Mario Gozzini Ricorda Lorenzo Milani (1997)

[Dal mensile "Jesus", n. 6, giugno 1997, col titolo "Lorenzo Milani. Il
ribelle obbediente" e il sommario "A trent'anni dalla morte, il priore di
Barbiana rimane un segno di contraddizione sempre vivo. Il suo
anticonformismo fu scambiato per dissacrazione; in realta' contestava i
falsi valori della societa' borghese, ma per educare a valori piu'
autentici, alti e universali. La sua lezione resta ancora oggi un antidoto
efficace contro l'idolatria del mercato. Quanto ai suoi contrastati rapporti
con l'autorita' ecclesiastica, le sue diagnosi si sono rivelate esatte,
tanto che il Concilio le ha fatte proprie"]


I. Il ribelle obbediente
Don Milani! Chi era costui? E' il titolo dell'ottimo libro di Giorgio
Pecorini (Baldini & Castoldi, 1996, pp. 420, lire 28.000), l'ultimo
arrivato, per ora, ad accrescere la gia' copiosa messe di studi sul priore
di Barbiana. L'interrogativo manzoniano e' perfettamente appropriato, anche
se, com'e' ovvio, fra Carneade e don Abbondio, da una parte, e don Lorenzo,
dall'altra, non c'e' proprio nulla in comune. Appropriato perche', a
trent'anni dalla morte, non abbiamo ancora una risposta univoca, definitiva,
condivisa da tutti. In vita si scontro' con i superiori ecclesiastici e con
i tribunali civili che lo processarono per apologia di reato (l'obiezione di
coscienza) mentre la cultura laica tendeva a esaltarlo, sia come "prete
contro", sia come testimone attivo e propugnatore di una scuola diversa,
meno attenta ai Pierini figli di papa' e piu' ai Gianni proletari,
emarginati a causa di un ambiente familiare che non li aiutava per nulla a
crescere in coscienza, responsabilita', padronanza della parola: fino a fare
di lui addirittura un precursore del Sessantotto.
Oggi la situazione appare in qualche modo rovesciata: l'obiezione di
coscienza al servizio militare ha avuto riconoscimento giuridico in una
legge del 1972, appena cinque anni dopo la morte di Milani, e i tribunali
non avrebbero piu' alcun motivo di perseguirlo per averla anticipatamente
difesa; quanto all'autorita' ecclesiastica, Esperienze pastorali, il libro
che nel 1958 l'allora Sant'Uffizio fece ritirare dal commercio, se lo si
rilegge ora, ci si accorge che vi si trovano diagnosi, ruvide, si', nella
forma, ma esatte nella sostanza, talche', di li' a poco, il Concilio le
avrebbe fatte proprie, ristabilendo con la riforma liturgica la centralità
dell'Eucaristia, laddove i buoni cattolici di San Donato a Calenzano (Milani
vi fu mandato cappellano, quasi subito dopo l'ordinazione, salvo un
brevissimo incarico nella parrocchia di Montespertoli) nel loro
analfabetismo religioso partecipavano puntuali e compunti al Vespro e alla
Processione per il santo patrono ma disertavano la messa: proprio questo
squilibrio intollerabile era stigmatizzato nel libro.
I contrasti col vescovo non avevano mai investito questioni di ortodossia,
bensi' soltanto il voto alla Dc e un certo modo non del tutto passivo di
intendere l'obbedienza; la punizione dell'esilio a Barbiana (parrocchia
dell'Alto Mugello destinata alla chiusura per spopolamento, e tenuta aperta
solo per confinarci lui) s'era risolta in un boomerang perche'
l'intelligenza tenace, forse imprevedibile, di don Lorenzo riusci' a far
fiorire il deserto e a rendere il nome di Barbiana un riferimento prezioso
per chiunque, credente o no, rifiuti di rassegnarsi all'esistente.
D'altronde l'attuale arcivescovo di Firenze, il cardinale Silvano
Piovanelli, ha detto e fatto quanto gli era possibile per restituire al suo
antico compagno di seminario quell'onore ecclesiale che il suo predecessore
gli nego'.
Al contrario, la cultura laicista - non tutta, solo qualche frangia - tende
oggi a mettere in dubbio la validita' della sua esperienza e a darne giudizi
drasticamente negativi, anche con falsificazione di dati (come ha fatto
Sebastiano Vassalli, celebrato scrittore; Pecorini lo dimostra nel suo
libro). E ci sono ancora cattolici laici, come Irene Pivetti, che non
perdonano a don Lorenzo la sua singolarita' di obbediente-disobbediente, e
altri che, invece, non gli perdonano l'obbedienza, di non averla trasformata
in ribellione e distacco. Certo e' che il priore di Barbiana fu, e rimane, a
trent'anni dalla morte, un segno di contraddizione sempre vivo e
interpellante.
A parte quella piu' appariscente di ribelle-obbediente, lo si e' accusato di
illuminismo, ma la sua fede rocciosa, il suo bisogno della Chiesa, il suo
amore alla "ditta" di appartenenza (come la chiamava, a seguito di quella
vena ironica, molto toscana, che e' un aspetto non marginale del suo
carattere e della sua scrittura) dimostrano una spiritualita' incontenibile
nei confini della pura ragione (anche se di questa ampiamente si avvaleva,
come del resto, cattolicamente, e' non solo legittimo ma doveroso); lo si e'
dipinto come un sovvertitore di costumi e un corruttore di giovani, mentre,
da un lato, il suo rigore estremo, didattico, e morale, balza fuori dagli
scritti con intransigente evidenza, dall'altro, la sua scuola ha formato, di
ragazzi analfabeti e isolati fra boschi e pecore, cittadini consapevoli e
impegnati, educatori a loro volta, nella scuola e nel sindacato.
Il suo anticonformismo fu scambiato per dissacrazione; in realta', egli
dissacrava, si', gli pseudovalori della societa' borghese (a cominciare dal
militarismo e la guerra), ma per educare e richiamare a valori piu'
autentici, piu' alti, piu' universali; dissacrava e stigmatizzava, si', un
certo modo di essere Chiesa ma per una piu' profonda fedelta' all'annuncio
cristiano (cio' che fu, in definitiva, il fine del Concilio, esplicitamente
dichiarato). Non c'e' dubbio, pare a me, che la lezione di don Milani sia un
antidoto tra i piu' efficaci contro l'idolatria del mercato e del consumo,
rivincita rischiosa della cultura illuministica e borghese nella società
d'oggi.
Ma la contraddizione di fondo, rispetto a chiunque si pieghi a compromessi
con quelle che Giovanni Paolo II ha definito "strutture di peccato", sta in
quel che si potrebbe anche dire il suo integralismo esistenziale (che non ha
proprio nulla da spartire con l'integralismo negatore di laicita'). "Io non
vendo le mie singole prestazioni ma la mia vita intera a una comunita'
intera". O ancora, in una lettera alla mamma: "Non sono contento se la mia
vita non ha ogni attimo la stessa intensita'... Io son sereno solo quando
son sempre intonato con ogni evenienza. Cioe' quando il mio pensiero o
attivita' non stona con nulla d'altrui che possa accadere".
E l'evenienza, nel caso concreto, era un giovane morente di cancro, cui don
Lorenzo fece da padre, da infermiere, da prete. Questa ricerca d'essere
"sempre intonato" faceva da contrappeso a quel suo estremismo che cacciava
dalla scuola, anche in malo modo, chi ci veniva con sussiego, chiuso nelle
proprie sicurezze. Anche a proposito dell'obiezione di coscienza - la cui
difesa gli sarebbe costata una condanna penale, come a padre Balducci, se il
reato non si fosse estinto per morte dell'imputato - egli non era affatto
estremista, non ne faceva un assoluto, anzi mostrava un raro equilibrio
relativizzante. Cosi' scrive a uno dei suoi ragazzi a disagio nel servizio
militare: "Di fronte alla chiarezza universale della frase 'il cristiano
deve rifiutarsi di incendiare un villaggio con donne e bambini' stonerebbe
la frase 'il cristiano deve rifiutarsi di mettersi sull'attenti'". Non
conformista, certo, ma nemmeno, altrettanto certamente, anarchico.
Ma chi era, chi e' don Lorenzo Milani? Cominciamo dalla scuola. Perche', da
cappellano a San Donato, poi, con ancor piu' assoluta assiduita', a
Barbiana, intese come impegno primario di prete quello di dare alla gente,
di cui era spiritualmente responsabile, il massimo possibile di
acculturazione, non solo nel senso di conoscenza ma anche in quello di
capacita' critica? Di fare lui, insomma, cio' che la scuola istituzionale,
mal frequentata o escludente, non sapeva fare? Perche' non si contentava, da
"buon prete", di amministrare dottrina e Sacramenti, ma diceva che "per ora"
non faceva "con convinzione altro che scuola"?
La risposta e' chiara, ce la da' lui stesso in Esperienze pastorali: e'
l'analisi penetrante di un popolo che si dice cristiano ma in cui la fede e'
ridotta ad abitudine, a imitazione di quel che fanno tutti, ad aggregazione
passiva, privata del benche' minimo senso di una comunita' credente che
nasce dalla, e culmina nella, liturgia eucaristica. Si badi: don Lorenzo non
allude a quel fenomeno che piu' tardi si dira' secolarizzazione (La citta'
secolare del pastore battista americano Harvey Cox, prima diagnosi specifica
ed esatta del fenomeno, e' del 1965: egli non fece a tempo a conoscerla),
mette a nudo piuttosto un sottosviluppo e uno squilibrio nella fede che
hanno radici remote, prima delle quali la mancanza di un alfabeto che renda
possibile la comprensione e l'accoglienza del messaggio.
Un altro prete, anzi la stragrande maggioranza dei preti, se ne
accontentava, non avvertiva il problema; don Lorenzo si', e con acuta
sofferenza si chiede cosa c'e' di comune fra lui e quella gente fatta cosi'.
"Ci manca anche il linguaggio col quale qualcosa di comune, se non c'e'è, si
crea". Conseguenza non eludibile, per un uomo e un prete come Milani, "la
scuola, in questo popolo e in questo momento, non e' uno dei tanti metodi ma
mezzo necessario e passaggio obbligato ne' piu' ne' meno di quel che non sia
la parola per i missionari dell'Istituto Gualandi o la lingua per i
missionari in Cina". Aveva tuttavia, di questo suo convincimento, una
coscienza critica: "Non che io abbia della cultura una fiducia magica, come
se essa fosse una ricetta infallibile, come se i professori universitari
fossero automaticamente tutti piu' cristiani e avessero il Paradiso
assicurato mentre il Paradiso fosse precluso agli incolti pecorai di questi
monti. E' che i professori se vogliono possono prendere in mano un Vangelo o
un Catechismo, leggerli e intendere. Dopo poi potranno fare il diavolo che
vorranno: buttarli dalla finestra o metterseli in cuore, s'arrangino, se
sceglieranno male peggio per loro. Ma qui e' diverso. Fai conto che qui io
mi trovi in un istituto pieno di sordomuti non ancora istruiti. Che ne
diresti se pretendessi di evangelizzarli senza aver prima dato la parola? I
missionari dei sordomuti fanno cosi'. Fanno scuola della parola per anni e
poi dottrina per poche ore. E il loro agire e' logico, obbligato,
perfettamente sacerdotale". Ne' c'era in lui l'orgogliosa pretesa di imporre
la sua scelta personale, legata alla realta' trovata a Barbiana, a tutti i
suoi confratelli. C'e' una nota che spiega: "Ho detto hic et nunc e nulla
piu'. Quelli dunque che hanno popoli diversi in cui i problemi si presentano
in modo diverso mi lascino dire. Non entro nei fatti loro. Cio' che dico
servira' per quelli che intravedono nel loro popolo situazioni analoghe a
questa". Allora l'affermazione che la scuola gli e' "sacra come un ottavo
sacramento" appare meno azzardata, anzi coerentissima col mandato pastorale
da don Milani accolto con serieta' assolutamente responsabile. Soltanto la
rassegnazione a lasciar concepire i sette sacramenti canonici come atti
sacro-magici preclusi al loro senso autentico puo' indurre a pensare che la
scuola sia un arbitrio, un capriccio e non una premessa e uno strumento
indispensabili. Proprio siffatta rassegnazione don Milani non sopportava e
in questo senso, si', era un rivoluzionario, "rompeva le scatole", ossia gli
schemi mentali del clero cui apparteneva. Gia' questo era un fattore di
contrapposizione e, al limite, di ostilita' piu' o meno latente fra i suoi
confratelli preti.
A ben guardare, peraltro, nessuno puo' onestamente negare che la scuola, per
Lorenzo, avesse una motivazione direttamente pastorale, religiosa: l'accusa
di illuminismo era davvero, questa si', del tutto arbitraria, cervellotica:
il priore di Barbiana vedeva nella scuola nulla piu' che uno strumento,
preliminare e obbligato, per svolgere meglio, piu' efficacemente, il mandato
ricevuto. Non attribuiva alla scuola funzioni e finalita' immediatamente
evangelizzanti: si rendeva ben conto che, con essa, "non li potro' far
cristiani ma li potro' far uomini, a uomini potro' spiegare la dottrina...".
E chi sono gli uomini degni di questo nome? Risposta: "Chiamo uomo chi e'
padrone della sua lingua".
Qui veniva, ma solo come conseguenza secondaria, l'aspetto sociopolitico
della scuola milaniana: dare la padronanza della parola voleva dire, anche,
porre le premesse per una rivoluzione culturale negli alunni, non piu'
rassegnati ad accettare lo stato delle cose, la loro condanna al silenzio e
all'ingiustizia. Donde la ribellione alla scuola istituzionale che faceva
ponti d'oro ai fortunati e respingeva, di fatto, i figli dei poveri. Don
Milani insegnava a criticare, a protestare - sempre in modo nonviolento, va
ribadito - contro la burocrazia oppressiva e per far valere i propri
diritti. Si puo' dire che non era un insegnamento mai direttamente politico,
in senso partitico; era piuttosto qualcosa di prepolitico, si direbbe oggi,
verso la presa di coscienza che certi problemi sono propri anche di altri. E
allora "sortirne tutti insieme e' la politica, sortirne da soli e'
l'avarizia". Politica, dunque, come - anzitutto - solidarieta' con tutti
quelli che soffrono gli stessi problemi di ineguaglianza, di emarginazione,
di privazione di diritti umani fondamentali.
Anche questo era un fattore di grande innovazione nei confronti di una
mentalita' diffusa (e vecchia di secoli) secondo la quale la religione deve
inculcare sottomissione al potere costituito. Ora, in quegli stessi anni,
non solo si venivano sviluppando i temi della "teologia politica" (l'esodo
degli ebrei dall'Egitto interpretato non piu' come puro simbolo dell'uscita
del singolo dal peccato ma come segno che Dio vuole la liberazione del suo
popolo da ogni tipo di schiavitu') ma, al massimo livello magisteriale
(Sinodo dei vescovi 1971 sulla giustizia nel mondo), si sarebbe proclamato
che "la liberazione da ogni stato di cose oppressivo e' parte integrante
della predicazione del Vangelo". Evidentemente, quindi, e' tutt'altro che
fuori luogo, o encomiastico, vedere in Milani un profeta, nel duplice senso
di chi parla e agisce in nome di Dio e di chi anticipa temporalmente idee e
posizioni che verranno poi fatte proprie dalla Chiesa nella pienezza della
sua autorita'.
Probabilmente, anche se leggeva il tedesco, don Lorenzo non conobbe
Bonhoeffer, le cui traduzioni italiane sono posteriori. Certo e' che se ne
sarebbe a suo modo entusiasmato: penso ai temi dell'"uomo adulto" chiamato
ad assumere fino in fondo le proprie responsabilita' nella storia (anche
politiche, certo) e a rimuovere quel "Dio tappabuchi" che, in maniera del
tutto difforme dal messaggio rivelato della Bibbia, viene diminuito ad alibi
troppo umano dei nostri vuoti di conoscenza, di intervento, di potenza. "I
care", mi interesso, mi preoccupo, me ne curo - l'opposto del "me ne frego"
fascista -, era il motto, come si sa, della scuola di Barbiana; motto,
appunto, che si addice all'"uomo adulto" delineato dal grande pastore
luterano resistente al nazismo e finito sulla forca un mese prima che la
guerra finisse.
Il quale respingeva con sdegno qualsiasi "ricatto religioso" verso i
compagni di prigionia terrorizzati dai bombardamenti; analogamente don
Milani, come si vedra', respingeva l'idea di "portare alla Chiesa" i suoi
ragazzi. Bonhoeffer sarebbe stato certamente d'accordo con
l'affermazione-esortazione del priore di Barbiana che "ognuno deve sentirsi
responsabile di tutto". Dove e' implicito, fra l'altro, un aspetto
fondamentale della sua scuola: educare ad obbedire alle leggi vigenti (altro
che anarchismo) e nello stesso tempo ad operare per cambiarle, non appena ci
si accorge che non rispondono piu' alla realta' della vita sociale e alla
tutela dei valori autentici.
L'analisi della motivazione primariamente religiosa e pastorale che lo
"costringeva" a fare scuola prima di far Dottrina e Sacramenti non esaurisce
certo l'originalita' della fede di don Milani, della sua qualita' specifica,
personalissima. Il punto oscuro della conversione e della scelta sacerdotale
e' sicuramente un ostacolo a capirne di piu'. Ma basta quell'episodio noto -
"io prendero' il suo posto" davanti alla salma del prete morto - a dirci
intanto un carattere preciso: il forte senso dell'istituzione e della sua
permanenza nel tempo (della "ditta" come scherzosamente soleva dire della
Chiesa, per lui luogo e fonte insostituibile della remissione dei peccati).
Un carattere confermato da tutta la sua esperienza di prete, in particolare
dalla ricerca angosciosa e ostinata, sullo scorcio della vita, di una
riparazione del suo macchiato "onore" sacerdotale da parte del vescovo.
Fa parte di questo suo attaccamento, quasi viscerale si direbbe,
l'aspirazione a che il vescovo sia meglio "informato" prima di pronunciare
opinioni o, peggio, condanne: un aspetto, questo, consegnato in particolare
alla famosa lettera indirizzata a Nicola Pistelli (quella che ha per tema la
necessita' di "educare il vescovo"), pagine magistrali, un catechismo non
dottrinale ma pratico, un vademecum prezioso per tutti i cattolici
desiderosi di una coscienza ecclesiale piu' aperta ed efficace, meno
passivamente conformista (nella Chiesa, avrebbe detto il cardinale Leger,
arcivescovo di Montreal e uno dei protagonisti del Concilio, "la critica e'
un dovere non meno dell'obbedienza").
Contrastante con questo attaccamento, invece, l'assenza di attenzione al
Concilio e al suo svolgersi, almeno a stare ai testi che conosciamo: non
sembrano nemmeno sfiorarlo le grandi novita' sul rapporto fra la Chiesa e il
mondo e sulla storicita' della comprensione della Parola di Dio (Dei Verbum,
8: una novita', questa, che era pure una giustificazione magisteriale
rilevante del suo operare hic et nunc).
E qui, forse, ci sarebbe da studiare se, ed eventualmente quanto,
l'ascendenza ebraica per parte di madre abbia lasciato tracce nel
temperamento e nel cattolicesimo di Lorenzo: qualcuno sostiene, infatti, che
la sua fede, cosi' caparbia e ostinata, abbia indole piu' da Antico
Testamento che da Nuovo. Una tesi, a prima vista, scarsamente persuasiva, ma
meritevole di approfondimenti che qui non siamo in grado di fare.
*
II. Non si puo' amare senza "perdere la testa"
Il rifiuto di un generico "amore universale" e' uno dei cardini
dell'esperienza di don Milani.
Vogliamo soffermarci su un atteggiamento nettamente provocatorio, ma
tutt'altro che soltanto polemico, sul quale Milani torna spesso e che
costituisce, sotto certi aspetti, un motivo conduttore di tutta la sua
esperienza. Si tratta del ripudio esplicito e reiterato dell'"amore
universale". "Se credessi davvero al comandamento che continuamente mi
rinfacciano, e cioe' che bisogna amare tutti, mi ridurrei in pochi giorni un
prete da salotto, cioe' da cenacolo mistico-intellettual-ascetico, e
smetterei di essere quello che sono, cioe' un parroco di montagna che non
vede al di la' dei suoi parrocchiani... Se offrissi un amore disinteressato
e universale, di quelli di cui si sente parlare sui libri di ascetica,
smetterei d'esser parte vivente d'un popolo di montanari...". "Il sacerdote
e' padre universale? Se fosse cosi' mi spreterei subito... Vi ho convinto e
commosso solo perche' vi siete accorti che amavo alcune centinaia di
creature ma che le amavo con amore singolare e non universale".
Certo, si può anche rilevare un certo carattere appunto provocatorio e
paradossale in queste affermazioni quasi gridate. Ma il grido di Lorenzo
tocca un punto critico dell'esser cristiani. Da un lato, l'amore e' vero
solo se resiste alla prova, solo se, come i metalli sotto il morso del
fuoco, si manifesta vivo quando scocca l'ora della difficolta', della
malattia che colpisce la persona "amata" e si tratta di assisterla giorno e
notte; dall'altro lato, come dice il pastore Paolo Ricca, non sono io che
posso dire "ti amo", e' solo l'altro che puo' dire di sentirsi amato.
Abbiamo d'altronde una conclusione, ineccepibile nella sua drastica
semplicita' e, vorrei dire, incontestabile evidenza: "Non si puo' amare
tutti gli uomini. Di fatto si puo' amare un numero di persone limitato... E
siccome l'esperienza ci dice che all'uomo e' possibile solo questo, mi pare
evidente che Dio non ci chiede di piu'". Una conclusione piu' efficace,
nella sua immediata concretezza, di tante disquisizioni teologiche e
commenti al capitolo 13 della I Lettera ai Corinzi, il celebre inno alla
carita': se cediamo a una lettura "universale" di quella mirabile pagina
neotestamentaria, c'e' il rischio che la carita' evapori in una nebbia
indistinta; da richiamo fortissimo al vissuto concreto delle relazioni
interpersonali si trasformi in esortazione generica, privata di incidenza
sulla realta'. Del resto, quando il Magistero parla di "scelta preferenziale
dei poveri", in diretta dipendenza dalla prima Beatitudine, mi pare confermi
la scelta di don Lorenzo, nel senso di "accorgersi" dei poveri e amarli di
un amore privilegiato, "schierandosi" al loro fianco.
Ma la lezione milaniana va ancora oltre l'evidenza che Dio non ci chiede che
l'amare - sul serio - un numero limitato di persone. In una delle lettere
piu' significative, quella alla studentessa Nadia, combattuta tra fede e
ateismo, scrive: "E' inutile che tu ti bachi il cervello alla ricerca di Dio
o non Dio. Quando avrai perso la testa come l'ho persa io, dietro poche
decine di creature, troverai Dio come un premio... Ti ritroverai credente
senza nemmeno accorgertene". Perdere la testa: espressione toscana, che in
italiano puo' anche avere il significato negativo di uscir dalla ragione, ma
qui, nella lingua di don Milani, ne ha uno esclusivamente positivo, quello
di vivere per l'altro dimenticando se stessi. Confinato nel deserto di
Barbiana, avrebbe potuto cercare di salvarsi facendo il minimo del suo
dovere di parroco; invece, per grazia di Dio e per la sua indomabile tenacia
di fede - compratosi, appena arrivato, lo spazio per la tomba nel cimiterino
parrocchiale, e dunque deciso a restar li', senza nulla fare perche' il
confino fosse revocato -, "perse la testa dietro poche decine di creature" e
si salvo'.
Laicamente si potrebbe dire: eterogenesi dei fini; cristianamente si deve
rilevare che, anche per lui, i disegni di Dio non corrisposero ai pensieri
degli uomini, sia pure vescovi. "Quei due preti mi domandavano se il mio
scopo finale nel fare scuola fosse di portarli alla Chiesa o no e cosa altro
mi potesse interessare al mondo nel fare scuola se non questo. E io come
potevo spiegare a loro cosi' pii e cosi' puliti che io i miei figlioli li
amo, che ho perso la testa per loro, che non vivo che per farli crescere,
per farli aprire, per farli sbocciare, per farli fruttare? Come faccio a
spiegare che amo i miei parrocchiani molto piu' che la Chiesa e il Papa?".
Un paradosso, perche' sappiamo bene quanto per lui la Chiesa fosse un mezzo
non surrogabile di salvezza; ma un paradosso che sta al centro della fede
cristiana, una lezione preziosa per chiunque intenda prenderla sul serio, da
credente o da non credente. "Ho voluto piu' bene a voi che a Dio", scrive ai
suoi ragazzi poco prima di morire, "ma ho speranza che lui non stia attento
a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto".
Ora a Barbiana e' tornato il silenzio e il deserto. La chiesa e' chiusa, la
parrocchia soppressa, come gia' era stato deliberato prima di tenerla aperta
per mandarci lui, in esilio. La strada per arrivarci e' dissestata, fitta di
sassi, invasa dalle erbacce. Ma quella tomba seguita ad essere, trent'anni
dopo, meta incessante di visitatori, anche di intere scolaresche. Vanno a
"fare memoria" di un uomo e di un prete al quale sentono di dovere molto. Su
quella tomba ando' a inginocchiarsi, come primo atto dopo la nomina ad
arcivescovo di Firenze, Silvano Piovanelli, ora cardinale: semplice omaggio
affettuoso all'antico compagno di seminario o qualcosa di piu', molto di
piu'?
Certo e' che don Milani sta a buon diritto nella costellazione dei grandi
spiriti che hanno sospinto la Chiesa fiorentina e italiana verso il terzo
millennio, papa Giovanni, Enrico Bartoletti, Elia Della Costa, don
Mazzolari, don Facibeni, Giorgio La Pira, per ricordarne solo qualcuno. E
nessuno lo toglie, Lorenzo, da quella luce, ne' i cattolici che non
riusciranno mai a digerirlo ne' i laici che lo ritengono "mascalzone",
"maestro improvvisato e sbagliato", "violento demagogo". Guai a farne un
mito da inseguir fra le nuvole; don Milani e' una straordinaria realta' di
cui non c'e' che da ringraziare, per i credenti, Iddio, per chi non crede,
la storia e la natura umana.

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