Sul Ruolo dell’operatore Sociale di Base, o Facilitatore Sociale, per le Attivita’ di Prevenzione dei Conflitti o della Microcriminalita’

Nota per il Ministro Ferrero per l’incontro del 20/9/2007 a Roma.
di Alberto L'Abate

Uno dei problemi di fondo della nascita di violenze ed anche di microcriminalità è l’esistenza nella nostra società di grandi squilibri sociali, ed anche di violenza strutturale (carenza di leggi adeguate, meccanismi di sfruttamento che fanno si che i marginali vengano utilizzati per lavori sottopagati, ed a condizioni estremamente difficili - un esempio concreto preso dalla mia esperienza in questo campo: si dà un lavoro notturno ma non continuato per cui si lascia al lavoratore solo due ore, o al massimo tre di libertà – che significa non pagate – per poi continuare il lavoro successivamente per alcune altre ore,ecc. ecc.).
Questa situazione è di per sé stimolatrice di violenza e di criminalità, ma non si risolve solo con leggi dal centro (anche se queste possono aiutare), ma c’è bisogno di un lavoro di base che aiuti i marginali (spesso immigrati, oppure giovani o giovanissimi,od anche donne con figli che non possono prendere lavori a pieno tempo,ecc.) a superare la loro marginalità, e le condizioni che permettono il loro sfruttamento.
Secondo gli studi approfonditi su questi temi, cinque sono le attività principali che un operatore di base, o facilitatore, deve svolgere in queste condizioni:

1) Coscientizzazione. Non sempre i gruppi marginali si rendono conto dei reali meccanismi che sono alla base della loro marginalità. Spesso, come sostiene Freire, acquisiscono anche loro la cultura di chi li sfrutta e li domina, e questo rende impossibile un percorso che Freire chiama di “liberazione”. Per questo la prima attività è quella di aiuto a prendere coscienza di questi meccanismi, ma anche, attraverso la conoscenza di casi positivi che hanno superato il problema, della possibilità di superarli.



Associazioni aderenti all’Ass. I.P.R.I.- Rete CCP
INTERNATIONAL PEACE RESEARCH INSTITUTE (Italian Branch)

Ass. “Aiutiamoli a vivere”, Associazione per la Pace, Ass. Locale Obiezione e Nonviolenza Forlì-Cesena (ALON FC)
Berretti Bianchi Onlus, Centro Studi Difesa Civile, Centro Studi Sereno Regis , Fondazione A. Langer,
G.A.V.C.I.,Lega Obiettori di Coscienza, Lega Disarmo Unilaterale, Movimento Internazionale della Riconciliazione,
Movimento Nonviolento, Pax Cristi-Italia,Servizio Civile Internazionale,
Società Italiana di Scienze Psicosociali per la pace

2) Organizzazione. I gruppi marginali hanno raramente la capacità di organizzarsi. Sono spesso portati, dalle condizioni in cui vivono, a lottare l’uno con l’altro o a prendersela con gruppi ancora più emarginati rispetto alla loro condizione. Questo impedisce il mutamento, e facilita la continuazione delle ingiustizie. Per questo la seconda attività, in ordine di importanza, è quella di aiutare questi gruppi ad organizzarsi, a prendere delle decisioni partecipate, e non determinate da un “capoccia” che spesso è in collusione con il potere che li sfrutta. Un esempio positivo di questa attività è l’uso del “metodo decisionale del consenso” che i gruppi nonviolenti hanno teorizzato e sperimentato.
3) Lavoro di rete. Altri gruppi soffrono degli stessi problemi,o possono dare una mano per risolverli . E’ perciò importante avere la capacità di scoprirli, e fare con loro alleanze che possano permettere di cambiare la situazione di partenza. Anche questo può esser appreso, e l’operatore di base può aiutare in questo processo.
4) Apprendimento delle forme di lotta nonviolenta. I gruppi marginali non conoscono la nonviolenza e spesso ne hanno una immagine falsata, come uno strumento per tenerli buoni. E tendono, quando non ne possono più di sopportare le ingiustizie, a ribellarsi violentemente. Ma questo, di solito, li emargina ulteriormente non risolvendo il problema ma spesso aggravandolo. Per questo è importare un lavoro di formazione alla lotta nonviolenta per combattere, con questa, contro le ingiustizie ed i soprusi che sono connessi alla loro emarginazione.
5) Progetto costruttivo. Ma la nonviolenza implica il non accontentarsi della lotta ma cercare, da subito, quegli che, nella teoria specifica, si chiamano “gli obbiettivi sovraordinati” e cioè quegli scopi comuni, spesso inconsci, che ci possono essere tra gli sfruttati e gli sfruttatori (ad esempio il bisogno del superamento del disordine e della criminalità). Tutte le lotte nonviolente vincenti hanno sempre avuto queste due gambe (azione diretta nonviolenta, e progetto costruttivo). Per questo è importante imparare, da subito, la risoluzione nonviolenta dei conflitti e la ricerca di possibili soluzioni che risolvano il problema in modo definitivo e non transitorio.

Una parte importante di un discorso di questo tipo sarebbe quella di esaminare una serie di casi positivi che, utilizzando una metodologia di questo tipo, sono riusciti a cambiare la situazione di partenza. Non è possibile, in questa breve nota, analizzarli a fondo, mi limiterò perciò solo a segnalarne, sinteticamente, solo alcuni a titolo esemplificativo :
a) il lavoro di Danilo Dolci in Sicilia. Egli è partito dal presupposto che i “banditi” siciliani, per sconfiggere i quali si ricorreva all’esercito, alla polizia ed ai giudici, con spese ingentissime, erano di fatto “banditi”in quanto emarginati dalla società che non spendeva quasi nulla per aiutare queste persone ad uscire dal loro stato di emarginazione. E senza aiuti da parte dello stato (che anzi l’ha messo in carcere per un digiuno e uno”sciopero alla rovescia” – l’aggiustatura volontaria di una strada vicinale in pessime condizioni per rivendicare per gli abitanti della zona, che partecipavano con lui all’azione, il diritto al lavoro riconosciuto dalla nostra Costituzione), ma con l’aiuto di molti volontari e di gruppi esterni che hanno finanziato il suo lavoro (compreso un premio Lenin per la Pace) è riuscito a cambiare totalmente la situazione economica e sociale di una zona grazie alla costruzione di una diga (fiume Iato) – questa sì pagata dallo Stato ma ottenuta con molte lotte e manifestazioni della popolazione stessa - che è l’unica in Sicilia non gestita dalla mafia, dato che i contadini della zona, che avevano lanciato essi stessi la proposta di farla, si sono organizzati e gestiscono essi stessi l’uso agricolo della acque che da questa si possono trarre.
b) Il lavoro di una operatrice sociale contro la corruzione.e la criminalità in una cittadina degli USA (Chelsea). La Susan Podziba, che si è specializzata nella soluzione di dispute pubbliche, attraverso un lavoro di poco più di un anno con il metodo del consenso (cercando di fare partecipare al processo decisionale tutti gli abitanti - compreso i tanti immigrati che erano del tutto esclusi in precedenza da questo processo) è riuscita a trasformare una cittadina corrotta, in cui erano frequentissimi gli episodi di criminalità, e la corruzione era diffusissima anche tra gli amministratori e la polizia, in una cittadina diventata modello di convivenza e di democrazia. Si veda, della Podziba, Chelsea Story.Come una cittadina corrotta ha rigenerato la sua democrazia, Bruno Mondatori, Milano, 2006)
c) Il lavoro delle PBI (Peace Brigadeds International) in situazioni di conflitto. Questa organizzazione, che opera, con gli strumenti della nonviolenza, ormai da moltissimi anni in molti paesi del mondo nei quali la conflittualità è altissima, aiuta la popolazione a prendere coscienza dei diritti umani che la legislazione internazionale riconosce ai singoli cittadini, aiuta le vittime ad organizzarsi (ad esempio le donne i cui mariti e altri parenti erano stati presi dalla polizia e non si aveva più notizie di loro –i famosi “desparicidos”), ed accompagna, giorno e notte, del tutto disarmati, ma con l’appoggio di gruppi di sostegno diffusi in tutti i paesi del mondo che – con telegrammi, E mail, ed altri strumenti - chiedono l’intervento positivo delle autorità della zona - le persone minacciate dagli “squadroni della morte”. Anche il premio Nobel per la Pace Rigoberta Manchù è stata salvata in questo modo, ed ha dichiarato pubblicamente la sua gratitudine a questa associazione .
Ma se si fa una ricerca approfondita gli esempi di questo tipo si moltiplicherebbero a dismisura, e confermerebbero che la criminalità si combatte meglio, ed a costi probabilmente minori, attraverso un lavoro positivo di prevenzione che elimini le cause di fondo dalle quali questa proviene e di cui si nutre, piuttosto che attraverso interventi puramente repressivi che tendono spesso a mischiare i veri criminali con le loro vittime (che sono anche quelle che, per sopravvivere, sono costrette a subire le loro imposizioni e diventano gli strumenti della stessa criminalità).

Firenze , 20 Settembre 2007 Alberto L’Abate

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