Presenza alla Persona nell'etica di Aldo Capitini.
Considerazioni su Alcuni Scritti Minori
di Giuseppe Moscati

Dal sito www.aldocapitini.it riprendiamo il seguente saggio.


Giuseppe Moscati (per contatti: giuseppe.moscati@tiscalinet.it) e' dottore
di ricerca presso l'Universita' degli Studi di Perugia dove svolge attivita'
di collaboratore scientifico, tutore di sostegno e cultore della materia
presso le cattedre di filosofia morale e storia della filosofia morale del
professor Mario Martini, con cui condivide tra l'altro gli studi
capitiniani. Formatore sui temi dell'intercultura, della pace, del dialogo
tra i popoli e della cooperazione allo sviluppo, e' segretario e membro
supplente del Premio di laurea "Aldo Capitini". E' redattore della rivista
"Rocca". Ha pubblicato numerosi articoli su riviste specializzate
occupandosi in particolar modo degli aspetti etico-politici dell'opera di
Capitini e in generale del pensiero nonviolento, tra cui: "Il
libero-socialismo di Aldo Capitini", in AA. VV., Aldo Capitini tra
socialismo e liberalismo, Franco Angeli, Milano 2001; La presenza alla
persona nell'etica di Aldo Capitini. Considerazioni su alcuni scritti
"minori", "Kykeion", n. 7, Firenze University Press, Firenze 2002; Mazzini,
Capitini, Gandhi. Intervista a Mario Martini, "Pensiero Mazziniano", nuova
serie LVII, n. 4, Bologna University Press, Bologna 2002; Pensare la pace,
scacco matto alla guerra. Una riflessione filosofica su conflitto e
dintorni, "Foro ellenico", VI, n. 53/2003; Dietrich Bonhoeffer:
Essere-per-gli-altri, "Rocca", LXIII, n. 8/2004; E il settimo giorno ando'
alla guerra. Religioni tra scenari di guerra e orizzonti di pace, "Apulia",
XXX, n. 4/2004; Capitini, la nonviolenza e il dialogo tra i popoli,
"L'altrapagina", XXII, n. 5/2005; Maria Zambrano, violenza e creazione,
"Rocca", LXIV, n. 12/2005; Simone Weil: dal mito al cuore dell'uomo,
"Rocca", LXIV, nn. 16-17/2005.

Si puo' partire da una significativa definizione del negativo data da Aldo
Capitini sessant'anni fa per approfondire alcune delle tematiche cruciali
del pensiero del filosofo della nonviolenza. Mi riferisco, in particolare,
ai temi di responsabilita', persona, liberta' e valore, e alle posizioni
capitiniane di anti-dualismo, critica dell'idealismo e integrazione-aggiunta
all'esistenzialismo: tutto cio', esplicitato da Capitini in alcune sue opere
di ampio respiro, puo' essere letto, peraltro, anche attraverso gli scritti
meno conosciuti dell'autore.
Il testo in questione, innanzitutto, e' quello di una conferenza tenuta da
Capitini nel febbraio 1941 e dedicata al problema della persona (1). Esso,
del resto, e' ancor piu' fecondo se letto alla luce di altre considerazioni
di Capitini presenti, sotto forma di questioni, suggerimenti e risposte alle
provocazioni di pensatori come Guido Calogero, Giuseppe Granata, Guido De
Ruggiero ed altri "dialoganti" dell'epoca, nei testi di questi, soprattutto
in Individuo e persona del Calogero e in Azione e valore del De Ruggiero.
Capitini, dunque, definisce il negativo come dolore di qualcuno, come dolore
di un essere determinato: esso "e' sempre dolore di una persona; non esiste
il dolore di 'nessuno'" (2). Da qui, poi, egli puo' dedurre la necessita' di
un certo atteggiamento etico: la "presenza al dolore della persona" (3).
Ecco, allora, che ci appare subito chiaro come Capitini voglia connotare
come etico il rapporto fra persone, fra l'io ed il tu che l'io si ritrova
davanti sofferente, in condizioni di bisogno. Ne consegue che l'uomo e'
l'essere nel bisogno, che l'uomo e' tale in quanto bisognoso dell'altrui
presenza. La quale, dovere morale di ciascuno, diventa l'argine
all'indifferenza e il balsamo della solitudine.
Ma per comprendere la presenza, il suo valore e la sua azione, va prima
presa in considerazione la persona: la priorita' di ogni discorso morale
spetta, secondo Capitini, al "porre le persone". Un atto che costituisce il
vero baluardo contro due pericolosi nemici di una visione morale del mondo,
e cioe' solipsismo e vitalismo "grezzo": "Il solipsismo e' l'ombra che
sempre accompagna la nostra decisione, ed e' il dubbio che ci poniamo
sempre... corrispettivo della nostra liberta', autonomia o infinita' di
volere" (4). E qui, in un luogo kantiano - ma di un Kant "riformato" (5) -,
il Nostro afferma che "porre gli altri e' valore in me, e siccome avverto
che posso far cio' e non farlo, ne consegue una nobilta' intima nel porre le
persone... Ponendo le persone, da un lato superiamo il solipsismo,
dall'altro il grezzo vitalismo" (6). Anzi, l'interesse di Capitini si
incontrera' con maggiore evidenza nelle sue riflessioni sul come porre la
persona: e' sentendola davvero nel tempo che posso avvicinarne la vera
essenza, che coincide con l'esistenza, ed e' nel calarmi io stesso nel
tempo, vicino ad essa, che posso sentire la sua esistenza come viva, vitale,
creatrice direi; cogliere l'esistenza di una persona vuol dire prenderne a
cuore e sul serio tutti i frammenti vissuti, finanche ogni desiderio,
progetto, speranza, senza mai pensarli quali accidenti (7).
Tutto questo e' possibile se si e' in una certa disposizione etica, se si
ha, cioe', l'intenzione gratuita e disinteressata di porsi come liberta'
vicino alla persona che ci e' davanti, e quindi di offrirci come atto libero
al tu che, costituzionalmente, mi richiede e insieme mi completa e
arricchisce.
Tempo e liberta' sono pertanto le due coordinate principali del percepire
l'altro come persona, le due categorie fondamentali che ci consentono di
coglierne l'esistenza. Troviamo conferma di cio' nella caducita'
dell'esistere dell'uomo e nella fallibilita' dell'agire di questo: "bisogna
che io provi lo spavento di vedere la persona come esistente nel tempo e
suscettibile di cessare, perche' l'assuma veramente col mio atto; bisogna
che veda con spavento la persona come suscettibile di errare, perche' io sia
vicino alla sua liberta' di elevarsi invece al dolore" (8). Siamo ancora una
volta all'interno della possibilita' del negativo: della morte in quanto
fine della persona come mortale e finita e del male in quanto caduta nello
strumentalismo e nell'atteggiamento totalitario. L'uomo, da una parte e'
ente finito ed esposto all'estinzione, quindi caduco e bisognoso di aiuto,
dall'altra e' attore etico-sociale esposto a mille situazioni, percio'
fallibile e bisognoso, ancora una volta, di un tu che lo motivi alla
conquista dei valori.
*
Questo legame tra gli uomini fondato sul confronto, sulla comprensione
reciproca e sulla condivisione del negativo (9) - possiamo sintetizzare:
sulla vicinanza-presenza - rappresenta il vero di piu' della visione
capitiniana del mondo. Il rapporto tra gli uomini e' letto in base alla
considerazione del bisogno come radice dell'esistenza umana ed in vista
dell'elevazione a valore prioritario della condivisione di quell'ineludibile
fondo opaco della vita di ciascuno, l'elemento drammatico di fondo
dell'essere qui ed ora. A proposito di quest'ultimo, poi, che e' un negativo
nietzschianamente "umano, troppo umano", come non citare uno dei passi piu'
suggestivi di una delle opere maggiori del nostro autore, La compresenza dei
morti e dei viventi? Il passo significativo, in questo senso, non puo' che
essere quello che prende le mosse dall'interrogazione retorica di un
Capitini indagatore dell'origine del male: "Perche' noi troviamo il male?
Proprio perche' la compresenza, nel far nascere l'individuo, lo colloca in
una condizione nella quale egli puo' farsi, o tendere a farsi,
esclusivamente forza, vitalita', accentramento nell'io isolato, come egoismo
o egotismo; quanto piu' egli tende a realizzarsi a questo livello, tanto
piu' si realizza quella forma di realta' che noi chiamiamo naturalita', con
tutte le sue chiusure, i suoi limiti, il suo male. Quanto piu', invece,
l'individuo svolge il suo essere nella compresenza, tanto piu' si intravede
la possibilita' che gli impedimenti si riducano e cessino fino al punto di
una realta' liberata, attuazione della compresenza" (10).
Ma, sia ben inteso, la naturalita' non e', in Capitini, il dato da superare
senza esitazioni perche' malattia dell'umanita': essa e' cio' che va
recuperato, credo, a quel "vitalismo grezzo" di cui leggevamo sopra, e' la
base sulla quale l'uomo e' invitato dal suo stesso esistere e dalla sua
consapevolezza di essere nel mondo a costruire i valori. Responsabilita',
compresenza, condivisione del drammatico dell'esistenza, la stessa idea di
persona non hanno senso se non in relazione ad un teatro - il mondo umano -
nel quale entrano in scena i corpi come le volonta', le passioni come le
leggi morali, gli istinti come le idee. E se accanto alla memoria o
all'"attivita' spirituale" di un uomo c'e' la sua stessa presenza fisica, i
rapporti tra gli uomini non possono prescindere da quella base di
naturalita'.
Tornando alle pagine del Capitini meno noto de Il problema della persona, ci
appare evidente proprio questo, attraverso una sorta di reazione del
filosofo al dualismo atto/corpo: "oggi sentiamo [il nostro atto] troppo
scisso dal corpo fisico" (11). Questo, ferma restando la sottolineatura dei
limiti di una concezione materialistica tout court del mondo, limiti che per
Capitini investono una vera e propria questione di diritto: la persona e'
rispettata solo da colui che la avverte come tale allo stesso modo in cui il
diritto richiede in chi lo tutela il dovere di prenderlo come diritto (12).
La materia, qui, funge da stimolo, pone la finitudine, che e' poi la spinta
al superamento della condizione finita stessa, ma non puo' costituire il
fondamento della persona, come prevede il materialista; parallelamente,
l'esistenzialista parla del limite dimenticando, secondo Capitini, che
questo sorge solo la' dove c'e' la volonta' di superarlo (13). Ma se e' vero
che tali avvertenze critiche permetteranno al Nostro di definire, in
positivo, cosa sia la "fede nel valore", la "vicinanza alla liberta'",
nonche' la "presenza alle persone", e' vero anche che la sua conseguente
concezione del bene si espone ad una possibile critica. Prendendo ad esempio
il concetto di provvidenza, il testo del '41 porta alle estreme conseguenze
l'idea della fede al valore e arriva a dire che, "se io compio una qualsiasi
azione, mi sento certo che essa e' un bene, e il bene dunque c'e'" (14); ma
e' chiaro che l'inferenza del bene dalla semplice certezza soggettiva lascia
delle perplessita'.
*
Se facciamo riferimento ai valori e al legame tra azioni e valori, dobbiamo
chiamare in causa un altro rapporto fondamentale tematizzato da Capitini in
queste sue pagine "minori" eppure cosi' stimolanti, quello tra
responsabilita' e legge. A Guido Calogero, che lo invita a pronunciarsi
sulle questioni dell'etica classica (principalmente sulla dottrina della
virtu'), egli risponde che, in realta', "in noi stessi e' la
responsabilita', la fonte medesima della legge" (15). Ma allora, se e'
proprio nell'essere responsabili il fondamento della legge, l'individuo si
fa persona nel mentre si fa responsabile di ogni suo atto, a monte del quale
vi e' la scelta del valore; quest'ultimo, dunque, implica necessariamente
l'impegno, che e' da considerare e a livello sociale, comunitario (l'uomo
tra gli uomini), e a livello personale, a priori rispetto al mondo esterno
(l'uomo davanti a se stesso). Con intonazioni ancora una volta kantiane,
Capitini pone questo rapporto valore-impegno in stretta relazione con quello
io-tu, perche', se il valore coinvolge un impegno rispetto ad esso, cio' e'
possibile sulla base della presenza di un tu all'esistenza dell'individuo.
Questa e' senz'altro una delle riflessioni piu' alte del testo capitiniano
dedicato al problema-valore della persona e merita pertanto un
approfondimento maggiore. "Si studi pure per lungo e per largo il dramma
dell'individuo, si accumulino i documenti - incalza il Nostro -, tutto cio'
non toglie che possa esser detto all'individuo nel suo dramma un tu
dall'intimo. Questo tu non spunta finche' l'individuo si sente come cosa tra
le cose, vivente tra i viventi, morituro tra i morituri" (16).
L'individualita' viene qui presa ad oggetto per una messa in crisi, ancora
una volta (anche se qui indirettamente), dalla posizione del solipsismo, ma
anche di quella dell'idealismo. Quanto all'individualismo in senso stretto,
sara' qui necessario ricordare che il tu di cui parla questo come tanti
altri luoghi dell'opera capitiniana e' un tu, in definitiva, che "sorge come
presenza esplicita al dramma della persona, che percio' non e' tutto" (17).
Ed il senso, mi si passi la ripetizione, e' tutto in quel "non e' tutto": la
stessa persona, valore primo da porre per una visione che intenzioni
eticamente il mondo (del dramma, ma non solo) dell'uomo, proprio la persona,
valore dei valori, non e' tutto, non e' bastante a se stessa! Capitini
rivoluziona l'orizzonte della concezione della persona ponendo questa come
dipendente, all'interno di una condizione sempre segnata dal negativo, e
dipendente non tanto dall'essere di un tu, bensi' dalla presenza di quel tu
all'esserci della persona stessa. La persona, in ultima analisi, risulta
tale solamente in quanto "oggetto di un atto di tu", quindi vera e propria
sintesi di se' e dell'atto del tu che presenzia al suo esistere, soffrire, e
cosi' via (18); di seguito troviamo l'affermazione che, "quando io definisco
e caratterizzo, e parlo di atto, unita', presente, liberta', etc. parlo di
cose immanenti a me stesso e interessanti me, possibili da me (altrimenti
non potrei nemmeno definirle). Quando io parlo di liberta', tocco cosa che
gia' e' in me e in me si muove, e parlandone come di un valore, assumo
l'impegno di attuarla" (19).
*
Quanto, invece, all'idealismo, la critica capitiniana e' diretta contro la
presunzione di quello di far passare l'ideale per cio' che e' (al posto di
cio' che dovrebbe essere); tale critica si esplicita, nello specifico, nel
corso della discussione avuta dal pensatore umbro con Giuseppe Granata, e si
esplicita con estrema chiarezza: "Il pericolo e' nel prendere la realta'
ideale come essere e non come dover essere" (20). Ribaltando i termini della
questione realta'-utopia, Capitini ravvisa il pericolo piu' grave della
filosofia non nel suo porre l'ideale come imperativo, ma nel suo scambiare
l'ideale per reale, anzi nel suo confondere il piano ideale con quello
effettivo.
In altri suoi interventi, comunque, Capitini torna ad affrontare il problema
delle posizioni dell'idealismo dal punto di vista dei rischi possibili che
da tali posizioni discendono. Ma lo fa gia' approfonditamente nel dialogare
con lo stesso De Ruggiero, specie quando - sempre a chiare lettere - invita
a "far scendere l'idealismo in terra" (21). Non mi pare fuori luogo
ricordare qui una vivace affermazione di Ludwig Feuerbach: "Come e'
sciocco... venerare, come verita' divina, l'idealismo in cielo, cioe'
l'idealismo dell'immaginazione, e respingere invece come un errore umano
l'idealismo in terra, cioe' l'idealismo della ragione!" (22).
In realta', un po' tutte le considerazioni di Capitini sul rapporto tra
idealismo e realta' fanno capo alla riflessione intorno ad un'antitesi
fondamentale, quella di forma e contenuto, presentata anche come opposizione
di conscio e subconscio e simili. Secondo Capitini, va evitato, in primo
luogo, l'accrescimento eccessivo dell'elemento della forma, del conscio
(come del presente e dell'unita') rispetto a quello del contenuto,
dell'inconscio (come del passato e del molteplice); pena la riduzione a
vuota forma, vuoto conscio, ecc. (23). Ma, in considerazione del fatto che
un'eccedenza di contenuto, subconscio e simili condurrebbe ad un pessimismo
accentuato che pare avere, a giudizio di Capitini, tutte le caratteristiche
di un vero e proprio nichilismo, il filosofo perugino si affretta a porre
un'altra questione. Quella del "punto di arresto" nel processo innescato dal
pensiero di un Granata che si era fatto promotore di una sorta di
"pessimismo conoscitivo" lontano dalla morale e dal dovere morale (24).
Affinche' "non si vada nel nulla - e' il monito capitiniano in proposito -,
io pongo... la persona in atto aperta ai molteplici contenuti" (25).
*
Si ritorna cosi', direttamente, al concetto di valore, piu' volte da
Capitini messo in relazione con quello di persona e di liberta' e legato di
per se' ad un atto di fede. "La fede nel valore la raggiungo vivendo
concretamente la vita umana, incarnandomi nei miei sentimenti e nei miei
pensieri, e allora non posso fare a meno di sperimentare il valore della
bellezza nell'intuire, della verita' nel ricercare, della fedelta'
nell'amore, della bonta', della giustizia, etc." (26). Ma la fede nel valore
implica di necessita' la vicinanza alla liberta', la quale si ha nel "porre
delle persone non il loro contenuto, ma la forma del loro agire" (27).
Questa e' una convinzione capitiniana che merita sicuramente un'attenzione
particolare, perche' va presa per nodo cruciale del discorso sui valori,
societa' e visioni del mondo. Vi si puo' ritrovare un Capitini che si
pronuncia contro le ingiustizie sociali e le discriminazioni classiste -
indirettamente - ed anche contro le visioni totalizzanti in genere -
esplicitamente. E infatti egli chiarisce: "Il contenuto la persona, appunto
percha' libera, se lo dara' da se': se io dovessi porre i contenuti sarebbe
questo un infinito quantitativo e totalitario" (28). E' la liberta' della
persona a fondare la scelta dei valori e, mancando la possibilita' personale
di questa, verrebbe meno ogni forma di liberta'. La figura del dittatore (o
del pensiero totalizzante in generale), quindi, ne esce come chiaramente
determinata e caratterizzata dalla volonta' di soppressione non solo della
liberta', ma pure dello stesso "darsi i contenuti", diritto inalienabile di
ogni individuo.
Dalla fede nel valore e dalla vicinanza alla liberta', finalmente, la
presenza alle persone, che "e' il di piu', e' l'aggiunta al loro dramma, e'
il loro interiorizzarle come viventi, come sofferenti proprio come esseri di
finitezza..." (29). Veniva cosi' posta una stretta connessione fra tre
elementi fondamentali del pensiero capitiniano, valore liberta' e persona, e
definita, tra le righe, la vita nei termini di presenza dell'io al tu.
Questa presenza, tra l'altro, si struttura in Capitini sotto forma di piu'
"figure", forse ben rappresentabili da quella del Tu-tutti (o tu-Tutti), e
comunque riconducibili tutte ad un intento fondamentale, quello di
"drammatizzare" nella vita comune, quotidiana, la "realta' di tutti" (30).
Ma perche' una filosofia dei valori ha da occuparsi di tutti? Essenzialmente
perche' tutti sono valori per me. La spiegazione di cio' e' insita in una
nostra contraddizione, in una contraddizione tutta umana di cui soffriamo:
"io supero la mia individualita' isolata e limitata, che cadrebbe come
oggetto, nel portarmi ad essere Soggetto, cioe' presenza eterna di qua dal
mondo; sento anche altre persone individuate dalla parte del soggetto,
mediante l'amore che volgo ad esse come singole: nel tu le faccio io, le
aggiungo al mio io" (31). Proprio qui e' la contraddizione: la scoperta del
fatto esistenziale di non essere soli, per giunta individui finiti e
mortali, non e' ancora identificazione del mio io con l'io di tutti; siamo
ancora su di un piano "assimilatorio", non c'e' unione integrale di persone,
ma, possiamo dire, solo addizione. La contraddizione, svela infine il nostro
autore, "si supera affermando la presenza, non solo la mia e di chi amo, di
coloro a cui ho volto il tu, ma di tutti" (32).
*
E' dunque un atto etico a fondare la mia presenza agli altri, tutti gli
altri, e questo ci conduce a due considerazioni, innanzitutto: a) il
religioso, per Capitini, e' la categoria dell'unione che regola - o, almeno,
dovrebbe farlo - il mondo dei rapporti umani (religio come legame); b) in
una tale concezione, il valore e' eterno, nel senso di antico quanto l'uomo
e sempre presente all'uomo (l'onnipresenza ne fa una costante della presenza
dell'umanita' al mondo).
Quanto al primo punto, la religione di cui ci parla Capitini, da una parte
"e' contrasto col mondo, protesta e tensione al superamento dei limiti di
una realta' insufficiente, urto ai dormienti nell'angustia del gusto
effimero, e' separazione, e' lotta, e' guerra..." (33). Dall'altra, essa e'
cio' che "indica un'unita' piu' profonda, la possibilita' di una vera pace"
(34). Se la religione di cui dicono tante pagine del pensatore umbro non
corrisponde affatto con quella cattolica, e se egli rifiuta decisamente i
canoni fondamentali assunti dalla religione istituzionalizzata in genere, e'
vero anche che una simile concezione del religioso non puo' prescindere
dalla testimonianza dell'impegno concreto di ciascuno nei confronti di
ognuno: l'invito in questione "non e' quello di 'credere per agire', bensi'
l'altro del 'provare per persuadersi'" (35).
Riguardo poi al valore, c'e' ancora da dire che Capitini ha affrontato la
questione del rapporto di questo con l'azione, e lo ha fatto in un suo breve
lavoro, sempre degli anni Quaranta (36). In esso Capitini chiarisce,
preliminarmente, che valore "e' termine moderno per l'antico di Bene. Valore
si puo' definire cio' che e' desiderato (individualmente) e che dovrebbe
essere desiderato (universalmente)" (37). Ma se, secondo lui, va in primo
luogo distinta l'azione - "modificazione della realta'", per iniziativa del
soggetto (38) - dall'atto - "cio' che fa essere" (39) -; e' bene poi, sempre
secondo Capitini, riferirsi all'idea di azione per poter parlare dei valori,
in quanto sempre strettamente connessa, l'idea di azione, al mondo umano;
non cosi', invece, il concetto di atto, legato soprattutto alla tradizione
teologica.
Viene dichiarata qui, pertanto, la preferenza per il termine (e l'idea) di
azione in qualita' di elemento della ricerca eminentemente etica, per poi
definire il "valore centrale" come quello che, "secondo liberta' e
responsabilita', si impegna nei singoli valori, e operando per essi li
immette nella societa', e in tutte le forme, cioe' come valore estetico se
fa dell'arte o la studia, valore di pensiero, valore sociale, etico, etc."
(40).
Dal confronto tra pensiero e azione e dall'incontro tra quest'ultima e il
valore risulta che la fede nel valore, di cui dicevamo, trova nel terreno
della pratica un riscontro ed un significato che non possono essere di tipo
affermativo o di tipo polemico (41): nell'azione s'impone, possiamo dire,
sempre e comunque una certa scelta del valore da incarnare e, con questo,
una scelta di campo. Per questo, infatti, il valore e' eterno; ed anzi, lo
e' proprio perche' coincide con la causa che ci fa accettare di vivere nel
tempo insieme costruendolo (42). Sono i valori a rendere "accettabile" la
vita e l'uomo stesso e' per il valore e, in quanto tale, e' persona (43).
*
Date tali premesse, Capitini arrivera' in seguito a concludere che il valore
ha in se' anche una funzione emancipatrice, perche' esso "e' creazione, e'
liberazione continua dalla schiavitu' ad un'immaginata realta' mostruosa ed
esterna" (44).
Certo, l'affermazione della fede nel valore, di cui abbiamo letto, reca con
se' tutta una serie di problemi: una fede, obietterebbe Emanuele Severino,
e' pur sempre "una certezza smentibile, che potrebbe rivelarsi falsa, e il
cui contenuto potrebbe non convincere piu' chi ne era convinto" (45); e
percio' colui che "ha una fede qualsiasi deve essere cosciente di cio' in
cui egli crede, ma... cio' in cui crede... gli si deve dunque presentare nel
suo esser qualcosa di smentibile" (46).
Capitini, del resto, non si e' tirato indietro la' dove c'era la necessita'
di problematizzare il tema: "Orfeo - nota il pensatore perugino -, quando
col valore del suo canto e' riuscito a vincere la morte della persona amata,
cede al desiderio di vederla e interrompe il canto, si volge e cosi' la
perde. Questa dura legge e' la legge del valore. Esso porta con se' una
severita' invincibile, che lo costituisce: che il valore e' piu' della
realta' che si incontra, con cui si urta e che crediamo ci sazi, mentre non
ci sazia appunto perche' la prima realta' che si incontra non e' il valore"
(47). E poi, vivere un valore e', in Capitini, costruirne uno dialogando con
altri che possono arricchire la mia stessa visione di quel valore; per la
fede nel valore, in definitiva, possono essere ricordate le caratteristiche
che egli attribuisce a quello che chiama "sacro di apertura". Si tratta
dell'assenza di istituzioni o circoli chiusi, negatori della liberta' e
promotori di omologazione e settarismo; della presenza di una lingua comune;
del rispetto delle opinioni di ciascuno, fosse pure il piu' emarginato e
"lontano"; del sentimento della compresenza (tutti ci sono presenti,
sempre); e infine di un altro elemento positivo, assai centrale nell'opera
capitiniana, cioe' della ricerca comune - condotta alla luce di una ragione
coscienziosa oltre che dell'esperienza di chi ci ha preceduto, di "cio' che
e' da fare" e di cio' che non lo e' (48).
*
Note
1. Il problema della persona, appunto, e' il titolo della conferenza: titolo
che dobbiamo, pero', all'"Archivio di Filosofia", mancando di un titolo
proprio il manoscritto, come segnalano i curatori del bel volume antologico
AA. VV., Filosofi nel dissenso. Il "Reale Istituto di Studi Filosofici" a
Perugia dal 1941 al 1943, a cura di E. Mirri e L. Conti, intr. di A.
Montesperelli, Editoriale Umbra, Foligno (Pg) 1986, p. 60.
2. A. Capitini, Il problema della persona, in AA. VV., Filosofi nel
dissenso..., cit., p. 68.
3. Cfr. ibidem.
4. A. Capitini, Discussione, in G. Calogero, Individuo e persona, in AA.
VV., Filosofi nel dissenso..., cit., p. 49.
5. Fra i tre aspetti che la vita concreta, quotidiana, presenta, Capitini
inserisce quello per cui consideriamo le persone - "almeno alcune" - alla
stregua non di mezzi, ma di fini (cfr. ivi, p. 47).
6. Ibid.
7. Cfr. A. Capitini, Il problema della persona, cit., p. 69. In una parola,
lo vedremo piu' avanti, persona e' l'uomo per il valore.
8. Ibid. Abbiamo davanti ai nostri occhi, aveva gia' detto l'autore,
"l'esperienza diretta della propria finitezza, della possibilita' cioe' di
errare e di soffrire: quando questa esperienza e' vissuta realmente, essa e'
di un determinato individuo in un concreto dramma" (ivi, p. 62). La
sottolineatura credo vada ai termini "determinato individuo" e "concreto
dramma", proprio per ribadire come l'accento Capitini lo faccia cadere sulla
natura sempre determinata (e umana) del negativo. Il filosofo scrivera', nel
'47, sempre riguardo alla negativita' del punto di partenza dell'uomo nel
mondo, eppure con tono speranzoso: "Sulla scena sempre un po' fosca del
mondo i fatti riluttano tanto piu' quanto piu' uno rifiuta di un'ispirazione
del valore" (A. Capitini, Saggio sul soggetto della storia [1947], in Id.,
Scritti filosofici e religiosi, a cura di M. Martini, Fondazione Centro
Studi Aldo Capitini, Perugia 1998, p. 222).
9. Sempre in riferimento a tempo e liberta' quali termini della
comunicazione tra gli individui, leggiamo che "la vicinanza dell'atto alle
persone non le supera, le vive nel dramma del tempo e della liberta'; se
l'atto vuole volgersi alla persona, a cominciare dalla propria, non puo' che
farsi presente cosi'. Vivendo gli elementi drammatici che la persona porta
con se', viene eliminata la descrizione e l'impersonalita' da ogni angolo
del reale" (A. Capitini, Il problema della persona, cit., p. 70).
L'indifferenza e' combattuta cosi' a partire dal fatto-valore del dramma
dell'uomo, che viene convissuto grazie alla presenza dell'altro al mio tempo
e alla mia liberta', dove - appunto - tempo e' caducita' e liberta' e'
possibilita' di "errare".
10. A. Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi (1966), in Id.,
Scritti filosofici..., cit., pp. 264-265. Questione di non secondaria
importanza sarebbe quella del ricadere, su di noi, del male compiuto dagli
altri, per cui cfr. ivi, p. 265.
11. A. Capitini, Il problema della persona, cit., p. 67.
12. Cfr. ibid.
13. Cfr. ibid.
14. Ivi, p. 69.
15. A. Capitini, Discussione, in G. Calogero, Individuo e persona, cit., p.
48.
16. A. Capitini, Il problema della persona, cit., p. 62.
17. Ibid.
18. Cfr. ibid.
19. Ivi, p. 63.
20. A. Capitini, Discussione, in G. Granata, Le contrastanti posizioni
teoretiche di Allmayer e Calogero sul problema della persona, in AA. VV.,
Filosofi nel dissenso, cit., p. 59.
21. A. Capitini, Discussione, in G. De Ruggiero, Azione e valore, in AA.
VV., Filosofi nel dissenso, cit., p. 102. Ed anche qui e' chiamata in causa,
stavolta in modo esplicito, la filosofia critica kantiana di contro al
disinteresse dello Hegel verso una "sintesi" di idealismo e realismo. Si
tratta, comunque, di un capovolgimento dell'idealismo che Capitini si augura
possa venir attuato dalla filosofia contemporanea.
22. L. Feuerbach, Grundsaetze der Philosophie der Zukunft, Zuerich und
Winterthur (1843), trad. it. e cura di C. Cesa, Principi della filosofia
dell'avvenire, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 80.
23. Cfr. A. Capitini, Il problema della persona, cit., p. 66.
24. Cfr. G. Granata, Le contrastanti posizioni teoretiche..., cit., p. 58.
´"Solo nella luce della conoscenza - aveva infatti affermato il Granata -,
non della morale, cercheranno gli uomini la pace con se stessi" (ibid.). In
una prospettiva palesemente lontana da quella capitiniana, egli aveva
auspicato che un domani, in un mondo che si interessera' meno di morale,
potesse regnare una morale piu' alta di quella in vigore nel mondo
contemporaneo.
25. A. Capitini, Il problema della persona, cit., p. 66.
26. Ivi, p. 68.
27. Ibid.
28. Ibid. "A me sembra - nota poi - di piu' alto valore porre la tua persona
come libera che determinare il contenuto della tua liberta'" (ibid.).
29. Ibid.
30. Cfr. A. Capitini, La realta' di tutti (scritto nel 1944, ma edito nel
'48), in Id., Scritti filosofici..., cit., p. 214. L'espressione e' della
prefazione che al suo libro il Nostro scrisse, il 22 novembre '64, e che
compare, in nota, nel volume citato, alla fine del testo del '44, La realta'
di tutti appunto, cui l'autore dice di essere molto legato. Non a caso,
questo libro, quarto di quelli ideologici e piu' propriamente antifascisti -
dopo Elementi di un'esperienza religiosa, Vita religiosa e Atti della
presenza aperta - "strutturava organicamente la sintesi del valore e della
presenza, come 'realta' di tutti' che nessuno esclude e la cui unita' e' la
produzione del valore" (ibid.).
31. A. Capitini, Saggio sul soggetto della storia, cit., p. 240.
32. Ibid.
33. A. Capitini, Religione aperta (1955), in Id., Scritti filosofici...,
cit., p. 473.
34. Ibid.
35. F. Truini, Aldo Capitini, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di
Fiesole (Fi) 1989, p. 152. "La vera regola della saggezza pratica - ricorda
John Stuart Mill - non e' quella di rendere egualmente importanti nelle
nostre abituali contemplazioni tutti gli aspetti delle cose, ma di dare la
massima importanza a quegli aspetti che dipendono dalla nostra condotta o
possono esserne modificati. Nelle cose che non dipendono da noi, non e'
soltanto per amore di una vita piu' comoda che e' desiderabile
l'atteggiamento di chi guarda alle cose ed agli uomini di preferenza dal
loro lato gradevole; e' anche allo scopo di poterli amare di piu' e poter
lavorare con maggior lena per il loro perfezionamento" (J. S. Mill, Il teism
o, in Id., Saggi sulla religione (1885), trad. it. e cura di L. Geymonat,
Universale Economica, Milano 1953, p. 151).
36. Si tratta di pochi fogli che documentano una relazione sul tema, con
particolare riferimento alla centralita' del valore nell'agire dell'uomo in
societa': ad essa e' stato dato il titolo (anche in questo caso altrimenti
mancante) de Il rapporto fra azione e valore dai curatori del volume citato
Filosofi nel dissenso.
37. A. Capitini, Il rapporto fra azione e valore, in AA. VV., Filosofi nel
dissenso, cit., p. 108.
38. Cfr. ibid.
39. Cfr. ibid.
40. Ivi, p. 109.
41. Cfr. ibid.
42. Cfr. ivi, p. 110.
43. Cfr. ibid.
44. A. Capitini, Saggio sul soggetto della storia, cit., p. 222.
45. E. Severino, Se la "buona fede" non basta alla morale. L'etica tra
scienza e politica, "Corriere della sera", 6 agosto 2000.
46. Ibid.
47. A. Capitini, Saggio sul soggetto della storia, cit., p 223.
48. A. Capitini, Religione aperta, cit., p. 476.
(Parte prima - segue)

GIUSEPPE MOSCATI: PRESENZA ALLA PERSONA NELL'ETICA DI ALDO
CAPITINI. CONSIDERAZIONI SU ALCUNI SCRITTI MINORI (PARTE SECONDA E
CONCLUSIVA)
[Dal sito www.aldocapitini.it riprendiamo il seguente saggio. La prima parte
abbiamo pubblicato ne "La domenica della nonviolenza" n. 71]

Per meglio comprendere il rapporto che, in Capitini, lega apertura e
compresenza, puo' essere utile rileggere un altro dei testi meno conosciuti
del pensatore della nonviolenza, La religione e la pace, che e' del 1955 e
che riesce a racchiudere nelle sue poche righe alcune indicazioni molto
interessanti. Capitini affronta in questo scritto - in realta' un articolo
de "Il Nuovo Corriere" di Firenze del 28 gennaio - proprio il tema della
ricerca comune della possibile strada di pace, per imboccare la quale - egli
premette - e' necessario innanzitutto abbandonare religioni
istituzionalizzate, da una parte, e roccaforti economico-sociali,
dall'altra.
Il no all'istituzionalizzazione della religione, ovvero alla
cristallizzazione del portato sentimentale dell'uomo, e' chiaro e
inamovibile: "Se si dice che una vivissima forza morale e religiosa posta
nella situazione attuale puo' stabilire un ponte di pace, sta bene; se si
dicesse che il ponte e' costituito dal 'ritorno' ad una concezione
autoritaria e istituzionale della vita religiosa, questo sarebbe errato, ed
equivarrebbe a voler guarire il capitalismo tornando al feudalesimo" (49).
Tanto e' vero che non ci si puo' riferire, per un discorso sulla pace, al
passato, di per se' fitto di guerre e non certo moralmente "superiore" alla
contemporaneita': trarre esperienza dalla storia non equivale, per Capitini,
a prediligere sempre e comunque il passato rispetto al presente, ma, semmai,
a non accontentarsi del presente cosi' com'e' ed a lavorare costantemente
fiduciosi in un possibile miglioramento delle condizioni con le quali
abbiamo a che fare. Non ci troviamo, pertanto, dinanzi al percorso obbligato
del ciclo che ci e' alle spalle, "come se ci fossimo pentiti di avere
scoperto la tolleranza al posto dell'inquisizione, il socialismo al posto
della corporazione, la religione aperta al posto della religione che
imponeva dogmi e leggende, pena la perdita del cielo e della terra" (50).
L'invito dunque e' quello a lavorare insieme per costruire un presente
migliore, aspirando all'apertura dell'"unita' amore per tutti" e guardando
alla verita' come a qualcosa che non e', e non puo' essere, "per tessera o
sacramento" (51). Ma questo, senza peraltro arrivare a mettere contro le
diverse fedi o i loro diversi modelli: la diversita' va colta come ricchezza
di apertura, appunto, e giammai quale terreno di scontro.
Líapertura, allora, e' la forza genuina da opporre a violenza e dominio
della potenza, ed in questo caso essa apertura costituisce un obbligo di
orientamento per ogni comunita', in primis per quella religiosa; per questo
motivo il Nostro non puo' che pronunciarsi incredulo lettore del libro del
gesuita Angelo Brucculeri, Moralita' della guerra, edito da "Civilta'
Cattolica" e confortato dal placet delle gerarchie ecclesiastiche (del '44
e' la quarta edizione), testo che, in realta', e' quanto di piu' ostile
all'idea di apertura. Si tratta di una vera e propria giustificazione
dell'opposta idea di "guerra giusta" (52) e, secondo Capitini,
dell'espressione piu' diretta delle posizioni piu' retrive del mondo
cattolico di quegli anni: vi si trova la legittimazione della guerra
offensiva, della violenza agli innocenti se sorretta da buone intenzioni e
mirante ad effetti benefici (?), e persino la stessa approvazione di
quell'azione che, in generale, abbia due ordini di conseguenze, malefiche e
benefiche, ma parta dalla volonta' di produrre solo le seconde... Quanto al
singolare tentativo del gesuita di giustificare la guerra (e non solo quella
di difesa!) a partire dalle buone intenzioni, si puo' a buon diritto citare
il Capitini del '55: "Si tratta di fare in modo che quel 'fine' non sia un
qualche cosa di dipinto in fondo, interessando invece esclusivamente il
mezzo; ma che quel fine viva gia' nella qualita' e nell'assunzione del
mezzo, e sia la' evidentemente riconoscibile" (53).
Ma la vera polemica dello scritto si sviluppa in particolare riguardo alla
questione della liberta', negata ai cittadini dall'autorita' ecclesiastica,
di optare per l'obiezione di coscienza e di rifiutarsi-opporsi alla
strategia della guerra. Il filosofo denuncia, qui, una chiesa cattolica
avversa all'obiezione di coscienza ed in questo, appunto, conservatrice piu'
che mai. E lo fa, ponendosi coraggiosamente come "rivoluzionario
nonviolento" (W. Binni) e puntando uno scomodo indice su cio' che di
inaccettabile per un libero pensatore - come lui e pochi altri coraggiosi e
come tanti altri che rimangono fermi ad una critica sottovoce - mantengono
quelle istituzioni che dovrebbero offrire tutt'altro. E' doveroso, allora,
ricordare che le conquiste democratiche di oggi sono maturate alla luce
dell'instancabile opera di grandi uomini come il Nostro, che l'affermazione
dei valori fondamentali della nostra vita democratica deve la sua forza
anche agli scritti oggi poco frequentati di pensatori ingiustamente
considerati minori. "Poco nota al di fuori dell'Italia - ha infatti notato
Giovanni Salio - l'eredita' capitiniana e' stata raccolta prevalentemente
dai nuovi movimenti nonviolenti e per la pace italiani" (54). Eppure
Capitini "ha anticipato i principali temi oggi in discussione (difesa
popolare nonviolenta, educazione alla pace, economia nonviolenta, politica e
nonviolenza) e ha gettato le basi sulle quali continuano ad operare i
'persuasi della nonviolenza'" (55).
*
Uno dei suoi messaggi piu' attuali e che dovremmo sentire a noi piu' vicino
credo sia quello che ci invita a guardare agli uomini, non ai regimi o alle
forze economico-sociali che si scontrano sullo scenario politico mondiale di
tutti i tempi. Convinto che non ci si puo' appiattire sull'esistente - "non
si debbono accettare societa' o regimi perche' 'verita' storiche'" (56), e'
una delle sentenze finali de La religione e la pace - il Capitini
propositivo indica quale puo' essere una possibile via di unione tra gli
uomini. L'"apertura a tutti" diventi un abito, uno spirito di disposizione
permanente; la speranza in una "realta' liberata" da violenze e ingiustizie
si estenda a tutti, non escluda nessuno e rifugga da azioni offensive di
ogni genere e da giustificazionismi deleteri (alla Brucculeri); il
sentimento religioso, infine, si faccia portatore di un processo
de-istituzionalizzatore fino a giungere, senza paure, ad identificare Dio
stesso con la pace. Questa strada, se rimarra' aliena dalle piste battute da
chi e' "in cattiva fede" e dagli "interessati" in senso lato (57), potra'
forse "unire tutti coloro che al mondo politico ed economico attuale,
insufficiente e fremente di guerra fredda o calda, portano una libera
aggiunta religiosa" (58). Ribadendo cosa e' religione per il filosofo
nonviolento, leggiamo un altro passo assai significativo di Religione
aperta: "La vita ama e segue i forti, l'atto religioso cerca gli umiliati e
gli offesi, gli storpiati, gl'impalliditi. La vita vuole disfarsi dei vecchi
perche' essa non sa quello che fa: l'atto religioso e' qui ad una delle
prove fondamentali di apertura alla realta' liberata per tutti" (59).
La religione, in definitiva, e' quell'atteggiamento di nonviolenza e cura
nei riguardi di tutti gli esclusi dalla grande storia, dal processo vitale
"maggiore", dalle vittorie di classe, dai giochi di potere, ma innanzitutto
dalle regole di base della natura. I condannati dal darwinismo, come li
potremmo chiamare, trovano la loro unica tutela nella cura "religiosa" di
chi, senza contravvenire alle leggi dell'ordinamento naturale delle cose,
aggiunge qualcosa in piu' (che poi e' molto in piu') allo stato dei fatti,
alla mera datita' biologica. E, per questo, religione non e', secondo
Capitini, cio' che e' rivolto al cielo, bensi' cio' che guarda agli uomini,
qui davanti a noi, cio' che produce impegno qui in terra ed in questa vita:
la vera salvezza e' nell'unita' di amore contro i mali della vita come la
concreta divinita' e' la pace tra gli uomini (60).
E' la pace, allora, il fine possibile dell'azione umana, non tanto a partire
da un pensiero di tipo escatologico classico, ma in virtu', forse, di un
forte atto di presenza ai valori, di testimonianza attiva delle grandi
potenzialita' valoriali dell'universo uomo; solo l'esperienza reale del
valore rende questo sempre vivo, ma solo grazie alla "apertura che comprende
il sacrificio e la speranza, perche' anche la pace costa" (61). Ecco la
"decisione attiva" che ci presenta il nostro autore, decisione da
"'volontari della nonviolenza', contro l'opportunistica scelta del 'male
minore'" (62).
*
L'opportunismo di cui il Nostro taccia la scelta di chi opta per il male
minore e' il peggior nemico di un reale mutamento delle cose. L'anno prima
di scrivere La religione e la pace, e cioe' nel 1954, Capitini era
intervenuto a proposito dei programmi teorici e dell'operato del "Terzo
Campo", una sorta di associazione con aspirazioni di diffusione mondiale e
nata da un gruppo originario di pacifisti gandhiani (radicali), operanti
negli Stati Uniti e via via collegatisi ad altri gruppi di gandhiani,
pacifisti, socialisti... Egli si era espresso a favore della Dichiarazione
(del 4 ottobre '53) e dei seminari-conferenza (inizialmente triennali)
tenuti da tale gruppo sul tema fondamentale dell'abolizione della guerra, e
si era dichiarato fiducioso nel cammino di una simile "terza posizione"
rispetto agli opposti totalitarismi americano e comunista; ma pure si era
mostrato dubbioso riguardo a tre "punti deboli" del Terzo Campo. Tra questi,
quello che in sostanza attiene al programma pratico e che ricade, appunto,
sul pericolo della via del male minore; il rischio, per Capitini, viene
dalla tentazione di accentuare il punto della "difesa della liberta'" a
discapito di altri due nodi centrali, ovvero la promozione di un'economia di
tipo socialista "dal basso" e la stessa "rivoluzione nonviolenta":
accentuando l'aspetto della difesa della liberta', infatti, c'e' solo da
aspettarsi "uno squilibrio e, in fondo, un ritorno a qualche cosa di
conservatore, accontentandosi di la' dove c'e' un po' piu' di liberta',
scegliendo il 'male minore'" (63). E quella del male minore non e' altro che
una "teoria non adatta a chi mira ad un rinnovamento profondo" (64):
inseguire quel "po' di piu' di liberta'" puo' voler dire rinunciare al
grande progetto di una "socialita' nuova" che non ritorni all'aristocrazia e
vada oltre la democrazia (verso l'omnicrazia), desistere dall'agire "dal
basso" in opposizione al gerarchico, conservatore e reazionario concetto di
"alto" e, in breve, sacrificare la stessa idea di "apertura a tutti" (65).
Capitini non si accontenta ed invita apertamente il Terzo Campo a non farlo.
Egli ricorda che la novita' del pacifismo contemporaneo e' nell'operare al
di fuori delle istituzioni esistenti - la Societa' delle Nazioni e' idea
vecchia ed insufficiente -, nella consapevolezza che le Nazioni Unite non
costituiscono un efficace baluardo contro la possibilita' di una tragica,
terza guerra mondiale: la strada da seguire, allora, non puo' che essere
quella di un "federalismo nonviolento dal basso" (66).
D'altra parte, gia' l'obiezione di coscienza e' (e deve essere) innanzitutto
un atto contrario all'autorita' ed all'istituzione, e semmai richiama il
valore delle leggi non scritte che si possono far risalire all'Antigone, cui
Capitini fa riferimento (67). L'obiezione e' senz'altro legata al
valore-responsabilita' della coscienza e si basa sull'impegno "per un motivo
universale... sia esso religioso, morale, sociale" (68), ponendo la
nonviolenza anche come mezzo oltre che come fine (69).
Il movimento di coscienze e di intellettuali attorno ai temi della pace e
della coesistenza fraterna fra i popoli, dell'obiezione di coscienza, dello
stesso metodo nonviolento porta il Nostro a sperare nell'avvento di un
"nuovo cristianesimo", non piu' pensiero esclusivo e "da rivelazione",
bensi' fatto di gente, di persone che si incontrano in campo comune ed
equidistante dalle fedi particolari: un cristianesimo finalmente corale
(70). Non si tratta, dunque, di istituire una nuova palingenesi morale e
spirituale, si tratta semplicemente di ascoltare i bisogni di ognuno, anche
la voce piu' flebile al mondo, per rendersi conto che la coscienza dell'uomo
rifiuta lo stato di minaccia bellico e con esso tutti i suoi satelliti
ideologici, se mi si passa l'espressione. Che sono, all'epoca, il
maccartismo e la difesa dei propri interessi economico-sociali (vale a dire
di quelli della classe dominante americana), lo stalinismo (71), ma anche la
"cultura" fascista, le tattiche opportunistiche della Chiesa di Roma e la
stessa filosofia "alle nostre spalle" (72); e che sono, ancora, minacce
purtroppo sempre riemergenti: il colonialismo, le discriminazioni sociali,
religiose, politiche, razziali, ecc., il protettorato...
*
Da "indipendente di sinistra", Aldo Capitini si pone come difensore delle
liberta' civili, ma difensore consapevole dell'importanza di accompagnare
una tale difesa con il metodo gandhiano di nonviolenza e cooperazione, e di
coniugare la lotta socio-politica con l'atto dell'aggiunta. La ferma e
radicale rinuncia all'uso della violenza e' fondamentale (73), e lo e' al
fine di mirare con ottimismo alla formazione di una comunita' aperta che sia
raggiungimento di "una societa' dal basso, aperta a tutti e a tutti i
valori, di massima verticalita' e massima orizzontalita', di la' da ogni
privilegio e ogni discriminazione" (74).
E "la nonviolenza non e' una legge, ma un valore, e quindi un creare, che
puo' ampliarsi ed essere meglio realizzato e portato avanti" (75): essa non
puo', pertanto, essere imposta, essendo figlia di un certo relativismo
culturale di fondo. Per il quale non e' da assolutizzare ne' un evento
storico, ne' una cosa ne' una persona, come non e' da accettare alcun tipo
di rivoluzione violenta, seppure questa dovesse recare conseguenze positive
(76).
*
Tornando alle iniziative e alle idee del Terzo Campo, esse rappresentano,
secondo il Capitini della prima meta' degli anni '50, l'orizzonte di una
possibile fuoriuscita dalla situazione di emergenza della guerra fredda e,
allo stesso tempo, di uno sperato ingresso nell'era della pacificazione
mondiale tra le nazioni in chiave antimperialista e nella piena
esplicitazione dei valori della democrazia. Anzi, le stesse liberta'
individuali possono essere davvero tutelate nell'ottica di una reale
estensione, in senso capitiniano, del patrimonio ideologico-culturale della
democrazia; ma cio' comporta il lavoro in direzione di una limitazione del
sistema capitalistico - specie nei suoi aspetti di teoria indifferente alla
persona - e di una chiara opposizione all'assolutismo statale e alla
conservazione sociale (77). Sperando nella formazione di un "movimento
rivoluzionario internazionale nonviolento" che non si accontenti ne' del
sistema sociale del capitalismo ne' di quello dello stalinismo a favore di
un'economia socialmente diretta.
Capitini credeva raggiungibile uno stato di disarmo delle potenze e delle
menti: per fermare la preparazione delle guerre si deve cominciare dal
rifiuto di appoggiare qualsiasi politica estera che contempli la violenza
tra le sue possibili strategie d'azione. Ogni popolo, ribadisce il filosofo
commentando il Convegno di New York del novembre '53, possiede l'inviolabile
diritto all'indipendenza dal controllo e dall'ingerenza stranieri, siano
essi di tipo militare, politico, economico o culturale (78).
Ma alla lotta nonviolenta di gandhiani e pacifisti in genere, secondo lui,
e' piu' che preziosa l'alleanza con i socialisti, indipendenti e libertari,
ricchi di una storia politico-culturale aliena da strategie di guerre e
violenze (79); rimane, poi, il fatto che il Terzo Campo non puo' limitarsi
ad essere terza forza tra i due blocchi: esso non puo' solo opporsi, ma deve
anche porsi, e porsi quale "meta di un ordine nuovo, libero, umano e
democratico" (80).
Allora il sogno capitiniano di qualcosa di piu' di uno stato di non
belligeranza, e quindi di una nuova concezione della vita, ritrova le sue
componenti concrete nell'impegno per la nonviolenza e nelle lotte per
l'obiezione di coscienza nonche' per una riforma religiosa sincera, ma anche
negli incontri-discussione per l'unione di Occidente e Oriente asiatico,
nelle esperienze di C.O.S. e C.O.R., nelle battaglie per il
liberalsocialismo... (81). Confrontandosi con tematiche riguardanti la
"salute" del mondo intero, Capitini si misurava con la contemporaneita',
quella politica, quella economica, quella degli intellettuali, ma sempre
anche con quella degli ultimi.
*
Note
49. A. Capitini, La religione e la pace, "Belfagor", X (1955), fasc. 2, p.
1. E, incalza poco dopo il Nostro, "Kant e Mazzini sono un progresso immenso
su S. Tommaso e Innocenzo III" (ibid.).
50. Ibid.
51. Cfr. ivi, p. 2.
52. Quella di Capitini e' una nuova opposizione alla visione del mondo
propria di Cicerone e, per esso, della romanita' (si veda S. Weil): oltre a
respingere infatti il modo di concepire la religione dell'oratore romano,
egli attacca esplicitamente la teoria della "giusta guerra" come dottrina
ciceroniana.
53. A. Capitini, Religione aperta, cit., p. 587.
54. G. Salio, Le tecniche della nonviolenza, "Il Ponte", LIV, n. 10 (ottobre
1998), p. 53.
55. Ibid.
56. A. Capitini, La religione e la pace, cit., p. 2. Ma il non accontentarsi
della realta' cosi' come ci si presenta dinanzi e' strettamente connesso,
nell'opera capitiniana, al recupero della centralita' dell'immanenza.
Proprio dove Capitini tratta della trascendenza, non si lascia sfuggire
l'occasione di rivendicare "le ragioni dell'immanenza in quanto accettazione
del mondo nel quale l'uomo si trova ad operare, ma pone l'esigenza del
trascendimento come 'apertura religiosa dell'uomo...'. Il trascendimento e'
un superamento 'di questa realta' insufficiente, il costituirsi di un
realizzarsi liberato, l'Unita'-amore di tutti, nessuno distrutto e tutti
liberi e cooperanti nella compresenza'" (M. Martini, Nota del curatore, in
A. Capitini, Scritti filosofici..., cit., p. 462). Le parole del Capitini
sono tratte dal testo del '55 Religione aperta.
57. E con questi i sostenitori di particolarismi, assolutismi, separatismi,
gli artefici di discriminazioni, demonizzazioni, ecc.
58. A. Capitini, La religione e la pace, cit., p. 3.
59. A. Capitini, Religione aperta, cit., p. 494. La religione e'
quell'atteggiamento, dinamico e realistico, di chi non riesce ad
accontentarsi del negativo del mondo (cfr. ivi, p. 483), ma anche di chi,
riconoscendo il grande valore del laicismo, spera di poter aggiungere ad
esso ed alle sue conquiste qualcosa d'altro, che e' "in piu'" e non "contro"
(cfr. ivi, p. 568). Cio' che la religione assolutamente non e' (non dovrebbe
essere) attiene al mondo delle superstizioni, dei dogmi e delle esclusioni
da ipotetici paradisi da elite. Si veda, per questo, almeno il passo in cui
l'autore riconosce al materialismo storico il merito di aver contrastato e
negato la dottrina della salus "personale e isolata" del fedele (cfr. ivi,
p. 591). Ma si rilegga anche la lucidissima lettera (vanamente) indirizzata
all'arcivescovo di Perugia, Pietro Parente, il 27 ottobre 1958: "La
religione non deve essere divisione, ma aggiunta, aggiunta e apertura
continua a tutti, quale che sia il loro agire, la loro opinione, la loro
fede e i loro sacramenti o non sacramenti" (A. Capitini, Lettera
all'Arcivescovo di Perugia, in Id., Battezzati non credenti, Parenti
Editore, Firenze 1961, pp. 19-20).
60. Quando Capitini parla di coesistenza, "costruttiva di pace" e
"nell'amore" (cfr. A. Capitini, La religione e la pace, cit., p. 3),
presupponendo la liberta' dell'atto dell'aggiunta (che, tra l'altro, ha in
lui piu' significati e valenze) e chiarendoci appieno il rapporto tra pace
ed atteggiamento "religioso", inevitabilmente mi fa pensare a Karl Jaspers:
"solo dopo che ci siamo resi conto della nostra colpa, diventiamo
consapevoli della solidarieta' e della corresponsabilita' senza di cui non
e' possibile la liberta'" (K. Jaspers, Die Schuldfrage, R. Piper & Co.,
Muenchen 1965; trad. it. di A. Pinotti, La questione della colpa, Raffaello
Cortina Editore, Milano 1996, pp. 129-130). Ed anzi, la stessa liberta'
politica "comincia la' dove, nella maggioranza della popolazione, la persona
singola si sente responsabile per la politica della sua comunita'" (ivi, p.
130).
61. A. Capitini, La religione e la pace, cit., p. 3.
62. Ibid.
63. A. Capitini, Problemi del "Terzo Campo", "Il Ponte", X, n. 10 (ottobre
1954), p. 1661.
64. Ibid.
65. Cfr. ibid. In un senso che e' politico e religioso insieme, il filosofo
ritrova una simile idea di apertura in quell'"intima realta'" che riesce ad
unire il vivo ed il morto, come cio' che e' vicino con cio' che e' lontano:
e' questa la "realta' di tutti" (lo stesso valore e' prodotto "da un intimo
che e' la presenza eterna di tutti": A. Capitini, La realta' di tutti, in
Id., Scritti filosofici..., cit., p. 188). Accanto a questa realta', un
sincero e disinteressato spirito gandhiano dovrebbe perseguire la
nonmenzogna e la nonviolenza, appunto, ma pure la non accettazione della dot
trina della dannazione eterna e la trasformazione delle attuali condizioni
dell'uomo e del mondo in condizioni "liberate" dal negativo nei suoi
molteplici aspetti (cfr. A. Capitini, Problemi del "Terzo Campo", cit., p.
1661).
66. Cfr. ibid. Un'unione, pero', che, agendo dal di fuori delle strutture
istituzionali, non ricalchi i modi operativi di quelle passate ed esistenti
(cfr. ibid.).
67. Cfr. ivi, p. 1654.
68. Ibid.
69. Cfr. ibid. Discutendo dei problemi della nonviolenza, tra l'altro,
l'autore ribadisce la sua "fede" gandhiana anche in questo luogo "minore":
"Autorita', disciplina ferrea, attentato, colpo di mano, procurarsi armi,
menzogna e spionaggio, tortura, eliminazione degli avversari attuali e
probabili, machiavellismo, ecc., non si superano se non col metodo
gandhiano" (ivi, p. 1661).
70. Cfr. ivi, p. 1654.
71. Il quale, notava Capitini, non era certo garanzia di un mondo migliore e
piu' libero, riproponendo, in definitiva, totalitarismo e collettivismo di
Stato. Se gli Stati Uniti proponevano un modello politico che non favoriva
in alcun modo i "movimenti rivoluzionari" o comunque di cambiamento perche'
di stampo imperialista, il Comunismo non faceva che irreggimentare le masse
in "enormi macchine da guerra" e, nonostante avesse riconosciuto il
significato della "grande rivoluzione popolare", finiva per tradirne le
aspirazioni ad una "libera societa' dell'avvenire" con il suo metodo
sostanzialmente antidemocratico. Per questo, cfr., in particolare, ivi, p.
1655 e 1657.
72. Cfr. ivi, p. 1658. Da qui credo si possa spiegare il recupero
capitiniano di tanto laicismo, sulla scorta delle cui esperienze e battaglie
ha da muoversi, secondo il Nostro, l'uomo "coscienzioso" di oggi.
73. A tale riguardo, c'e' da dire che Capitini esprime i propri dubbi sulla
sopravvivenza del Terzo Campo in quanto avente al suo interno individui
favorevoli all'uso della violenza contro gli altri due "campi", l'americano
e il sovietico (cfr. ivi, p. 1661). Ma accettare la strategia violenta e
ricalcare la scelta bellica vuol dire ritornare "a tutti i modi della
vecchia politica che un gandhiano voleva superare, e, in fondo, anche il
Terzo Campo" (ibid.); perche' non ci puo' essere affatto indifferente il
come si acquista il potere e si rovescia l'esistente (cfr. ivi, p. 1657).
D'altra parte, l'indicazione di Capitini e' sempre stata quella del
guardarsi dal pericolo dei "vecchissimi strumenti" quali la tortura e il
machiavellismo, la violenza e l'oppressione, la menzogna e il dispotismo
poliziesco, ecc., al fine di non cadere nell'illusione di poter ottenere un
"nuovo" auspicabile giustificando con il fine qualsiasi mezzo (cfr. A.
Capitini, Religione aperta, cit., p. 587). Sulla base dell'interesse
attribuito dal Nostro al come si perviene al potere, possiamo definire la
scelta dei mezzi come una scelta, in Capitini, di vitale importanza: "si
mette un ideale pur nello scegliere i mezzi" (cfr. A. Capitini, Elementi di
un'esperienza religiosa, in Id., Scritti filosofici..., cit., p. 11) e con
l'uso di un determinato mezzo diciamo del valore dell'idea che vogliamo
difendere e affermare.
74. A. Capitini, Problemi del "Terzo Campo", cit., p. 1658. Ma una societa'
che si muova, naturalmente, in "forme nuove di controllo comune a tutti" e
si mantenga lontano dalle "vecchie forme di potere" (cfr. ibid.).
75. A. Capitini, Religione aperta, cit., p. 559.
76. Cfr. ibid.
77. Cfr. A. Capitini, Problemi del "Terzo Campo", cit., pp. 1655-1656.
78. Cfr. ivi, p. 1656.
79. Vengono qui, pero', messi in evidenza i limiti dei partiti socialisti
dell'epoca, riassumibili nel fatto che, dopo una prima fase caratterizzata
dalla volonta' di rivoluzionare le vecchie strutture sociali, finiscono per
"adagiarsi" su queste (cfr. ivi, p. 1659). Anzi, riprendendo A. J. Muste,
presidente del Comitato del Terzo Campo, Capitini constata con amarezza che
in una societa' come quella occidentale "non si puo' prendere il potere, per
non identificarsi con vecchie strutture; ma dobbiamo lavorare perche' la
situazione (e la nostra vita) si trasformi" (ibid.).
80. Cfr. ivi, p. 1657. Capitini coglie, inoltre, l'occasione per ricordare
come il mondo anglo-americano del Terzo Campo confermi l'attualita' di tante
pagine del suo testo del '37, Elementi di un'esperienza religiosa (cfr. ivi,
p. 1658).
81. Come "io l'intesi - leggiamo sempre da Problemi del "Terzo Campo" -, non
in senso laburistico (pur rispettabile), ma come massimo socialismo
economico e massima liberta' giuridico-culturale..." (ivi, p. 1658).
(Parte seconda - fine)

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