La Filosofia di Aldo Capitini
di Norberto Bobbio

Il seguente testo, che nuovamente riproponiamo, e' estratto da Norberto
Bobbio, Maestri e compagni, Passigli, Firenze 1984, 1994, pp. 239-260
(precedentemente era apparso negli "Annali Scuola normale Superiore di Pisa" del 1975); noi lo abbiamo ripreso dall'eccellente sito dell'Associazione
nazionale Amici di Aldo Capitini (www.aldocapitini.it). Segnaliamo che non
abbiamo riportato le note (ben 42, alcune delle quali peraltro aggiungono
osservazioni e citazioni di grande interesse che arricchiscono ulteriormente
il testo: rinviamo per esse all'edizione a stampa citata), e che abbiamo
corretto alcuni minimi refusi.

Norberto Bobbio e' nato a Torino nel 1909 ed e' deceduto nel 2004,
antifascista, filosofo della politica e del diritto, autore di opere
fondamentali sui temi della democrazia, dei diritti umani, della pace, e'
stato uno dei piu' prestigiosi intellettuali italiani del XX secolo.


In un saggio autobiografico scritto pochi mesi prima della morte Capitini
racconto' di esser passato a poco a poco negli anni pisani dagli studi
letterari agli studi filosofici, specialmente dopo il 1933, allo scopo di
"costruire le giustificazioni dell'opposizione al fascismo e della
costruzione libero-religiosa".
Nel 1937 uscira' la prima opera, gli Elementi di un'esperienza religiosa, di
cui egli stesso disse, ristampandola nel 1947, che conteneva oltre a
"momenti lirici" e "tensioni religiose" anche "spunti filosofici". Composta
tra il 1937 e il 1944 quella che egli stesso chiamo' la sua "tetralogia
antifascista", ossia gli Elementi citati, Vita religiosa (1942), Atti della
presenza aperta (1943), La realta' di tutti (scritto nel 1944, pubblicato
soltanto nel 1948), il primo libro che diede alle stampe dopo la liberazione
fu un'opera schiettamente filosofica, Saggio sul soggetto della storia
(1947).
Dei molti libri che scrisse in seguito non ve n'e' uno che non contenga
riferimenti a filosofi antichi, moderni e contemporanei, analisi di correnti
filosofiche del passato e del presente: nel Fanciullo nella liberazione
dell'uomo (1953) alcuni capitoli sono dedicati alla discussione delle
filosofie con cui egli riteneva di doversi confrontare per far scaturire
l'originalita' della propria posizione (idealismo, storicismo,
esistenzialismo).
Filosoficamente orientato e impegnato e' l'ultimo libro apparso, lui
vivente, La compresenza dei morti e dei viventi (1966), che a me pare
l'opera sua maggiore, nonche' conclusiva, per ampiezza di temi e ricchezza
di svolgimenti, e larghezza dell'orizzonte spirituale che essa abbraccia e
lascia intravedere (opera difficile, da ristudiare, o meglio, da studiare,
perche' il pensiero di Capitini non e' stato ancora decifrato).
Capitini non fu e non volle essere un filosofo nel senso scolastico o,
peggio, professionale della parola. Ma non fu soltanto un religioso o un
moralista. Rispetto alle due maggiori personalita' religiose presenti e
operanti nella storia della spiritualita' italiana di questo secolo al di
fuori della chiesa-istituzione, cui egli stesso si paragona (e questo
paragone e' a mio avviso giustissimo e illuminante e meriterebbe di essere
approfondito), Ernesto Buonaiuti e Piero Martinetti, egli fu meno filosofo
del secondo, ma piu' filosofo del primo.
Gli anni in cui egli colloca il suo tirocinio filosofico, dal 1933 in poi,
sono gli anni in cui l'idealismo, filosofia dominante da alcuni decenni,
giunge estenuato ai suoi stessi discepoli che credendo di rinnovarlo lo
travolgono. Nello stesso anno in cui appaiono gli Elementi, il piu' fedele
degli allievi di Gentile, Ugo Spirito, scrive un libro (La vita come
ricerca, 1937) in cui converte lo spiritualismo trionfale del suo maestro
nel problematicismo, cioe' in una filosofia della crisi.
Sono gli anni in cui coloro che si danno agli studi filosofici (essendomi
laureato in filosofia nello stesso 1933 parlo piu' da testimone che da
storico) cercano altre strade, la fenomenologia, l'esistenzialismo, il
neo-positivismo del Circolo di Vienna.
Ho gia' detto altrove (sono costretto a ripetermi, ma il discorso su
Capitini mi offre l'occasione di una singolare conferma) che nel decennio
tra il 1930 e il 1940, nonostante il fascismo che culturalmente non conta
nulla, fanno la loro apparizione nel nostro paese le correnti filosofiche
che terranno il campo dopo la Liberazione, ad eccezione del marxismo,
rispetto al quale l'ostracismo e' rigoroso (il primo marxista della nostra
generazione, Galvano Della Volpe, anche lui in cerca d'una via d'uscita,
scrive in quegli anni un libro su David Hume).
Da un lato Geymonat e Colorni, il filone della filosofia scientifica;
dall'altro Abbagnano, Paci, il primo Luporini, il filone
dell'esistenzialismo. Come al tempo della crisi della grande filosofia
sistematica di Hegel, quell'hegelismo minore che fu l'idealismo italiano si
rompe in due direzioni opposte, verso la scienza (il nuovo positivismo) o
verso la riscoperta di un'esperienza religiosa, se pure nella forma di una
teologia rovesciata, com'e' l'esistenzialismo di Heidegger.
Non posso non andare con la mente alle parole di Nietzsche: "Che cosa e' il
filosofo? Al di la' delle scienze: liberazione dalla materia. Al di qua
delle religioni: liberazione dagli dei e dai miti". Ovunque il sistema
filosofico, qualunque esso sia, si dissolve, tornano alla ribalta
affrontandosi o alleandosi l'al di qua delle scienze e l'al di la' della
religione, il sistema astratto e l'anti-sistema, l'intellettualismo e
l'irrazionalismo.
*
La rottura capitiniana avvenne dalla parte dell'al di la' della filosofia.
In una storia del pensiero per linee molto generali potrebbe essere compresa
nell'orizzonte dell'esistenzialismo, anche se si sia trattato di una
convergenza oggettiva, e, se mai con riguardo all'Italia, di
un'anticipazione, non certo di una consapevole derivazione (i primi libri
italiani dichiaratamente esistenzialistici sono La struttura dell'esistenza
di Abbagnano e La filosofia dell'esistenza e Carlo Jaspers di Pareyson,
rispettivamente del 1939 e del 1940). Piu' tardi egli stesso avvicino' la
sua "esperienza religiosa" a quella di Kierkegaard, che peraltro quando
scrisse il suo primo libro non aveva letto. L'unico autore citato negli
Elementi che possa essere fatto rientrare nella letteratura
esistenzialistica e' Nicola Berdiaeff, il quale era letto in quegli anni,
anche dallo stesso Capitini, come uno scrittore politico, specie per il suo
libro Cristianesimo e vita sociale, apparso nel 1936.
Non si puo' negare che nel modo con cui Capitini affrontava il problema
della crisi spirituale del proprio tempo, e dell'esigenza di un impegno
personale, intimo, radicale, nella ricerca di una soluzione che non poteva
essere soltanto sociale o politica, e tanto meno soltanto istituzionale, vi
fosse una vena del piu' genuino esistenzialismo.
Quando egli scrive "l'essenza della religione e' la coscienza appassionata
della finitezza", introduce uno dei motivi piu' profondi e piu' esaltati
dell'esistenzialismo (com'egli stesso riconoscera' in tempo di
esistenzialismo trionfante), mettendo pero' l'accento non tanto sul
sostantivo "finitezza" quanto sull'aggettivo "appassionata", per segnare
quel che lo distingue, la tensione verso il superamento del limite, non la
sua accettazione, l'andare al di la' verso il tu di tutti, non il restare
dentro la situazione tanto da non intravedere, come accade appunto
all'esistenzialismo, "la realta' liberata".
Se di un suggerimento esistenzialistico si puo' parlare, bisognera' andarlo
a cercare in colui che fu chiamato un esistenzialista ante litteram, Carlo
Michelstaedter, morto adolescente nel 1910, di cui doveva essere ancora viva
la presenza nell'Universita' di Pisa attraverso l'insegnamento di Vladimiro
Arangio-Ruiz, che ne era stato l'amico e l'editore. Il quale e' subito
citato all'inizio degli Elementi: "Carlo Michelstaedter, alla fine del primo
decennio di questo secolo, dopo aver sentito come forse nessun altro la
romantica riduzione di tutto a se' stesso, si uccise per possedersi, per
consistere, per sottrarsi ad ogni dominio e realizzarsi perfettamente. Egli
sconto' cosi' con la sua vita serissima tutta una civilta'".
In un passo di Il fanciullo nella liberazione dell'uomo, Capitini collega
l'autore di La persuasione e la retorica all'esistenzialismo in questo modo:
"L'esistenzialismo segnala la frattura, l'interruzione del continuare, della
retorica (direbbe Michelstaedter), il pervenire al limite, al fondo, proprio
perche' sia possibile altro". Di contro alla retorica, cioe' al modo, ai
vari modi con cui l'uomo vivendo nell'effimero del tempo s'illude di vivere
nell'eterno, sta la persuasione, cioe' il possesso reale, risoluto, senza
illusioni e inganni, che e' di pochi, del presente: "La via della
persuasione non e' corsa da omnibus, non ha segni, indicazioni che si
possano comunicare, studiare, ripetere; ma ognuno ha in se' il bisogno di
trovarla e nel proprio dolore l'indice, ognuno deve nuovamente aprirsi da
se' la via, poiche' ognuno e' solo e non puo' sperare l'aiuto che da se'. La
via della persuasione non ha che questa indicazione: non adattarti alla
sufficienza di cio' che ti e' dato".
Se pure con parole meno oscure e destinate a ben piu' largo consumo, questa
distinzione fra persuasione e retorica rivivra' nella contrapposizione
heideggeriana tra esistenza autentica ed esistenza inautentica. Chiunque
abbia una certa familiarita' con gli scritti di Capitini sa che uno dei
termini-chiave del suo linguaggio personalissimo e' "persuasione", che sta
per "credenza" o per "fede" (il bel capitolo autobiografico con cui ha
inizio il libro Religione aperta e' intitolato La mia persuasione
religiosa), onde "persuaso", parola da lui usatissima equivale a "credente".
Egli stesso ne riconosce la derivazione da Michelstaedter: "... del quale
mettevo in rilievo, anche in una conferenza che tenni a Firenze, la
"persuasione" (un termine che ho assunto, preferendo "persuaso" a
"credente", persuaso nel senso di "autopersuaso", quasi di "pervaso"),
l'antiretorica, quel tipo di esistenzialismo, che poteva divenire supremo
impegno pratico [...]: insomma mi pareva esatto considerarlo come la
premessa di una tensione etico-religiosa".
Una premessa, non una conclusione: nella Compresenza dei morti e dei viventi
viene presentato il tema fondamentale dell'opera di Michelstaedter: "La
persuasione e' il possesso presente della propria vita". Ma poi subito dopo
si aggiunge: "Come si puo' possedere la propria vita se esiste accanto la
morte?".
Questa osservazione e' molto importante, perche' ci mostra entro quali
strettissimi limiti si possa parlare di esistenzialismo a proposito di
Capitini. L'esistenzialismo, specie nella sua versione heideggeriana, era
una filosofia della crisi (del decadentismo, come dicevo allora), che
rifuggiva dal mondo perche' non era in grado, nonche' di trasformarlo,
neppure di comprenderlo.
Era una filosofia non politica per eccellenza o del rifiuto della politica
degradata a mondo della "cura" per la sopravvivenza con cui l'uomo
condannato ad esistere cerca di sfuggire all'angoscia di fronte al nulla che
lo circonda o al Dio che e' sempre al di la'.
La filosofia di Capitini era all'opposto una filosofia sociale, o meglio
comunitaria, la cui categoria essenziale non era la "cura" (la Sorge
heideggeriana) ma la tensione (o lo slancio, con altra parola tipica del suo
linguaggio) verso l'altro, verso gli altri, verso il tu di tutti, ove la
finitezza non e' un limite invalicabile, un limite sentito come una colpa
oscura da cui non e' possibile riscattarsi, ma come la condizione per cui
non possiamo fare a meno degli altri, e dobbiamo cercare di vivere, secondo
un'espressione leopardiana che Capitini usa spesso, "confederati". (Nobile
natura e' quella che "tutti fra se' confederati estima gli uomini e tutti
abbraccia con vero amor..."). Ove insomma la finitezza non e' una situazione
limite, ma una situazione aperta, anzi il punto di partenza verso l'apertura
infinita al Dio del mondo, cioe' di quel Dio che vive nella comunita',
capitinianamente, nella "compresenza" dei vivi e dei morti.
*
Ho citato di proposito Leopardi, non solo perche' fu uno degli autori di
Aldo, ma perche' Leopardi, molto piu' di Kierkegaard, offre spunti e temi in
quegli anni all'esistenzialismo italiano (sia ricordato per tutti il libro
di Cesare Luporini, allora vicino al gruppo capitiniano, Situazione e
liberta' nell'esistenza umana, del 1942, che contiene alcuni richiami a temi
leopardiani come quello del tedium vitae).
Aldo dal canto suo si defini' un po' paradossalmente, con quel gusto che gli
era proprio di rompere gli schemi canonici della filosofia accademica,
"kantiano-leopardiano" (sul "kantiano" diremo fra poco). Dei principali temi
della sua filosofia riteneva di aver trovato un'espressione poetica
nell'autore della Ginestra: oltre quello della unita' di tutti gli esseri
viventi contro la natura matrigna, quello della compresenza dei morti nei
famosi versi a Nerina: "Ogni giorno sereno, ogni fiorita / piaggia ch'io
vedo, ogni goder ch'io sento / dico: Nerina or piu' non gode; i campi, /
l'aria non mira".
Ispirato a Leopardi e' il capitolo di Vita religiosa intitolato L'orizzonte
(e curiosamente il tema dell'orizzonte e' anche un tema esistenzialista, un
tema strettamente connesso a una filosofia della finitezza, come ben sa chi
conosce la filosofia di Jaspers, e l'importanza che vi ebbe in quegli anni
la prima traduzione di un suo libro, Existenzphilosophie, in cui uno dei
temi centrali e' quello dell'Umgreifend, tradotto in italiano "orizzonte
comprendente").
In una filosofia del finito l'orizzonte e' una metafora quasi obbligata:
esso e' infatti la rivelazione di cio' che e' finito, perche', per quanto si
allarghi, non cessa mai di avere un limite, ma nello stesso tempo, rinviando
continuamente a quello che e' al di la', e' il segno o la "cifra" attraverso
cui si rivela l'infinito. Quella che per Leopardi era la "... siepe, / che
da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude", in Capitini sono in
quel capitolo "le finestre da cui si vede una parte dei monti", e, al di la'
delle "torri" e delle "cime" si puo' scorgere "tutta la linea fra la terra e
il cielo".
Beninteso, per la stessa ragione per cui Capitini lambisce l'esistenzialismo
ma non e' esistenzialista, cosi' assume alcuni temi leopardiani ma non e'
leopardiano (se non negativamente): l'infinito di Leopardi e' il mare in cui
e' "dolce naufragare", e' un momento del contemplare; per Capitini
l'infinito viene vissuto nella compresenza, diventa atto pratico, un momento
della "prassi" religiosa.
Egli paragona l'orizzonte della natura a quello della storia da cui
contempla e rivive tutto il passato e rivivendolo non lo sente piu' come
passato, e nel fare (non nel semplice contemplare) l'orizzonte e' gia'
superato.
La conclusione che egli trae dalla contemplazione della linea che separa il
cielo dalla terra (fuor di metafora lo spirito dalla materia) non e'
soltanto una conclusione esistenziale, come quella di Leopardi, ma e' una
conclusione filosofica: "Giove e gli angeli sono svaniti".
Certamente, tanto l'esistenzialismo quanto la filosofia di Capitini, hanno
una matrice religiosa: ma la religiosita' esistenzialistica (da Kierkegaard
a Heidegger) e' di origine protestante ed e' ispirata ad una concezione
pessimistica dell'uomo; la religiosita' di Capitini e', nonostante il suo
aggressivo anti-cattolicesimo istituzionale, di ispirazione cattolica (parlo
della spiritualita' cattolica, che guarda alle opere piu' che alla fede, non
alla chiesa come istituzione).
Invero dal punto di vista della negazione radicale di ogni istituzionalismo,
Capitini fu non meno anti-cattolico che anti-protestante, e non puo' essere
compreso se non inserendolo nella storia delle sette non conformiste che
predicano il ritorno alle origini - di quelle sette in cui Piero Martinetti
in quegli stessi anni, scrivendo Gesu' Cristo e il cristianesimo (1934),
vedeva trasmesso e conservato in ogni epoca storica lo spirito genuino del
messaggio cristiano - e che sole propugnarono come genuinamente cristiano,
sempre avversate dalle chiese che dovevano venire a patti col mondo, il tema
capitiniano quant'altri mai della nonviolenza.
Chi volesse approfondire l'antitesi fra l'antropologia pessimistica
dell'esistenzialismo e quella ottimistica di Capitini dovrebbe fare una
rassegna dei temi esistenziali che si trovano ripetuti nelle sue opere. Sono
temi in genere diametralmente opposti a quelli esistenzialistici, perche'
richiamano l'attenzione sull'aspetto chiaro non su quello oscuro
dell'esistenza umana: la gioia, la festa, la coralita', l'amicizia, la
vicinanza, l'aggiunta, l'apertura, la letizia, il tu dato a tutti, anche ai
morti ("Non sai quanto mi ha atterrito la vista dei morti; mi sono schiarito
pensando che potevo dire 'tu'").
Se per quel che riguarda l'esistenzialismo si e' potuto parlare di
convergenza, si deve parlare invece di appropriazione e superamento rispetto
all'idealismo o meglio allo storicismo, filosofia dominante nella cultura
italiana, con la quale la nostra generazione fu l'ultima a dover fare i
conti, con un misto di amore e odio, di accettazione e ripulsa, che ha
marcato (o marchiato) tutta la nostra vita intellettuale e ci ha segnati
come una generazione di mezzo travagliata e divisa, piu' ricettiva che
creativa, instabile e inquieta perche' in continua ricerca della propria
identita' (che non e' mai riuscita a trovare).
Parlo di superamento e non di rifiuto, perche' l'altra filosofia, la
filosofia data per morta e quindi rifiutata, era per Aldo la filosofia della
trascendenza, che poneva Dio fuori del mondo, non gia' lo storicismo,
filosofia dell'immanenza che aveva fatto discendere Dio nella storia,
l'universale nel concreto.
Rispetto alla filosofia della trascendenza, lo storicismo segnava, per Aldo,
un passo avanti, che non permetteva ritorni o salti indietro nel tempo.
Capitini insomma accettava la lezione dell'idealismo, ma non se ne
accontentava. L'idealismo era un passaggio obbligato; ma appunto un
passaggio, non un punto di arrivo.
La superiorita' dell'idealismo rispetto alle filosofie tradizionali stava
nel fatto che esso aveva posto o riposto il soggetto, intendi il soggetto
concreto umano, il soggetto finito-infinito, al centro del mondo e della
storia, era una filosofia del soggetto.
In questo modo Capitini accettava pienamente la definizione che l'idealismo
dava di se stesso. Nell'estrema espressione di questa filosofia che era,
secondo un giudizio che egli divideva con tutta la filosofia immediatamente
post-idealistica, l'attualismo gentiliano, il soggetto si risolveva tutto
quanto nell'atto con cui poneva e riproponeva se stesso: una filosofia che
usciva dal tronco dell'idealismo non poteva che essere una filosofia
dell'atto. Non solo dunque idealismo, ma, piu' specificamente, attualismo.
Lo stesso Capitini confessa: "Quanto all'Atto di Gentile io sono tra quelli
che hanno sentito il fascino di quel concentrare tutto qui, per tutto rifare
in un totale impegno. Non la sommersione delle distinzioni o quei logicismi
che ricadevano su se stessi, ma la forza di quell'eticismo (o tensione
religiosa, teogonica) ha operato su molti".
Ma quale atto? Il problema fondamentale di Capitini, dalla prima all'ultima
pagina delle sue opere, fu quello di recuperare il senso escatologico della
filosofia della trascendenza, dopo aver accettato la filosofia
dell'immanenza che non riconosce nessun altro mondo fuori di questo mondo
della storia.
Il suo pensiero religioso si puo' riassumere in questa formula:
l'escatologia qui e subito. O il trascendimento del mondo o la perdita del
mondo. Ma il trascendimento non e' rinvio alla trascendenza, non e' attesa
della liberazione dal di fuori o dall'alto, bensi' liberazione in atto
attraverso l'apertura infinita a tutti, morti e viventi, cose e persone. Per
aver rifiutato la trascendenza, l'immanentismo ha finito per accettare il
mondo, e invece bisogna rifiutare la trascendenza ed anche il mondo: "Quello
che non puo' fare lo storicismo, lo fa una posizione etico-religiosa, che
taglia l'ottimistico svolgimento storico e approfondisce. E se io non posso
placarmi al morire degli individui nella storia, io cerco una realta' in cui
l'individuo non muoia, sia presente in eterno".
Lo storicismo si risolve nella concezione panteistica dell'Uno-tutto. Ma una
autentica filosofia del soggetto non puo' realizzarsi se non trasforma
l'Uno-tutto in Uno-tutti, il panteismo o pan-logismo in un pan-personalismo
(la parola e' mia). Per passare dal pan-teismo al pan-personalismo occorre
una tensione religiosa, che l'idealismo nel suo giustificazionismo storico
non conosce. Occorre insomma, con tipica parola capitiniana, un'aggiunta.
Nell'ultima opera, che, come ho gia' detto, certamente e' l'opera
filosoficamente piu' impegnativa, egli sviluppa il tema del raffronto tra
"aggiunta" e "dialettica". La dialettica e' un movimento che si chiude su se
stesso, e' la logica, lo dico con parole mie, di un sistema che, per quanto
dinamico, e' chiuso. In altre parole, la dialettica spiega tutto ma non
trasforma nulla. Per trasformare il mondo occorre rompere questo movimento
che si chiude su se stesso: solo l'aggiunta religiosa puo' operare questa
rottura.
"Noi non diremo che l'essere singolo a cui volgiamo il tu e' morto, perche'
cosi' voleva la dialettica del reale. Ne' che la realta' liberata verra'
necessariamente dopo che il Male si sia sfrenato come in un regno
dell'Anticristo; ma che la realta' liberata si aggiungera' dal di dentro".
Piu' che verso gli idealisti italiani, la critica capitiniana dello
storicismo e' diretta a Hegel, considerato come il filosofo del sistema
totale, di una totalita' organica in cui gli individui scompaiono, che non
lascia alcuno spazio alla realta' di tutti: "Siamo ancora con Hegel nel
problema teologico di intendere il rapporto tra Dio e l'uomo. Siamo ancora,
sebbene su terreno laico, in una festa religiosa in cui si celebra la
discesa, la "presenza", mirando, nella luce del mistero risolto, ad essa; e
non ai compresenti".
O ancora: "Per Hegel l'insufficienza dei singoli elementi viene colmata nel
nesso di questi con il Tutto; qui (nella filosofia della compresenza) la
constatazione della insufficienza fa porre le aperture pratiche religiose
alla compresenza".
Che questa critica di Hegel avesse tratti esistenzialistici, o meglio che
l'interpretazione di Hegel che Capitini aveva accolto (ed era del resto
favorita dalla forma che aveva assunto lo hegelismo in Italia) fosse
particolarmente vulnerabile in una prospettiva esistenzialistica, non mi par
dubbio. Ma e' da notare ancora una volta che anche in questa fase egli non
si ferma all'esistenzialismo perche' non ne accetta i tratti
irrazionalistici.
*
Per quanto possa sembrare strano in un pensatore religioso come Capitini, la
critica di Hegel non lo conduce affatto a Kierkegaard ma gli fa ritrovare
Kant. Non e' improbabile che ad attrarlo verso l'autore della Religione nei
limiti della sola ragione fosse stata la monografia kantiana di Martinetti,
uscita postuma nel 1947, e che egli cita nella Compresenza.
All'opposto degli idealisti che avevano visto in Kant il primo anello
dell'idealismo tedesco, Martinetti aveva inseguito ed esposto in vari
scritti una sua interpretazione metafisica e religiosa dell'etica kantiana.
L'interpretazione capitiniana di Kant si svolge nella stessa direzione, e se
mai con maggiore insistenza sulla dimensione religiosa, tanto da costituire
uno dei momenti culminanti e anche piu' originali del dialogo che Capitini
tesse e ritesse instancabilmente coi grandi filosofi.
Mentre Hegel fa discendere l'universale nel mondo e ve lo rinchiude, Kant ha
sempre lo sguardo volto all'altro mondo, al mondo noumenico, che e' rivelato
all'uomo dal dovere morale. Certo con Hegel "Dio scendeva a toccare la terra
e a trasformare gli eventi". Ma: "pareva piu' religioso il Kant, il quale,
pur con l'astrattezza e la lontananza e la chiusura adialettica e ontologica
del suo Dio, poteva (...) conservare il dramma della realizzazione
dell'assoluto come dovere, come valore, come aspirazione, tensione".
Oppure: "Il Kant, col suo non risolversi interamente nella storia, finiva
per intravedere una storia ulteriore, quando la destinazione umana (...) sia
attuata sulla terra; cioe' intravedeva un concreto modo di essere del reale
migliore del modo di realizzarsi che appare attualmente".
E ancora: "Malgrado tanto hegelismo nell'aria, e nel nostro sangue, nelle
strutture e nella storia d'oggi, noi ci collochiamo in una situazione che e'
piu' simile a quella del Kant: il Kant aveva davanti l'empirismo, e non si
stancava di aggiungere elementi formali, universali, intelligibili: noi,
raggruppando le posizioni che troviamo secondo la comune origine di
posizione della "vita", di chi e' vivente, ci troviamo ad aggiungere la
compresenza. Il risultato e' che, mentre lo Hegel, con il movimento
dell'Idea giustificava l'evento, anche la morte, noi, con l'aggiunta della
prassi della compresenza (che e' incondizionata), tendiamo a trasformare
l'evento, e quindi a vincere la morte".
Lo colpi' una frase della Religione nei limiti della sola ragione che suona
cosi': "Noi possiamo aver fiducia che, se noi fossimo o diventassimo un
giorno perfettamente cio' che dobbiamo essere e potremmo diventare (con una
continua approssimazione), la natura dovrebbe obbedire ai nostri desideri i
quali pero', allora, non sarebbero, mai, insensati".
Vi vedeva quasi come un'anticipazione dell'idea che gli fu cara, della
trasformazione della realta' attraverso la libera "aggiunta". Spiegava: "Non
e' l'accettazione del mondo com'e' (naturalismo), ma l'esigenza che il mondo
sia piegato, prima o poi, da noi o dall'opera altrui o insieme, ai nostri
desideri puri; noi diremmo: alla compresenza, che essendo realta' di tutti e
produzione del valore ci da' la garanzia di desideri puri, sani".
Malgrado questa interpretazione, che mette l'accento piu' sull'aspetto
etico-religioso che non su quello gnoseologico (preferito dagli idealisti)
del pensiero kantiano, restano tra Capitini e il "suo" Kant alcune
differenze fondamentali (e per questo il dovere di Kant e' soltanto
un'anticipazione dell'aggiunta): il regno kantiano dei fini e' pur sempre il
regno degli esseri razionali, non di tutti gli esseri viventi, compresi gli
esseri non razionali; viene rinviato ad un futuro puramente ideale e
immaginario, mentre il persuaso agisce sin d'ora, perche' la natura in cui
egli opera non e' chiusa all'influenza del valore, non esiste per lui un
dualismo insuperabile tra mondo fenomenico e mondo noumenico, che riproduce
il vecchio dualismo teologico; infine Kant accetta ancora del vecchio mondo
teologico l'idea del giudizio ultimo dei buoni e dei cattivi (cioe' l'idea
di un Dio di giustizia). Non c'e' nulla che Capitini respinga con maggiore
forza di questa idea del giudizio. La compresenza dei morti e dei viventi e'
la negazione del giudizio, e quindi del Dio di giustizia: "La connessione a
priori del destino dei vivi e dei morti nella compresenza (creazione corale
dei valori) fuga la tentazione di descrivere il trascendente e di
ristabilire i due piani al modo platonico, e sopprime la tentazione di
stabilire un giudizio, un merito distinto, secondo il modo di vedere
l'individuo, che e' stato il punto di partenza greco-umanistico: l'ammettere
una infinita cooperazione con i morti fa saltar via il giudizio, e porta
l'escatologia qui veramente nella coralita' del valore e nella possibilita'
della trasformazione della natura. Se si vuole, si puo' dire, con tutte le
riserve fatte, che questo e' il motivo hegeliano di discesa dell'elemento
ideale nel mondo, che viene realizzato con la compresenza, ma non
naturalisticamente, accettando l'evento della morte, bensi'
escatologicamente, con indirizzo alla liberazione, alla trasformazione della
natura".
*
Kant ed Hegel stanno sullo sfondo. Ma il colloquio quotidiano e' con Croce.
Se Gentile era, a Pisa, di casa, Croce era presente in ogni angolo della
cultura italiana. Non si poteva fare un passo senza incontrarlo. Erano gli
anni in cui Croce, ripiegato su se stesso, ci incitava a credere, con
l'opera e con l'esempio, nelle "forze morali" che muovono la storia. Ancora
oggi non posso ripetere queste parole "le forze morali", che a un giovane
possono sembrare retoriche, senza provare un'emozione profonda. Dal modo con
cui Capitini discute e ridiscute in quasi tutte le sue opere i grandi temi
della filosofia crociana, le famose quattro categorie dello Spirito, il
concetto di vitalita', la distinzione fra giudizio storico e giudizio
morale, la riduzione dell'individuo all'opera, la catarsi del dramma umano
nella poesia o nella storia, si capisce benissimo che Croce era
l'interlocutore privilegiato, il maestro vivente.
A cominciare da un saggio del 1941, dove, avendo contrapposto Croce (la
dialettica dei distinti) a Gentile (la dialettica degli opposti), si pone
decisamente dalla parte del primo e pur non esita a mettere in evidenza i
limiti pratico-politici (nell'ora che chiama alla responsabilita' di
un'azione concreta) della posizione crociana di fronte alla storia.
Spiega che la conoscenza storica si chiude nell'Uno-Tutto che e' "volonta'
di Dio, forza delle cose, integrale corso storico, reale egemonia delle
cose, unita' cosmica, corso del mondo" e che a una esigenza religiosa non
basta una concezione dialettica, perche' "se la storia considera l'opera
operata, la vita religiosa, soprastoria e sottostoria che sia, volge un
divino tu alla persona, per una libera aggiunta, per un'iniziativa di piu',
che si alimenta anche della continua e disciplinatrice esperienza dei
valori". E conclude: "E allora la mia apertura d'animo ad una vecchia
povera, dalla faccia magra e che oramai ha appena il fiato per respirare, il
mio interiorizzamento della sua esistenza, che par da poco, puo' importarmi
piu' che non lo stabilire la positivita' dell'opera dei Gesuiti".
Anche l'opera di Capitini dunque, come quella di Gramsci, e' un anti-Croce,
ma appunto in quanto tale non sarebbe stata quella che e' stata senza
l'antagonista. Le ultime parole dell'ultima opera, la Compresenza, terminano
con questa contrapposizione: "Il Croce in un mondo greco-europeo ha
affermato sopra gli schemi della filosofia della storia, la perennita' delle
quattro categorie o valori dello Spirito (...); questo libro, sopra gli
schemi della filosofia della storia presenta la compresenza dei morti e dei
viventi, realizzanti insieme valori e trasformanti la realta' attuale".
Croce, da un lato; "questo libro" dall'altro: Croce e anti-Croce. Cio' che
affascina Capitini e', se non m'inganno, il senso meraviglioso che Croce ha
della grande fiumana della storia in cui sembra che nulla vada perduto. Ma
sopravvive soltanto l'opera. Non sopravvivono gli uomini, gl'individui
singoli, piccole particelle di un Tutto che li travolge. "Il Croce - Aldo
ripete spesso - dira' che la storia non puo' morire, ma i morti sono ben
morti".
A volte la sua mente si volge per contrapposizione a Kant, come in questo
passo: "Quell'elemento profondo e, si direbbe, materno per cui il tu e' per
l'individuo compresente, indipendentemente dalle sue qualita' e dalle sue
azioni, viene a mancare nella concezione dello storicismo immanentistico e
nella concezione della trascendenza cattolica. E per questo una vera e
propria attenzione all'individuo manca in entrambi, perche' nella prima
l'attenzione e' per i prodotti storici, nella seconda per le decisioni
autoritarie di Dio. Che l'individuo sia nella compresenza non e' percepibile
nell'esperienza, direbbe il Kant (...) Il Kant direbbe: col tuo atto morale
tu costituisci la persona, tua e altrui, come razionalita'; che percio' non
e' percepibile sensibilmente, non e' cosa che si veda con gli occhi o si
tocchi con le mani".
Altre volte, a Leopardi: "La protesta per il passo della morte e' piu'
religiosa che la sua accettazione, e il Leopardi e' piu' religioso del Croce
(...). Il Croce e' greco-europeo, perche' la civilta' europea porta al suo
sommo l'affermazione dei valori. Il Leopardi comprende questi (le virtu'),
ma cerca gl'individui, e li vede morire, non li trova piu', sono i morti".
In un passo autobiografico estremamente pregnante, che, esaminato coi
criteri tradizionali della storiografia filosofica, potrebbe sembrare
stravagante, si definisce un kantiano-leopardiano: "Ero da molti anni un
libero religioso, implicitamente un kantiano con una prevalente attenzione
alla "finitezza" dell'uomo, al suo dolore, alla incapacita' in cui egli si
trova talvolta, in mezzo ad una civilta' attivistica, di operare e di essere
al livello degli altri, a causa della insufficienza fisica, della sua
malattia. Ero un kantiano-leopardiano, umanitario e socialisteggiante (e'
noto che non sono stato mai nel fascismo, pur avendolo visto nascere), prima
di conoscere il Kant".
*
Nulla meglio di questo continuo trapasso dal concetto di un filosofo ad
un'intuizione di un poeta ci permette di capire che il passaggio dagli studi
letterari (Leopardi) agli studi filosofici (Kant) era avvenuto, come abbiamo
letto nella frase citata all'inizio, unicamente perche' egli aveva sentito
l'esigenza di trovare una giustificazione teorica alla pratica di
libero-religioso.
Capitini non e' un filosofo (e neppure un letterato): per usare la suo
autodefinizione, e' un "persuaso". E un persuaso e' prima di tutto un uomo
in cui l'impegno pratico prevale sull'impegno contemplativo. Il filosofo e'
pur sempre un contemplante e lascia il mondo com'e'; il persuaso e' tutto
teso nell'azione, nella "prassi" (influenza di Marx?) che trasforma, o
"tramuta" il mondo: "L'apertura alla realta' liberata e' soprattutto pratica
(...) Intendere che cosa e' Dio non si puo' se non attraverso impegni
pratici". Di fronte all'inadeguatezza della realta', filosofo e' colui che
ricorrendo a Dio, o alla Storia, cerca di giustificarla e, se non puo'
giustificarla, l'accetta. Il persuaso opera per mutarla: "Davanti ad un
semplice essere vivente, per esempio una piccola pianta, se pensiamo
all'Essere, sentiamo la sua inadeguatezza, la sua "limitatezza metafisica",
e non possiamo fare altro; se tendiamo alla Prassi, abbiamo la fiducia che
nella realta' di tutti sia fondata anche la pianta, che essa sia recuperata,
abbia una sua destinazione, perche' nell'apertura pratica pura c'e'
anch'essa, e la Prassi non rischia il nulla perche' la compresenza connette
vivi e morti".
Il tema della prassi ci conduce al Capitini religioso, anzi
religioso-politico, su cui ho richiamato l'attenzione altra volta. Ancora
un'osservazione se mai, volendo restare nel tema che mi e' stato assegnato,
sul rapporto di Capitini col marxismo (intendo il marxismo come filosofia,
come visione del mondo).
Non si puo' dire che Capitini sia stato uno studioso di Marx, anche se Marx
viene spesso citato nelle sue opere (quantunque meno di Hegel o di Kant o di
Croce); ma anche lui, come tutti coloro che hanno partecipato al
rinnovamento culturale italiano dopo la liberazione, non ha potuto fare a
meno di prendere posizione di fronte al marxismo.
Questa posizione non e' molto diversa da quella che egli assunse di fronte
alla filosofia dell'immanenza in genere, e di fronte all'hegelismo in
ispecie, di cui il marxismo e' sempre stato considerato nella tradizione
filosofica dell'idealismo italiano una discendenza.
Anche il marxismo ha il merito di far discendere Dio nel mondo; anzi, con il
particolare rilievo dato ai bisogni materiali dell'uomo (a quello che per
Croce era il valore economico o della vitalita'), ha condotto piu' a fondo
di tutte le altre filosofie immanentistiche il processo dell'immanenza: "Nel
marxismo l'umanesimo laico fa un poderoso sforzo ulteriore, vista
l'insufficienza della soluzione dello storicismo idealistico". Il marxismo,
in quanto materialismo, e' immanentismo radicale. E, solo in quanto
immanentismo radicale, riesce a porre le premesse, attraverso l'eliminazione
della proprieta' privata, perpetua generatrice del dominio e
dell'oppressione dei pochi sui molti, per far fare "uno scatto in avanti" al
processo di liberazione dell'uomo.
Pero', anche il marxismo e' pur sempre soltanto un umanesimo. Manca ad esso,
come a tutti gli umanesimi precedenti, da Hegel a Croce, la tensione
religiosa. Solo cosi' si spiega che possa riporre la speranza di salvezza in
una classe economica, che, per quanto costituisca la grande maggioranza
degli uomini, non rappresenta tutta intera l'umanita'. Per il persuaso
religioso "oppresso e' un salariato, ma oppresso, in questa realta' di
fatti, e' anche il condannato alla pena capitale, il nato cieco, il morto".
Come umanesimo, il marxismo resta nei limiti della storicismo, e
dell'hegelismo: e' un hegelismo condotto alle sue estreme conseguenze, ma e'
pur sempre hegelismo.
"I proletari prenderanno il potere tenuto dai borghesi; ma lo eserciteranno
come lo esercitavano i borghesi, con gli stessi modi di governo? Questo e'
cio' che unisce hegeliani e marxisti, malgrado le polemiche interne. Lo
Hegel doveva aspettarsi questa utilizzazione estremamente realistica del suo
"spirito"; ma poteva anche esser certo che uno stato sorto su questa
utilizzazione realistica non si sarebbe molto diversificato dallo stato
sorto sul suo modo d'intendere lo Spirito".
Anche rispetto al marxismo dunque l'atteggiamento di Capitini e', come nei
riguardi di tutte le altre filosofie immanentistiche, un atteggiamento di
accettazione e di rifiuto insieme. Anche il marxismo ha bisogno
dell'"aggiunta" religiosa: "La religione aperta si aggiunge all'umanesimo
rivoluzionario da una posizione post-umanistica, ma proprio ne rende
possibile la realizzazione".
*
Un'ultima considerazione: se per filosofia s'intende non soltanto il sistema
(che Capitini non ebbe e non si sforzo' di avere) ma una visione del mondo,
ritengo che per capire la visione del mondo capitiniana non basti risalire
alle sue fonti filosofiche, rileggere i suoi autori, ma occorra entrare
dentro la sua esperienza, cogliere le fonti vitali, non libresche, del suo
pensiero. Egli stesso disse: "Se la cultura mi giovo' (...), sono certo che
anche senza cultura sarei arrivato ai punti essenziali della mia persuasione
religiosa (...) sapere della guerra, conoscere direttamente il dolore e
insistentemente, soffrire l'esaurimento, l'insonnia, la fragilita' fisica,
sperimentare il male morale, non accettare la violenza, interessarsi ai
singoli, vivere in poverta', tendere ad associarsi per lottare
politicamente, sono cose che possono essere anche in una persona senza
speciale cultura, e loro mi hanno condotto ad una vita religiosa".
Le filosofie gli offrirono strumenti concettuali per esporre le proprie idee
per entro una societa' che accetta le idee soltanto se sono presentate in
una certa forma, con un certo linguaggio. Ma per capire i contenuti di
quelle forme, e' forse piu' utile cogliere da alcuni cenni autobiografici,
dalle opere poetiche, il suo modo fondamentale di porsi di fronte al mondo,
che era quello di stare dalla parte dei "dannati della terra", di coloro che
chiamava di volta in volta, con fantasia linguistica inesauribile, gli
"sfiniti", i "sofferenti", gli "stanchi", gli "stroncati", i "languenti",
gli "annullati", i "dimezzati", i "lontani", gli "ultimi", i "torturati",
gli "scomparsi", i "colpiti dal mondo". Io stesso ho capito meglio che cosa
significasse "compresenza" allorche' mi imbattei in questo passo: "...
quando si e' in un cimitero non si vorrebbe restare custode di una tomba
soltanto, anche se di persona stata a noi carissima; perche' vorremmo essere
custodi di tutte, leggere le altre epigrafi, mandare un sorriso ad ogni
giacente; e ogni osso tratto su dalla terra e dalle casse disfatte, ci e'
caro, un oggetto lasciato, che si direbbe anonimo, ma fu di essere umano
singolo e con un nome".
Ho creduto di capire che la compresenza era per Capitini qualche cosa come
la resurrezione dei morti, non rinviata a un tempo metastorico, ma vissuta,
attuata nel presente: intesa la resurrezione dei morti come trasformazione
non solo della societa' ma anche della natura.
Nell'ultima lettera che mi scrisse (del 28 settembre 1966) in risposta ad
alcune mie osservazioni sulla Compresenza, allora uscita, diceva: "Si tratta
di non concepire il realizzarsi della natura cosi' com'e', compresa la
morte, come una categoria immodificabile, cosi' come il Marx ha detto che il
mondo economico del profitto non e' immodificabile".
In un altro punto precisava: "La prassi non e' essa sola la distinzione tra
compresenza e storicismo, ma oltre la prassi c'e' un diverso concetto di
essere. E' il punto che sto studiando da mesi. Mi pare di essere sulla via
di chiarirlo".
Dalla lettura dell'ultima opera e dagli accenni di questa lettera trassi
l'impressione che Aldo avrebbe voluto continuare ad approfondire
filosoficamente il suo pensiero. Anzi forse di li' sarebbe cominciata la sua
migliore stagione filosofica. Ma la morte la interruppe.
Qui ho cercato soltanto di mettere insieme frammenti di un disegno rimasto
incompiuto e di collocarli nel quadro piu' ampio della cultura filosofica di
quegli anni: un modo di rivivere insieme con noi la sua esperienza, o almeno
una parte della sua esperienza, e attuare cosi' in concreto, anche solo per
un momento, la "compresenza".

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