In questa foto, scattata nel 1964: il presidente Lyndon Johnson incontra i leader del movimento per i diritti civili alla Casa Bianca, il 18 gennaio. Da sinistra: Roy Wilkins, James Farmer, Martin Luther King e Whitney Young.

Negli Stati Uniti, all’inizio del novecento, la maggioranza dei cittadini afroamericani viveva nel sud del paese, dove vigeva ancora una sistematica e rigidissima discriminazione razziale. I neri non avevano il diritto di voto ed erano esclusi da tutte le cariche pubbliche, non potevano iscriversi alle scuole dei bianchi, e dovevano usare posti separati sui mezzi di trasporto e nei locali pubblici.

 

Alla metà degli anni cinquanta emerse il movimento che avrebbe portato all’approvazione della legge sui diritti civili.

La prima azione di protesta significativa risale al 1955, quando a Montgomery, in Alabama, la popolazione nera cominciò un boicottaggio dei trasporti pubblici, dopo l’arresto di Rosa Parks che aveva rifiutato di cedere il posto a un bianco salito sull’autobus dopo di lei. All’iniziativa partecipò anche Martin Luther King. La protesta di Montgomery si concluse con successo: nel novembre del 1956, la corte suprema dichiarò incostituzionali le leggi segregazioniste dell’Alabama.

 

A questi gesti dimostrativi ne seguirono altri (nel 1960, a Greensboro, quattro studenti afroamericani organizzarono un sit-in non violento contro la segregazione nelle tavole calde e in poco tempo simili proteste si diffusero nel resto degli Stati Uniti), finché, il 2 luglio 1964, il presidente Lyndon Johnson firmò il Civil rights act.

 

La legge dichiarava illegali le disparità nei registri elettorali e la segregazione razziale nelle scuole, sul posto di lavoro, nelle strutture pubbliche, e nei concorsi per iscriversi a scuola, ottenere una casa o un lavoro. All’inizio la legge fu applicata in modo discontinuo, ma negli anni successivi aumentarono i poteri concessi alle autorità per farla rispettare.

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