale ‘La terra è di Dio’, che cominciava e terminava citando un documento del 6 maggio 1973 dei vescovi brasiliani del Nordest, e quindi anche di don Helder Camara, sulle drammatiche contraddizioni dell’America Latina e su come si poteva uscire dai loro problemi, ma anche dai nostri. E la lettera di Giovanni terminava sempre citando questo documento, diceva: “La speranza cristiana non ci permette di rimanere inerti aspettando passivamente il momento della restaurazione di tutte le cose (Rom. 8), ma esige una presenza indomita ed attiva, capace di provocare nella corrente della storia i segni della resurrezione. Fratelli, la parola di Gesù nel suo discorso escatologico è di una forza incomparabile per noi in quest’ora oscura ma anche carica di promesse. Prendete coraggio e levate il vostro sguardo, perché si avvicina l’ora della vostra liberazione”. Così finiva questa lettera che è costata a Giovanni la Basilica di S.Paolo fuori le Mura come abate.
Ebbene, anche per questa ragione noi amiamo don Helder. L’abbiamo citato perché eravamo molto legati a lui e alla sua esperienza.
Per ricordare quella vita, quella esperienza, quella storia, cominciamo dando la parola al nostro caro Ettore, che di questo personaggio, e dell’America Latina in generale, si è occupato per tanti anni e con tanta grandezza di cuore.


Intervento di Ettore Masina

Grazie. Quando devo parlare del Concilio mi viene sempre in mente un’esperienza che facevo da bambino. Allora ero un balilla. Alle grandi manifestazioni del regime nella cittadina in cui vivevo, Varese, veniva portato su una carrozzina a rotelle un vecchissimo garibaldino un po’ rintronato, come testimone del passato. Allora io mi sento un po’ quel garibaldino, quando vado a parlare del Concilio. Questa volta un po’ meno, perché vedo intorno a me tanti miei coetanei, oppure un po’ più giovani di me o molto più giovani di me, come Nicoletta, ma che hanno vissuto le mie stesse esperienze.
Parlare di don Helder è praticamente impossibile in poco spazio, per fortuna abbiamo qui Marcelo che poi ci dirà cose fondamentali. Quello che voglio dire io è come sono arrivato a conoscerlo, perché probabilmente per alcuni che sono qui è un’esperienza comune.
Sono arrivati in Concilio tutti questi vescovi dell’America Latina. Ed era un fatto nuovissimo, perché nel Concilio precedente di vescovi dell’America Latina non ce n’erano; o meglio, ce n’era qualcuno, ma di nazionalità europea. Invece questa volta arrivavano i vescovi nati in America Latina. Erano tanti, alcune centinaia, e venivano per parlare anche a nome dei loro popoli e quindi introducevano nel Concilio non soltanto della teologia scritta, la teologia dei grandi teologi – o dei manualisti, perché molti erano stati educati a Roma nei pontifici istituti romani, quindi erano del tutto omogenei alla curia - ma introducevano anche la teologia dei poveri. Io credo che in quel periodo sia nata, se non direttamente, la teologia della liberazione.
Tra questi vescovi ce n’era uno piccolino, brutto, bruttissimo – credo di aver visto poche persone brutte come don Helder – che aveva questo nome curioso. Sui nomi brasiliani io un giorno o l’altro scriverò un trattato, perché ce ne sono a centinaia uno più bello dell’altro, che rivelano la creatività dei poveri. I poveri non hanno un avvenire da dare ai loro figli, ma gli danno almeno un nome straordinario. Questo vescovo si chiamava don Helder. Che cosa diavolo voleva dire ‘Helder’? Andammo a domandarglielo.
Era un uomo molto gentile e molto affettuoso con noi giornalisti e subito ci raccontò che il padre aveva trovato una volta su un dizionario olandese – perché don Helder era nato a Fortaleza, una città che era stata soggetta al dominio degli olandesi – che Helder era il nome di un paesino di pescatori, ma era anche il nome di una sfumatura di blu, il blu cielo; e quando gli olandesi vogliono dire che un cielo è bello, dicono “è un cielo helder”. Ora, per chi ha conosciuto don Helder viene spontaneo pensare che, mentre alcuni ecclesiastici sembra che si portino sulla testa una nuvoletta nera di frustrazioni, di collera, di profezie di sventura, sopra la testa di don Helder c’era sempre uno spicchio di cielo, e di cielo sereno, nel quale attirava ciascuno di noi.
Sapemmo molto presto che Don Helder aveva fondato una squadra di samaritani, cioè, poiché era un uomo affettuoso, gentile, generoso, si era posto un problema che a molti di noi fece ridere. Il problema era che se la curia vaticana romana si sentiva in minoranza (ahimè, per troppo poco tempo) questi poveri cardinali di curia soffrivano enormemente. Allora decise con alcuni amici di fare un gruppo di persone che andassero a consolare questi cardinali e questi vescovi di curia e ciascuno di loro si caricasse dell’amarezza di questa suo collega. Lui scelse il più difficile, il cardinale Ottaviani. Poi c’era Roger Schutz che aveva scelto il cardinale Parente e via via ce erano tanti altri, ma non sono più riuscito a rintracciare i miei appunti dell’epoca. Era certamente un esempio della sua grandezza d’animo.
Voglio ricordare come Clotilde ed io lo conoscemmo di persona. La nostra casa di Via Gregorio VII, nota ad alcuni di voi, era diventata a quell’epoca, per tutta una serie di cause indirette - e più semplicemente perché io avevo conosciuto dei “compagnons” di Padre Paul Gauthier, brasiliani venuti a Roma che ci avevano introdotto nel Pio Collegio Brasileiro, dove i seminaristi brasiliani portavano a termine i loro studi - un centro di brasilianità. E un giorno questi ragazzi che ci frequentavano ci dissero: “Stasera dovete venire assolutamente da noi, perché viene un uomo straordinario, don Helder Camara”, questo grande vescovo che era appena diventato vescovo di Olinda e Recife. Di lui sapevamo che prima dell’inizio del Concilio aveva scritto una lettera molto bella a Papa Giovanni XXIII per chiedergli di cedere il Vaticano all’UNESCO e di andare ad abitare in una borgata romana.
Sicché andammo. Né Clotilde né io capivamo allora il brasiliano (che adesso facciamo finta di comprendere), però si può dire che non avemmo bisogno di capire quello che lui diceva, perché don Helder, aveva un modo di parlare straordinario. Aveva mani mobilissime che somigliavano a uccelli che si levano in volo, aveva una voce che marcava alcune sillabe con forza e aveva dei momenti in cui questa voce, che di solito era squillante, si abbassava di tono e sembrava proclamare un Vangelo eroico. Era posseduto da una forza interiore che lo faceva entrare in dialogo subito con tutti. Era il poliglotta più vario che io abbia mai conosciuto, credo che tra il pubblico che l’ascoltava noi potevamo dire, come negli Atti degli Apostoli, dopo la Pentecoste: “Siamo italiani e francesi, siamo spagnoli e portoghesi, siamo inglesi e americani, eppure ciascuno di noi lo capisce nella sua lingua, sentiamo nella nostra lingua annunciare le verità del regno di Dio”. Per questo don Helder ebbe un pubblico assolutamente smisurato. A Rio de Janeiro, dove era stato ausiliare, era famoso per la sua capacità di talk show: era infatti diventato una stella della radio con la sua predicazione e aveva organizzato immensi meeting paraliturgici addirittura negli stadi di calcio di Rio.
Ora era approdato a questa antica, bellissima diocesi di Olinda, a cui era accorpata anche quella più recente di Recife, che era una diocesi difficilissima per due ragioni fondamentali. La prima era che era una regione nordestina, quindi di enorme povertà. Ma forse questa è la cosa che meno stupiva don Helder, perché era abituato alla realtà nordestina: anche lui era nato nel Nordest, era dello Cearà, uno Stato con siccità permanente. Ma era una diocesi difficilissima anche perché era estremamente vivace dal punto di vista della lotta alla dittatura brasiliana che si era appena istallata attraverso il tradimento dei generali. Don Helder si mise immediatamente dalla parte del popolo, senza avere paura di quello che succedeva.
Sembra di parlare di secoli lontani, ma per molti di noi sono ancora vicinissimi, perché in quell’epoca la Chiesa brasiliana, non in tutte le sue parti, ma in alcune, sembrò la Chiesa degli Atti degli Apostoli e dell’Apocalisse.
Don Helder divenne arcivescovo mentre le manifestazioni di massa, alle quali lui era così abituato a Rio de Janeiro, diventavano vietate dalla dittatura; anche parlare ad alta voce diventava molto pericoloso. Lui continuò a denunciare l’oppressione a cui erano sottoposti i poveri e le cause della miseria e per questo fu costretto a dichiarare guerra ai militari. Diventò famosa una sua frase che conoscono anche i giovani che sono qui: “Quando io mi occupo dei poveri e li aiuto in qualche modo mi dicono che sono un santo, quando indico le cause della loro povertà e l’oppressione che subiscono dicono che sono un comunista”.
Don Helder si ribellava alla tradizione ecclesiastica latinoamericana, che vedeva nella Chiesa e nel potere dei militari le colonne portanti dello stato. E quando gli furono spenti i microfoni, andò a cercarsi all’estero degli spazi di libertà, in Italia e un po’ in tutti i paesi cosiddetti democratici.
Nell’inverno del 1969, in un grande meeting nel Velodromo d’Inverno di Parigi, si alzò per dichiarare: “Nel mio paese si usa la tortura come tecnica di governo”. Era una sfida che lui lanciava al regime brasiliano, col quale tutti i paesi sviluppati mantenevano ottimi rapporti - e l’Italia anche.
I generali decretarono allora la sua morte civile: il nome di don Helder non comparve mai più in nessun mezzo di comunicazione. Ma l’apparato repressivo paramilitare fece di peggio. Un’ondata di violenza bestiale investì questo arcivescovo: un suo sacerdote, Don Enrique Pereira Neto, fu fatto letteralmente a pezzi, i suoi collaboratori laici vennero sequestrati, torturati, non tornarono più a casa loro oppure tornarono, per così dire, riciclati dalla paura. Fu arrestato il suo Vicario Generale per Olinda, che si chiama Don Marcelo Calvareila, che adesso è vescovo di Guarabira, e fu carcerato nel più orrendo dei luoghi di tortura, la prigione Tiradentes di San Paolo, dove risuonavano in continuazione le urla dei seviziati.
Io voglio ricordare con particolare calore questa vicenda, perché noi siamo diventati, in confronto a quello di cui stiamo parlando, delle persone fiacche, attente a non esporci troppo e i nostri vescovi sono diventati totalmente silenziosi. Marcelo Carvaleira non fu torturato perché tre cardinali andarono a dargli solidarietà subito nel carcere, ma don Helder aveva saputo creare intorno a sé un coraggio e una capacità di martirio, se era necessario. Ricordo che nel 1970 don Helder mandò a Roma don Marcelo, che era appena stato scarcerato, per sottrarlo alle vendette di altri militari. E venne in casa nostra e celebrò con noi la Pasqua. E fu raggiunto da sua madre, una signora piccolina che era stata maestra elementare, una donna straordinaria. Quando io chiesi a questa signora: “Lei ha patito molto per suo figlio?”, lei mi rispose: “Caro signore, ci sono dei momenti in cui il posto dei cristiani è in carcere”. Questa era la gente che don Helder sapeva educare.
Don Helder continuò per 21 anni la sua strada. Dal Vaticano gli giungevano naturalmente inviti alla prudenza, ma lui, che pure era rispettosissimo dell’autorità papale, considerava molto più importante la fedeltà ai poveri, nei quali riconosceva il Cristo. Ne parlava nelle sue poesie di grande intensità (c’è un libro di sue poesie di cui ho fatto la prefazione, ma purtroppo non riesco più a trovarlo). In una delle sue poesie faceva parlare così Gesù: “Io sono il Cristo, sono nordestino, sono abitante del sertao (la steppa nordestina), sono operaio, militante. Cerco sempre di vivere in mezzo ai poveri”. Usava andare a mangiare in una osteria di Recife frequentata dai tassisti, che sono in Brasile i più poveri dei poveri, e diceva: “Così ho sempre in mano le notizie della città”.
Scrisse una poesia dal titolo ‘Differenza fondamentale’, che è un trattato di pastorale per vescovi. Dice: “Non basta che i poveri ti conoscano e ti chiamino per nome, è importante che tu li conosca, e ne sappia la storia e ne sappia il nome”.
E a proposito di certi richiami e paure scrisse ancora un’altra poesia: “La maggiore e più grave delle imprudenze è la propria prudenza, che si fida di sé, si trasforma in calcolo e prescinde dalle follie di Dio”.
In Concilio difese sempre, come priorità assoluta, la liberazione dei poveri, l’evangelizzazione degli emarginati, come compito primario della Chiesa. Cercò di opporsi in tutti i modi e dovunque acché la Chiesa fosse assimilata alle strutture mondiale, per cui in Concilio si legò molto a quel gruppo conciliare detto “della Chiesa dei poveri”, che erano 300 vescovi radunati intorno a Padre Paul Gauthier, che ebbe una grande importanza nell’elaborazione della Costituzione Conciliare ‘Gaudium et Spes’.
Per don Helder non c’erano dubbi: “Deus non vult”, No, Dio non vuole questo, no. Non vuole un mondo dilaniato dal contrasto tra l’eccesso di denaro e la fame fino alla morte, fra i piaceri senza amore e i dolori che si ribellano, tra i palazzi bene edificati e le baracche che cadono in rovina, tra quelli che comandano e quelli che piegano la schiena”.
Finché le forze fisiche lo ressero, don Helder viaggiò in tutte le parti del mondo per mobilitare quelle che lui chiamava le “minoranze abramitiche”, cioè quelle capaci “di sperare contro ogni speranza e di nuotare controcorrente”. Con loro voleva costruire una pace che fosse festa dei poveri, e non la quiete velenosa dei pantani. “Per compiere la missione sacra di portare la pace”, disse, “volo in qualunque modo in qualunque direzione, con il vento, con tutta la forza o senza forza alcuna, sino a cadere, sino a morire”.
Pochi anni prima che don Helder morisse, Clotilde ed io andammo a trovarlo portando con noi un gruppo di italiani che facevano un viaggio di studio in Brasile. Andammo a salutarlo nel convento in cui viveva, e che si chiamava, con un nome che era simbolico, “Las Fronteiras”, “Le Frontiere”. Don Helder sembrava essere diventato più piccolo. Mi ricordo che pensai a un wistitì. I wistitì sono delle scimmiette brasiliane minuscole, che spesso i giovinastri portano in un taschino della giacca e che cercano di vendere ai turisti. Esse tremano, hanno immensi occhi e un musino drammatico.
Prima assistemmo alla messa, questa messa celebrata con grande trasporto. Poi scese a darci la comunione. Mi ricordo che teneva la pisside vicino al cuore, come se fosse il suo bambino. Poi andammo nel patio e lì ci fece una grande festa, ricordò alcuni incontri e disse che i nostri nomi erano tenuti in una ‘listina’, una piccola lista, perché, disse, io perdo la memoria e allora posso estrarre questa lista al momento dell’offertorio e pregare per le persone che ho conosciuto”.
Ci chiese un regalo, ci disse che c’era una canzone italiana che gli piaceva tanto, potevamo fare il favore di cantargliela? Era “Quel mazzolin di fiori”. La cantammo con un groppo in gola e lui cantò con noi.
E intanto nel palazzo arcivescovile di Recife il suo successore, un certo don Josè Cardoso Sobrino, in nove anni di governo aveva ormai distrutto metodicamente tutto quello che don Helder aveva creato in difesa dei diritti umani, della sperimentazione liturgica, della preparazione dei sacerdoti alla pastorale popolare, delle comunità di base ecc. La diocesi era ormai un cimitero di idee e di sensibilità. Il giorno prima della nostra visita aveva fatto telefonare a don Helder per proibirgli di concedere interviste.
Credo però che tradirei lo spirito di don Helder se finissi con una nota di amarezza. Userò dunque un’altra sua poesia dal titolo: “Grazie Signore”. Dice: “Quando sentirai il tonfo di un frutto maturo che cade al suolo loda Dio, in nome delle vite piene, dei frutti ormai da raccogliere, dei destini giunti a compimento”.
Così riposa don Helder.

Luigi Sandri: Grazie della tua passione, di questi ricordi che ci hanno portato una persona viva, quasi l’avessimo conosciuto qui in comunità o comunque a Roma. Grazie anche per tutto ciò che hai fatto in tante altre situazioni.

Intervento di Nicoletta Dentico

Quando Gianni mi ha chiamato per invitarmi a questo incontro ero in mezzo alla strada ed ero così felice e l’ho urlato così tanto mentre parlavo al telefono con lui, che tre persone mi hanno detto: “Piano, piano, mica bisogna sapere tutti quello che succede a lei!”.
Quindi sono veramente felice di essere qui stasera a parlare di colui che per me è stata sicuramente una guida; posso dire di aver avuto una di quelle grandi fortune che forse tutti gli adolescenti dovrebbero trovarsi lungo il cammino: conoscere una persona come don Helder Camara. Non sarò mai sufficientemente riconoscente a questa grande madre che è stata, ed è ancora, Mani Tese, per aver permesso a una generazione come la mia, a tanti giovani della mia età, di vivere il messaggio di Cristo e l’impegno e di saper fondere la fede con appunto un senso civile dell’essere cittadino del mondo. E questo soprattutto grazie a testimoni, come appunto don Helder Camara, come l’Abbé Pierre, cioè queste figure eroiche, quasi titaniche – tra l’altro titaniche nella loro piccolezza fisica - perché ancora oggi sono figure alle quali noi attingiamo; sono parte della nostra storia, alla quale facciamo ricorso soprattutto in momenti come questo. Oggi tutte queste figure ci mancano, sentiamo che dobbiamo andare ad attingere ai loro libri, alle loro poesie, ma non ci sembra che oggi come oggi ce ne siano di così potenti, di così forti.
Io ho conosciuto don Helder Camara nel 1984 a uno dei tipici incontri annuali che Mani Tese organizzava per tutti quelli che avevano fatto i campi di lavoro, per tutto quelli che erano impegnati nei gruppi. Io allora ero responsabile di un gruppo in Toscana. Lo conoscemmo a Torino, c’erano sia lui che l’Abbé Pierre: fu una serata straordinaria. Ricordo una chiesa assolutamente stracolma di gente e questi due piccoli uomini che parlavano grandissime parole, lanciavano grandissimi messaggi.
La cosa straordinaria era appunto il fatto di poter essere con loro un sabato e una domenica interi, di poter mangiare con loro. Ricordo che a un certo punto ognuno di noi scriveva un messaggio. Don Helder - che aveva grandissimi occhi, occhi così generosi che distribuivano umanità e vicinanza a ognuno di noi, perché aveva la capacità di stare davvero in mezzo alle persone - scrisse una frase bellissima: “Pregherò per te tutti i giorni della mia vita”. Ed io gli dissi: “Ma come, come fa a pregare per me? Praticamente non ci conosciamo”. E lui disse una cosa molto bella: lui sentiva che questi giovani che si trovavano dall’altra parte, nel mondo ricco, erano la sua speranza. Viveva noi come la speranza, viveva noi come la proiezione per un non-ancora, un’utopia che doveva realizzarsi.
Queste cose ovviamente non erano rivolte a me, non erano neanche rivolte soltanto a noi di Mani Tese, erano la sua speranza del non-ancora, erano la sua utopia del non-ancora, di questa creazione che doveva rendere ciascuno di noi indomito. E disse che viveva appunto in noi giovani questo senso di essere indomiti, questa inquietudine che è tipica di quell’età.
E’ evidente che un messaggio di questo genere e una esperienza di questo genere sono un punto di non ritorno. Ripeto, è una di quelle esperienze che ti carena e ti carica così tanto, che poi diventa un’esperienza che ti segna, dalla quale poi è difficile prescindere per il futuro. Ed effettivamente sono stati quelli gli anni e le esperienze e i contatti e le testimonianze e le vicinanze (ripeto, con lui e con altri) che hanno profondamente segnato il mio percorso e la mia vita, in maniera assolutamente fondamentale.
Prima di venire qua, rileggevo l’intervista della Fallaci a don Helder Camara nel libro “Intervista con la storia”. E’ incredibile rileggere quel libro oggi, perché uno scopre la straordinaria profezia di don Helder Camara, soprattutto quando parlava della violenza di ritorno, della violenza di seconda generazione. Ovviamente rileggere di questa violenza di ritorno alla luce di quello che ci sta circondando e alla luce per esempio di questa notizia per fortuna ancora incerta della morte o meno delle due Simone, è forte come messaggio. Oggi paghiamo uno scotto di rimozione, di abbandono, di indifferenza, di astensione dall’azione rispetto a ingiustizie vecchie e nuove che don Helder già denunciava con una forza straordinaria decenni fa. E badate bene che i decenni in cui parlava don Helder erano in un certo senso i decenni positivi, quelli che segnavano un’uscita dalla povertà, i decenni dello sviluppo. Eravamo ancora in una fase di spinta propulsiva. Oggi sappiamo che stiamo celebrando in molte situazioni, anzi direi ormai a livello planetario, il necrologio dei decenni dello sviluppo e sappiamo che questa spinta propulsiva è a rischio e quasi un’illusione.
Eppure oggi io credo che sia proprio il messaggio di speranza a essere a rischio. C’è una speranza che ci interpella in maniera vibrante, come cristiani, sia a livello individuale che come comunità, per adempiere a questo compito della creazione, ma oggi credo che sperare sia duro, sia quasi un esercizio impossibile, almeno per me.
E lo dico anche pensando ai giovani di oggi. Oggi i giovani, lungi dal non avere un don Halder Camara con il quale confrontarsi, si trovano davanti a situazioni, pagine di giornale, notizie che francamente gelano e paralizzano. Sento tuttavia che questo suo richiamo e questa sua analisi così attuale oggi, ci illumina e ci deve ancora accompagnare. Dobbiamo ritornare a quelle analisi degli anni ’70 e ’80, perché in una dimensione che era già allora globale era già scritto quello che sta avvenendo oggi. Vi invito a rileggere quelle pagine.
Quindi mi sembra che questo appuntamento di stasera sia una sorta di segno, per me almeno, un segno importante. Sono passati vent’anni da quando l’ho conosciuto, sembra tantissimo tempo, ma in realtà è un tempo ragionevolmente breve nella nostra storia, e queste intuizioni straordinarie sono per noi non solo necessità di memoria, ma sono anche stimolo a recuperare questi prepotenti brandelli di verità e di rivelazione, proprio nel momento in cui la notte ci piomba addosso e ci sembra che la quotidianità o anche le voci e i rumori che sentiamo oggi non ci propongano particolari vie d’uscita.
Insomma il profeta don Helder, piccolo uomo dei grandi messaggi, ancora oggi che non sono più necessariamente giovane, segnano e credo possano segnare in modo fortissimo il nostro cammino e ci possano illuminare la via anche in un momento di così grave disperazione per l’umanità. Dobbiamo credere a questa storia, accogliere questo invito ad essere indomiti per ripristinare la resurrezione. E ancora oggi, anzi più che mai oggi, credere in questa avventura dell’amore che è avventura di Dio, perché oggi più che mai credo sia l’unico spiraglio che ci resta per costruire un futuro del mondo.

Luigi Sandri: Abbiamo visto don Helder dalla parte di qua dell’oceano, anche se il nostro Ettore è andato di là. Però noi siamo da questa parte del mondo, quindi la nostra lettura è molto interessante, perché ci ha scosso nel profondo, un testimone come don Helder. Ma adesso il nostro don Marcelo ci parla, come dire, dall’interno. Non solo dall’interno del Brasile, ma dall’interno di un cammino di fede, di chiesa, di speranza, che è nel solco di don Helder. Quindi ci fa proprio penetrare in questo fiore che è spuntato laggiù e ha portato i fiori e i frutti fino a qui.


Intervento di Marcelo Barros

Per me è difficile parlare, perché è molto commovente.
Io sono nato in Recife, nel grande Recife, a Camaragide, da una famiglia di operai. Sono entrato nel monastero benedettino quando avevo diciotto anni, nel 1962, per una passione per la comunità, perché sentivo che era attraverso una comunità vera, di vita, che io potevo vivere un’intimità con Dio. Il monastero era antico di 400 anni, era stato fondato nel 1582. Si era prima del Concilio, i monaci avevano una Costituzione tedesca: io ero (e sono ancora oggi) molto agitato, dunque dovevo mettere sempre le mani sotto lo scapolare; quando trovavo un altro fratello dovevo fare un inchino, se era un abate un inchino fino alle ginocchia.
Sono entrato nella Gioventù Studentesca, la JEC, ed ero l’unico, gli altri erano “io e Dio, Dio ed io”. Dunque ero un poco diverso, mi sentivo un po’ isolato sotto questo aspetto, anche se avevo una grande amicizia con l’abate, don Basilio Penido, che era un uomo conservatore, veniva da una famiglia di militari, ma era molto umano, molto rispettoso. Gli devo molto della mia vita. Lui ha saputo rispettare esattamente questa diversità, anche se non capiva.
Nel 1964 c’è stato un golpe militare, molti degli amici che avevamo nella Gioventù Studentesca sono scomparsi, non sapevamo come e perché; nella città si diceva che Gregorio, che era un capo comunista di Recife, era stato trascinato ammanettato per le vie da militari che erano in macchina e lui col corpo sulla terra, un uomo di più di 60 anni. Non capivamo.
Don Carlos, arcivescovo di Recife, era morto durante un’operazione: era stato ricoverato per una cosa semplice, ma durante l’anestesia ebbe un collasso e morì. Ebbene, in quel momento a Recife le Leghe contadine con il deputato Julien volevano cambiare vita, con il forte movimento studentesco - Recife è un po’ la capitale del Nordest - e in pochi giorni hanno si sparse la voce: “È stato nominato il nuovo arcivescovo, don Helder Camara”. Noi avevamo sentito parlare di lui da lontano. Il giorno dell’insediamento, il 21 aprile, ha deciso di non fare la cerimonia nella cattedrale; voleva entrare nella città nella piazza del giornale ‘Il Diario di Pernambuco’ e lì, nella piazza centrale, avrebbe ricevuto l’investitura.
Tutti noi monaci siamo andati lì. E lì ho visto quest’uomo così come è stato descritto qui: piccolo, semplice, che parlava con le mani, che sorrideva a ognuno. Era come se fosse una moltitudine di persone nella quale ognuno era guardato, lui vedeva ciascuno di noi. E ha detto: “Cristo per noi è Josè, Civilino, Maria, Joana… è ognuno. Io non sono vescovo per la Chiesa, lo sono per tutti e sono servitore di tutti, tutti, di tutti voi e di tutti gli esseri umani”.
Per me era molto strano, io non capivo, proprio non riuscivo a capire cosa voleva dire questo. Poco a poco ho cominciato a capire e credo che questa sia la principale eredità che mi ha lasciato: la Chiesa non può esistere per se stessa, esiste per gli altri, per il popolo, per il mondo. Dunque c’è un cammino per extra, non per intra.
Lui ha cominciato a vivere questo. Per esempio ha lasciato il palazzo, è andato alla chiesa delle Frontiere, come diceva Ettore. Ha detto che il palazzo potevano occuparlo tutti gli organismi sociali, della Chiesa e non; dunque tu trovavi lì tutti gli organismi civili che volevano una sala. Tre piani interi furono occupati. E in una sala lui andava ogni giorno alla mattina per ascoltare le persone che erano abituate ad andare lì. E ogni mercoledì alla sera voleva incontrare i giovani, che andavano lì con le chitarre e lui sedeva in terra e restava lì per due ore cantando canzoni di de Hollanda, di Vinicio de Moraes, musiche brasiliane. Non predicava, non faceva una conferenza, non trattava un tema: Ascoltava i giovani, parlava,… Soltanto questo. Alcuni di noi dicevano: “Ma perché non parla? Ma perché non predica?”.
Sono andato qualche volta, ma poi l’abate me l’ha proibito: “Sei un monaco, non puoi andare così alla sera”. Va bene, facevo il noviziato. Finito il noviziato, ho fatto la mia professione di monaco nel giorno della chiusura del Concilio Vaticano II, 8 dicembre 1965. E nel ‘67, un giorno di maggio, mi hanno detto: “Al telefono c’è l’arcivescovo, ti chiama”. Io ho detto: “A me?”. Ho avuto paura, ho pensato: che vuole? E lui mi ha domandato: “Può venire qui?”. Ho domandato all’abate e sono andato. E lui ha detto: “Bene, io non ti conoscevo, come stai? Sei tu che visiti le chiese evangeliche quando i benedettini vanno dove c’è quella piccola chiesa? Mi hanno detto che ogni giovedì tu passi qualche ora lì con gli evangelici”. Ho detto: “E’ vero”. Pensavo che lui avesse ricevuto delle denunzie. Ha detto: “E’ vero che con gli alunni del collegio ti trovi un po’ alla sera, che andate al bar…?”. “E’ vero”. E lui ha domandato un’altra cosa: “Ti piace il cinema?”. “Sì”. “Che film ti piacciono?”. Ho cominciato a dire i titoli, adesso non mi ricordo. E lui: “Sei la persona di cui ho bisogno”.
Veramente io ero un monaco benedettino assolutamente fuori dagli schemi, avevo sensibilità, ma non formazione. E lui ha detto: “Io ho bisogno di te perché mi aiuti nei contatti con le chiese evangeliche e le altre religioni. Tu sei andato al Condomblè. Ho detto. “Sì, qualche volta”. Lui ha detto: “Bene, può andarci con me? Quando c’è un culto, a cui io possa partecipare con te?”
E dunque dal ’67 al ’76 sono stato ‘segretario dell’arcivescovo per l’ecumenismo, per la Linea Cinque di pastorale’. In realtà erano nomi troppo solenni per quello che io potevo fare. Studiavo teologia, andavo in seminario e nel ’69 lui mi ha ordinato prete e fino al ’76 abbiamo lavorato insieme.
Quello che posso dire è questo: una Chiesa che è sempre per gli altri, una fede che è prima di tutto umanità, essere umani con gli altri, e una libertà immensa. Se io già ero libero, con don Helder ho imparato che se tu non sei libero non sei credente. Dunque un uomo libero, un uomo maturo.

Io sono stato ordinato prete il giorno 24 di ottobre 1969. Un mese dopo sono andato ad un monastero di monache per predicare il ritiro annuale delle monache e lì ho trovato una giovane di circa diciotto anni, discendente di giapponesi, che aveva perduto il suo papà ed era lì, aiutata dalle suore. Ebbene, siamo lì noi due, fuori della clausura, prendendo i pasti insieme; alla sera lei mi ha domandato: “Vuole vedere la città da una collina che è lì?”. Ebbene, meno di 48 ore dopo io ero profondamente innamorato e pare anche lei. Era un mese e mezzo che ero stato ordinato prete. Al mattino sono andato per celebrare la Messa all’inizio della giornata, e per prima cosa ho chiesto alla suora: “Buongiorno. Dov’è Vera?”. E la suora: “Non è qui, è uscita”. Dopo aver preso la colazione sono stato chiamato nel parlatorio e là una suora molto amica mia mi ha detto: “Guarda, lei è andata dall’arcivescovo, mandata da noi, perché lei ha detto che voi siete innamorati e noi siamo rimaste spaventate, dato che tu sei un giovane prete. Approfitti della debolezza di una povera giovane che ha perso da poco il padre. Questa è una tragedia. Dunque tu non puoi celebrare e devi andare, dopo la conferenza, dall’arcivescovo”.
Immaginatevi la mia situazione. Ho telefonato al mio abate e lui ha detto. “Non c’è bisogno di andare lì, resta tranquillo, parlo io con l’arcivescovo. Solo vieni qui”. Ma io ho voluto andare per parlare con l’arcivescovo. E don Helder mi ha detto. “Molte volte nella tua vita ti accadrà questo. Se con lei tu sei stato umano, sei stato buono, allora va bene”… “. Non racconterò dettagli, ma è stato un padre di amicizia, di misericordia.
Bene, potrei raccontare molte cose di questo genere.

Ho sofferto a un punto tale la sua uscita dall’arcidiocesi che mi domandavo se era possibile restare ancora nella Chiesa, dopo aver visto come la struttura può essere disumana, crudele, cattiva, con un essere umano; molto di più con don Helder, che ha dato alla Chiesa la sua vita.
Il 7 agosto 1999, dopo cinque anni, mi trovavo a Recife per una giornata teologica e sono andato a visitarlo. Lui veniva dall’ospedale, era nella sua casa, molto gonfio per il cortisone che doveva prendere. Mi ha ricevuto, ma io non sapevo se lui mi riconosceva, perché stava proprio zitto zitto e non alzava la testa. Gli ho chiesto: “Don Helder, sa chi sono io?”. Ma non sapevo se lo sapeva. Sono stato lì un po’ accanto a lui. Nessuna parola, nulla, nulla. E dopo qualche tempo io ho detto. “E’ stanco. Non devo restare qui, è meglio che vada”. Ho detto: “Vado, mi dice una parola?”. Silenzio. Ma d’improvviso ha fatto una sforzo, mi ha stretto la mano con un po’ più di forza e mi ha detto. “Non lasciare cadere la profezia”. Per me questa è una parola di vita.
Io so che nel 1982 lui aveva un amico, Geronimo Podestà. Era un vescovo cattolico argentino che si era sposato con Clelia Lurio e che è stato vescovo, ma per il Vaticano era come se non fosse esistito. Però lui stava nella sua diocesi e celebrava. Don Helder è stato sempre suo amico fino alla fine: lo riceveva nella sua casa, quando andava a Rio de Janeiro andava a trovare lui e la sua sposa, è stato proprio un amico. E’ morto adesso, dopo don Helder. Io ho letto una lettera di don Helder a Geronimo Podestà, una lettera del 1982, in cui diceva: “Da qui a tre anni esco dalla diocesi. Se Dio mi dà lucidità e salute, voglio consacrare gli ultimi tempi della mia vita a proporre un Concilio Gerusalemme II. Spiegava che non voleva dire che il Concilio doveva svolgersi a Gerusalemme, ma che doveva essere nello spirito di quello che è stato l’incontro degli apostoli che ha fatto sì che il cristianesimo uscisse dalla chiusura nella cultura ebraica. Dunque oggi voleva dire fare una Chiesa che sia veramente non solo occidentale: una chiesa africana, brasiliana, asiatica, australiana ecc. Era il suo sogno. Oggi io lavoro per rendere possibile questo sogno.

Luigi Sandri: Hai suscitato speranza, grazie.
Quel disegno che vedete lì l’ha fatto Anna Contessini. Perché non vieni qui e ce lo spieghi? Perché è molto carino. Don Helder, per chi non l’avesse conosciuto, è proprio lui, con quegli occhi…


Intervento di Anna Contessini
Quando Gianni m’ha detto di fare il disegno, perché aveva visto altre cose che io ho fatto, ci ho pensato molto perché non conoscevo Helder Camara, non ne avevo idea. Poi Gianni m’ha spiegato che c’era anche una sorta di silenzio, per cui mi giustifico. Ho incominciato a fare ricerche su internet, ho visto che c’era questo libro di Oriana Fallaci ‘Intervista sulla storia’, sono andata a prenderlo e mi ha affascinato. Infatti tutte le sere telefonavo ai miei amici: “Ma sai che ha fatto?”. Quello che mi ha colpito – come vedete dalle varie frasi che ci ho scritto intorno – è stato il suo messaggio di speranza, forse anche perché insegno in un liceo e capita spesso che i miei alunni mi dicano: “Ma perché ride professoré? Ma che c’è da ride, ma perché è così contenta?”. Per me un cristiano triste è un tristo cristiano. Cioè che messaggio porto come cristiana, se non la speranza?
Quindi Helder mi ha colpito. Forse era fuori luogo, però mi ha colpito il fatto che vivesse nella porticina verde accanto a Las Fronteiras e non nel palazzo; m’ha colpito che avesse i polli fuori della casa e non i pavoni o altro; m’ha colpito che avesse questa famosa catena in ferro con la croce in legno.
Non l’ho conosciuto, ringrazio chi ne ha parlato, perché io da sola non sarei mai arrivata a conoscerlo così come me l’avete descritto. Continuerò ad approfondire la sua conoscenza, perché secondo me, come diceva lui, “si è giovani sempre, si è giovani finché si ha una ragione di vivere”. E “non perdete la speranza, la fame sarà vinta”. E questa frase bellissima: “Se non ce la fai a portare le persone sulle spalle (perché ci pesa tutto), portiamole nel cuore”. Questo credo sia una cosa bellissima e ringrazio tutte le persone che sono qui che me l’hanno fatto conoscere.


Marcelo Barros: In questi giorni esce in Brasile un film commerciale di un regista di Brasilia che ha fatto una ricerca durata 4-5 anni, “don Helder, il santo”. E’ un documentario. In effetti il regista non ha trovato molto negli archivi del cinema o della televisione in Brasile per la censura della dittatura, ha trovato molto materiale in Europa. Dunque si vedono molte immagini di don Helder in Germania, in Francia, in Italia e meno a Recife, in Brasile. Però ha fatto ugualmente un film di un’ora e quindici minuti che certamente passerà qui tra breve.
Io mi ricordo dell’ammirazione che don Helder manifestava per un teologo italiano che ha dato una collaborazione meravigliosa in America Latina: Giulio Girardi. Il suo nome era per don Helder un riferimento di una teologia europea latinoamericana. (Giulio è presente e, commosso, ringrazia)

Luigi Sandri: Vedi Giulio, a forza di seminare arrivi anche a Recife.


Mauro: Io sono nato nel ’46 e Camara è stato uno degli uomini che ha più contribuito alla mia formazione e alla mia ricerca, soprattutto nel discorso di cercare di coniugare quella che allora era la mia fede in Gesù e nel Vangelo con l’impegno politico, sociale e talvolta anche culturale. E’ stato un personaggio di notevolissimo livello, secondo me, e oggi - chi mi ha preceduto ha fatto molto bene a ricordarlo - è uno dei tanti oggetti del silenzio, non soltanto da parte della Chiesa cattolica, ma anche da parte di altre forze politiche o culturali che pure all’epoca nei confronti di questo personaggio, come nei confronti di altri, erano molto attenti.
Allora io credo che uno dei compiti essenziali, oggi, sia quella di esercitare la funzione della memoria. Del resto qual è l’importanza fondamentale dell’Eucarestia? Non è tanto nel mangiare il corpo di Cristo, è nel ricordare questa persona e soprattutto nel ricordare quello che ha fatto, che è poi quello che l’ha portato a morire in croce.
Allora la funzione della memoria, la funzione del ricordare, io credo che dovrebbe essere una funzione importantissima per dei cristiani. Però (lo dico con un po’ di amarezza) non soltanto nei confronti di persone comunque abbastanza note come Helder Camara. L’ho detto anche in una celebrazione nostra qui in comunità due settimane fa e però mi sono reso conto che questa cosa è passata completamente sotto silenzio: non vorrei che anche tra di noi ci fossero persone da ricordare di serie A e persone da ricordare di serie B.
Allora, visto che noi stiamo facendo una commemorazione di un anniversario, io vi dico ancora, come l’ho detto due settimane fa, che qui abbiamo il ventesimo anniversario della morte di un prete - un uomo giusto, è stato definito da Nuto Revelli in un preziosissimo libretto di un centinaio di pagine - un prete che, come Camara, magari con meno clamore, o forse con un po’ più di contraddizioni, è stato in galera durante il fascismo perché, armato soltanto del suo spirito evangelico, è stato picchiato dai fascisti, è stato messo in carcere, è stato mandato al confino. Ha lavorato per salvare gli ebrei, tanto è vero che lo stato di Israele lo ha fregiato del titolo di ‘uomo giusto’. Negli anni ’70 è stato ridotto allo stato laicale dalla Chiesa di Paolo VI.
Ecco, io credo che anche figure di questo genere, che sono certamente più modeste, anche dal punto di vista intellettuale, di un don Helder Camara, dovrebbero essere ricordate. Siccome questo prete spretato è morto il 25 settembre di 20 anni fa, mi piacerebbe che ci fosse una serata dedicata anche a lui da parte della comunità. Si chiamava Raimondo Viale, era di Cuneo e c’è questo piccolo gioielletto di Nuto Revelli, 106 pagine, Edizioni Einaudi, in cui c’è tutta la sua storia.

Ettore Masina: Mi sono venute in mente due-tre cose che potrebbero interessare soprattutto i giovani che non hanno conosciuto questa figura.
Prima: Cercate le poesie di Helder Camara, perché sono delle bellissime poesie, che sono state tradotte anche molto bene. Ci sono due libri della Cittadella Editrice, uno si chiama “Chi sono io” e l’altro porta il titolo di un libro brasiliano che dice: “Le mille ragioni per un vescovo”. Una di queste poesie mi è piaciuta molto, me l’ha fatta venire in mente Nicoletta quando diceva che lui pensava anche globalmente le persone. Prendeva spunto da qualunque cosa, da oggetti e situazioni molto feriali. Vede passare un autobus pubblico con su scritto “Completo” e prega nella poesia: “Che io non diventi mai una persona che mette un cartello del genere”.
Secondo: siccome si è parlato di altre persone nel contesto di Helder Camara, una delle cose che mi colpivano di più è il fatto che Helder Camara manifestava una chiara allegria di essere amato da Gesù e di essere inserito in una grande avventura ed era lo stesso riso di Giorgio la Pira: Helder Camara e Giorgio la Pira ridevano allo stesso modo, con questa felicità infantile.
E la terza cosa: volevo unire nel ricordo di Helder Camara monsignor Romero. Monsignor Romero ed Helder Camara si incontrarono a Puebla, alla seconda conferenza dei vescovi dell’America Latina. Romero rientrò piangendo nella sua casa e scrisse una pagina del suo diario in cui diceva: “Finalmente mi sono sentito capito, finalmente qualcuno mi ha dato forza”.
Ecco, credo che questa capacità di dare forza sia quello che noi possiamo chiedere attraverso la nostra memoria a Helder Camara e a tutte le persone che ci hanno donato la speranza che è ancora in noi.

Giorgio: Volevo esprimere la mia gratitudine per questa serata, perché abbiamo sentito tanta passione, tanta commozione, tanta convinzione, che ci hanno portato in un clima molto bello.
E’ un po’ l’inizio quest’anno dell’attività pubblica del CIPAX e della comunità, quindi è la prima serata e non poteva cominciare meglio di come è cominciata questa sera.
Il nostro programma per quest’anno sarà un po’ sulla falsariga dell’incontro di questa sera: dei racconti su quei maestri che hanno costituito le radici della cultura del Novecento, radici oggi forse nascoste o dimenticate..
Questo programma lo stiamo costruendo. Se qualcuno di voi ha voglia di partecipare non ha che da salire alla nostra piccola sede, per lavorare insieme.



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