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Dom Helder Camara al Concilio Vaticano II
Relazione di Mons. Luigi Bettazzi al Convegno "La forza delle idee"


Credo sia di grande importanza approfondire il tema dei rapporti tra Dom Helder Camara e il Concilio Vaticano II, sia per cogliere pienamente il valore della personalità del Vescovo brasiliano come anche per ampliare la conoscenza della grande Assemblea ecclesiale che papa Giovanni XXIII volle definire “Pentecoste del nostro tempo”.

E’ lo stesso Dom Helder Camara che ce ne offre l’opportunità attraverso le lettere che scriveva alla comunità brasiliana di São.Joaquim – dal nome della residenza arcivescovile di Rio de Janeiro dove avevano iniziato a radunarsi – pubblicate oggi in un’estesa antologia anche in italiano sotto il titolo “Roma, due del mattino”.

Il grato impegno di parlarne brevemente è stato offerto a me, che proprio durante il Concilio ebbi l’opportunità di conoscerlo.

E’ vero, egli non fece mai interventi nell’Aula conciliare, ma era straordinaria la molteplicità delle iniziative da lui avviate e sviluppate al di dentro ed ai margini dell’Assemblea.

Ero allora - dall’autunno del 1963 – giovane Ausiliare dell’Arcivescovo di Bologna, il Card. Giacomo Lercaro (dom Helder lo definiva “buonissimo uomo di Dio”), appena nominato tra i Moderatori del Concilio, i quattro Cardinali chiamati a guidare lo svolgimento delle Assemblee conciliari (coadiuvati – Lercaro ed altri Moderatori – da don Giuseppe Dossetti, “figura francescana “ – così dice dom Helder – “malgrado sia un prete secolare”) e tutto questo mi rendeva talora partecipe di iniziative marginali, come quando mons. Camara, allora Segretario della Conferenza episcopale brasiliana, insistette per avere una conferenza del Card. Lercaro ed io andai a leggerla a nome del Cardinale in quel momento impedito. Ma soprattutto ebbi occasione di incontrarlo più volte nelle riunioni che Paul Gauthier, il sacerdote francese che aveva fondato a Nazareth il gruppo dei “Compagni (falegnami) di Gesù, nell’appartamento affittato a Roma, promuoveva per concretizzare l’ideale de “La Chiesa dei poveri”.

Dal Diario pubblicato emerge che questa era una delle finalità che dom Helder perseguiva nel Concilio. Al di là dell’impressione che egli dava – era definito “il vescovino”, “bispinho” in portoghese , di un idealista, appunto, ma nel senso di un utopista sulle nuvole, egli era invece un grande organizzatore: e forse la sua utopia maggiore – l’ora di preghiera notturna a cui si era impegnato diventando sacerdote – era proprio quella di programmare efficacemente il suo tempo, di fronte a Dio, ma anche di fronte alle situazioni concrete della storia in tutte le sue dimensioni. Si renderà conto che se non era facile essere Papa, non lo era neanche essere Padre conciliare, perché non lo è essere vescovo, essere cristiano, ma neanche essere creatura umana!

Già lo dimostra l’aver costituito a Rio de Janeiro un gruppo di riflessione e di preghiera coinvolgendolo nella preparazione del Concilio (e per questo lo terrà al corrente dello svolgimento dell’Assemblea attraverso queste lettere così ricche e così puntuali). Ma lui che già aveva sollecitato la riunione dei vescovi brasiliani – di cui era stato il prima Segretario, nel 1952, e addirittura aveva progettato la riunione continentale dei rappresentanti degli episcopati dell’America Latina – la prima riunione di un abbozzo del CELAM fu appunto a Rio de Janeiro nel 1955 – aveva organizzato due gruppi singolari: uno era l’ “Opus Angeli” (dunque più modesto di un’ “Opus Dei”), costituito da vescovi e teologi impegnati sul tema che particolarmente stava a cuore a dom Helder, quello della povertà e del sottosviluppo di tanta parte del mondo (“Il sottoconsumo dei molti” – diceva – “nasce dalla superproduzione dei pochi e dal loro superegoismo”), l’altro il gruppo “Ecumenico”, costituito ancora dal Verscovi e da illustri teologi, incaricato di preparare contributi soprattutto sul tema della Chiesa, da quello sulla sacramentalità dell’episcopato, alla collegialità (dai Vescovi...ai laici) e sul diaconato (eventualmente anche per le donne).

L’approfondimento di questi temi portava alle conseguenze più coerenti, come l’impegno per la nonviolenza con la condanna delle guerre o la pastorale nei confronti dei comunisti da sviluppare soprattutto nel dialogo e nel rinnovamento sociale più che con le condanne.

Credo peraltro che accanto ai contenuti degli apporti allo sviluppo del Concilio, sia interessante puntualizzare il metodo o lo stile con cui dom Helder ha partecipato e contribuito al cammino del Concilio: metodo e stile che costituiscono – penso – il contributo più grande, non solo - allora - per il cammino del Concilio, ma – ancora oggi, e sempre – per la vita della Chiesa. I due punti di riferimento primari furono per dom Helder la serietà dell’impegno e la preghiera. Si trattava di porre la Chiesa di fronte ai problemi fondamentali dello sviluppo dell’umanità e quindi anche della Chiesa: occorreva analizzarli seriamente sollecitando studi approfonditi e coinvolgendo le persone più competenti. Le due Commissioni citate sono gli esempi più significativi, a cui vanno aggiunte le consultazioni costanti e le conferenze che faceva, allora, in giro per l’Europa. Ma proprio perché sentiva che si trattava di situazioni eccezionali, sentiva di dover coinvolgere in modo tutto particolare lo Spirito Santo e tutta la SS.ma Trinità, ed ecco la necessità di una grande preghiera, dalla soddisfazione per quella con cui cominciava ogni Assemblea conciliare e per una crescente partecipazione ad essa dei Vescovi, a quella più personale – con grande fiducia negli angeli, ma soprattutto nella Messa – e degli amici, da approfondire nei momenti più determinanti.

Il suo silenzio in Aulas era poi largamente controbilanciato dagli incontri personali, moltiplicati per la fiducia ch’egli aveva nei contatti diretti che egli aveva, dal Papa –Paolo VI – a cui esponeva, con estremo rispetto ma anche con totale chiarezza, i suoi punti di vista e le sue convinzioni, ben sapendo fra l’altro che occorreva riequilibrare le pressioni pessimistiche da cui era costantemente circondato – ai Vescovi, che senza sosta ricercava o per la loro autorevolezza in quanto Cardinali (dall’amico Suenens, che sapeva molto stimato da Papa Giovanni e sarà incluso da Papa Paolo tra i Moderatori, ad Ottaviani, responsabile del Sant’Uffizio (un organismo – insisteva dom Helder – da cambiare nel nome e nello stile di comportamento) o per la loro...debolezza (Vescovi delle zone più provate dell’Africa o provenienti dal mondo comunista), dagli altri cristiani (in particolare Roger Schutz, il priore di Taizé, “il santo più autentico che abbiamo in basilica”) ai pionieri della nonviolenza (come Jean Goss o Lanza del Vasto).

La fiducia nel dialogo lo portava a partecipare a tutte le iniziativa tese a far crescere il senso di responsabilità dei Vescovi di fronte ai grandi problemi e alle attese dell’umanità e della Chiesa. Così si dava da fare per illustrare – in ogni occasione e in tutti i modi – lo svolgimento delle discussioni, ma anche per sollecitare un impegno personale dei Vescovi di fronte ai temi della povertà e dello sviluppo, concretato poi in un documento, sottoscritto poi da centinaia di Vescovi, in cui essi si impegnavano ad un maggior distacco personale dal denaro, ad una vita più sobria, ad una pastorale più attenta e più vicina ai lavoratori ed ai poveri. Questi molteplici contatti erano dunque impregnati di fede, alimentata dalla preghiera costante. E la carità si rendeva evidente nel non offendere mai, nell’interpretare sempre nel modo migliore anche le macchinazioni di chi voleva ostacolare un aperto sviluppo dei dibattiti e degli sviluppi tematici (magari indicandoli come “la banda del Centro”, che cercava di scusare con la buona fede ed a cui assicurava una sua grande preghiera). Dello stesso Card. Ottaviani ricordava la sua confidenza a Roger Schutz: “Voglio vederci chiaro, non voglio peccare contro la luce”.

La fede e la carità sono unite dalla speranza, che qualcuno ha visto come la sorella piccola che tiene per mano le due sorelle maggiori e appunto le tiene unite. Ed io la vedrei come espressione di un’umanità fiduciosa, cioè piena di fede e di carità che guarda serena al cammino da compiere. Dom Helder aveva già visto così il Concilio, non in funzione di condanna “contro” qualcosa (come fu – osservava – quello di Trento, che sembrò inaridire la teologia), ma che riformi la Chiesa per renderla aperta, fresca, coraggiosa, con tre prospettive: l’atteggiamento di dialogo, lo spirito ecumenico, la disposizione al servizio. A questo i era ispirata tutta la molteplice attività nel corso del Concilio. E concludeva al termine: “Il lavoro grande è pensare, meditare, pregare, preparando il dopo Concilio”. Ed insisteva con il Papa perché dopo una Commissione episcopale che avrebbe curato la riforma della Liturgia secondo il Concilio, istituisse una Commissione che curasse la riforma della Chiesa secondo il Concilio; notava infatti “come lasciare il postconcilio alla Curia romana se fino alla fine e in modo generalizzato non ha condiviso lo spirito del Concilio?”.

Dom Helder continuava a sperare, fidando nello Spirito Santo, ma fiducioso anche di quanto lo spirito umano da aprirsi al di là delle chiusure di un gretto razionalismo. E’ questa la testimonianza della poesia, che esplode ogni tanto anche tra le righe del Diario. Ed è questa la testimonianza della musica che avrebbe voluto concludesse il Concilio – dopo pubblici dialoghi con atei e preghiere con gli Induisti, i Buddisti, i Musulmani, gli Ebrei, e dopo...la canonizzazione di Papa Giovanni, confermata dai due grandi miracoli dell’indizione del Concilio e dell’amore universale in occasione della morte del Santo – si concludesse con una grande sinfonia.

Anche l’umorismo – che non manca nemmeno nelle lettere citate – di chi sa che al di là delle contingenze più sconcertanti c’è una Provvidenza che guida: così quando il Segretario del Concilio annuncia i voti ottenuti sulla collegialità, lo fa- dice dom Helder - con il tono con cui un famoso telecronista brasiliano comunicava i goals subiti dalla squadra preferita; o quando viene comunicato che un Padre conciliare è morto e un altro impazzito, il “vescovino” commenta che, se si entra in Concilio senza condividerlo, o si impazzisce o si muore!.

E come segni di umanità e di speranza dom Helder andrà a vedere il film di Mary Poppins e lo esalterà con entusiasmo, o andrà al circo, allo spettacolo per bambini per gioire con i clowns ed i cavallini...

Quando riflettiamo su quanti hanno influito sullo sviluppo e le conclusioni del Concilio, al di sotto – ovviamente – dello Spirito Santo, e al di là dei Papi, dei Cardinali e dei Vescovi intervenuti individualmente o in gruppo per proporre e suggerire, per sollecitare e premere, dobbiamo renderci conto di quale forza determinante siano state la fede, le preghiere, le azioni promosse da uomini non appariscenti e non apparsi come il nostro grande “bispinho” dom Helder Camara Pessoa.
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