E’ possibile una strategia nonviolenta della sinistra italiana?
Contributo di Alberto L’Abate
al XXII Congresso del Movimento Nonviolento
(Verona 1-4 Novembre 2007)


Quanto scrivo non pretende di rappresentare le posizioni del movimento pacifista (che, spesso, si autodefinisce “non-violento”), e neanche di quelle del Movimento Nonviolento stesso, cui pure mi vanto di appartenere, ma vuole mettere in discussione certe posizioni molto diffuse tra questi due movimenti per cercare di stimolare una uscita da una empasse che li vede spesso divisi su questi problemi. In questi due movimenti prevalgono, spesso, posizioni di sfiducia nei riguardi delle istituzioni in generale tanto che molti ritengono ormai che destra e sinistra siano uguali, e che il movimento deve esser esterno del tutto alle istituzioni senza alcuna compromissione politica e partitica. Secondo qualche partecipante di questi movimenti, inoltre, sarebbe più facile lottare contro un governo del tutto nemico, di “destra”, piuttosto che contro un governo cosiddetto “amico” che porta avanti, poi, una politica in realtà di destra anche esso (visto che il militarismo è stata sempre una caratteristica distintiva delle posizioni delle destre italiani ed internazionali). Quello che scrivo vuole essere un contributo al dibattito anche interno a questi due movimenti dato che la politica del “tanto peggio, tanto meglio”, portato avanti, spesso, da una certa sinistra, non ha mai dato, secondo i miei studi sui conflitti, risultati positivi ed accettabili.
Io spero che la sinistra regga ed arrivi alla fine del suo mandato: quanto scrivo vuole essere un contributo ad una strategia nonviolenta interna alla sinistra italiana che le permetta, sia pur gradualmente, di correggere i suoi difetti di partenza e di arrivare in fondo al suo mandato senza aver scoraggiato i suoi elettori, come sta facendo attualmente, e senza aver portato, alla fine, al trionfo delle destre, come molti temono, ed il cui spauracchio è attualmente forse l’unico reale collante del governo attuale. Il mio scopo è, al contrario, quello di rinforzare la presenza ed il lavoro di una sinistra seria ed operativa, che cerchi di rinnovare l’ andamento attuale, e di cambiare l’attuale modello di sviluppo, che sta continuamente aumentando il distacco tra i ricchi ed i poveri, e sta portando all’estremo l’insicurezza dei cittadini per una sedicente guerra al terrorismo che sta facendo crescere, ogni giorno, a dismisura, questo fenomeno, e che ogni giorno uccide, indirettamente, aumentando le spese militari e diminuendo quelle sociali, migliaia e centinaia di migliaia di persone. Ricordiamoci quello che scrive Desmond Tutu, pastore evangelico sud-africano che, come presidente della commissione della Verità e Giustizia di quel paese, ha contribuito in modo notevole al superamento dell’apartheid ed alla pacificazione di quella parte del globo. Egli, in un recente messaggio, ci ricorda che il mondo, in complesso, spende annualmente per la lotta contro il principale flagello di questo secolo, l’AIDS, solo quello che spende invece in 18 giorni per gli armamenti. E le mie ricerche sul Kossovo, dove ho passato circa due anni come ambasciatore di pace alla ricerca di una soluzione non armata che sarebbe stata possibile se solo i governi occidentali avessero avuto più attenzione al problema della prevenzione di questi conflitti, rispetto a quello del fare la guerra, hanno dimostrato che si è speso 1 Euro per la prevenzione di questo conflitto armato (ma soprattutto da parte di organizzazioni non-governative), contro 140 Euro spesi invece nel fare la guerra, nell’assistenza ai profughi, e nella ricostruzione materiale di quel paese, senza tener conto di quanto costa ancora attualmente il tenere in vita una situazione che la guerra non ha affatto risolto ma che, anzi, ha notevolmente aggravato (a causa delle morti dalle due parti, che questa ha provocato, e degli odi reciproci che questa ha incrementato). Se nel futuro questi squilibri vengono mantenuti, e si continua a dare più importanza all’aumentare le spese militari, come sta facendo attualmente anche il governo Prodi (addirittura, facendo accordi con gli USA per l’acquisto di 133 caccia bombardieri d’attacco, oltre ai 122 eurofighter già ordinati in Europa, tutti aerei che con l’articolo 11 della Costituzione Italiana che ammette solo la guerra di difesa, non hanno nulla a che fare), come ci possiamo lamentare che il mondo sia sempre più insicuro e la guerra un “affare” quotidiano (affare, in tutti i sensi, anche nella vendita di armi che l’Italia sta dando all’India che è già tra i paesi più armati del mondo, mentre è uno dei paesi con i più alti tassi di mortalità infantile)?.
Purtroppo questo peccato di sottovalutazione della prevenzione dei conflitti armati, e di sopravvalutazione invece dell’importanza della guerra e degli interventi armati (e della vendita di armi come volano del nostro sviluppo), è di lunga data, ma non sembra che la sinistra abbia imparato molto dagli errori passati. L’inizio della partecipazione del nostro paese alla guerra afgana, dichiarata come guerra al terrorismo (ma se si va a vedere a fondo, questa ragione faceva acqua da tutte le parti, si veda il mio articolo su “Azione Nonviolenta” (L’Abate, 2007), quando ancora l’ONU non si era pronunciato, è stato deciso da un governo di destra, ma con l’appoggio incondizionato della quasi totale maggioranza della sinistra (solo circa 10 obbiettori di coscienza). Nessun tentativo di studiare forme per prevenire il conflitto armato che pure, forse, erano possibili. Ma ancora peggio è stata la partecipazione italiana alla guerra del Kossovo, questa invece decisa direttamente da un governo di centro–sinistra guidato dall’attuale ministro degli Esteri D’Alema. In questa le sinistre al governo hanno dovuto tener conto, come dice D’Alema, nella sua intervista sul Kosovo, a giustificazione del nostro intervento nella guerra (D’Alema, 1999), che “nella difesa e nella politica estera, la sfera decisionale è ormai particolarmente complessa, si combinano elementi sopranazionali e meccanismi formali intergovernativi. Chi rappresenta l’Italia decide insieme ad altri, può essere messo in minoranza ed io credo debba con responsabilità accettarlo. Il rischio peggiore –continua – è stare in un paese che non conta niente, espulso dai luoghi dove si decide. Questo è un caso in cui l’eccesso di democrazia apparente ti preclude la democrazia vera, perché ti emargina dalle sedi dove si decide anche per te”: (ibid. p.37). “Questo sembra significare, in altre parole - scrivevo io in un mio libro (L’Abate, 2001, p.26) – che l’appartenenza alla NATO sospende, o almeno riduce notevolmente, le regole democratiche del nostro paese, subordinandole appunto alle decisioni prese in altre sedi in cui gli interessi militari-strategici di altri paesi possono prevalere su quelli dei cittadini italiani. Che significa questo se non che di fronte alle decisioni di fare la guerra e la pace la democrazia è ormai una parola vuota?” A conferma di questo D’Alema aggiunge: “La delega a pochi è una condizione di funzionamento della democrazia moderna. Viviamo in un’epoca in cui il circuito delle decisioni non è più nazionale (ibid. p.38) ”. Come si vede la tesi di D’Alema, autorevole rappresentante della sinistra e ministro degli Esteri del governo Prodi, è esattamente il contrario di quanto sostenuto da Aldo Capitini (Capitini,1969,1999) da pianificatori come John Friedmann (Friedmann, 1996,2002,2004) e ripreso anche in molti dei lavori dei Forum Mondiali, e cioè che bisogna superare la democrazia puramente delegata per arrivare ad una democrazia come partecipazione, al ”potere di tutti” capitiniano, o alla “democrazia inclusiva” di Friedmann. Questa impossibilità a portare avanti una politica veramente innovativa, a causa di queste costrizioni internazionali (oltre alla Nato potremmo aggiungere il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, gli accordi internazionali per il commercio, ecc., ecc.) può portare alla delusione da parte della popolazione nel vedere la difficoltà di agire a livello di un singolo paese contro mali che affliggono l'umanità intera, e contro un sistema che rischia di stritolare o annullare la volontà rinnovatrice della popolazione stessa, o di un gruppo o di una classe dirigente. E questo, a sua volta, può provocare una reazione del pubblico che non si rende conto dei reali condizionamenti e che perciò può votare per rimandare al potere la classe dirigente di prima.
Se si va a vedere il passato la partecipazione dell’Italia alla guerra del Kossovo è stato sicuramente un fatto che ha portato molte persone di sinistra a non votare per i partiti di questo schieramento (gli astenuti e le schede bianche sono state moltissime), ed a far vincere i partiti della destra della cosiddetta Casa delle Libertà. Ma se queste considerazioni di D’Alema sono reali, e non c’è ragione di non credergli, perché continuare a fare gli stessi errori, e non utilizzare il movimento di protesta dal basso, che si oppone a questo modello di sviluppo e alle sue conseguenze, e che si esprime ed agisce contro il raddoppio della base di Vicenza (raddoppio che non diminuisce certo il rischio che dal nostro paese partano aerei che vadano a bombardare l’IRAN nella guerra che Bush Jr., e forse anche gli israeliani, stanno pianificando), per essere più coraggiosi e mettere in discussione, nelle sedi internazionali apposite, si veda la Nato, la teoria della necessità dell’uso delle armi nucleari come primo colpo (anche questa in totale contrasto con la nostra Costituzione). L’eliminazione delle basi USA in Italia, e soprattutto delle 90 testate nucleari presenti (ad Aviano e Ghedi, oltre a quelle che, trasportate da sottomarini, entrano nei nostri porti) sarebbe un modo concreto per rispettare l’art. 11 della nostra Costituzione, rendere più sicuro il nostro paese, aumentare il numero di posti di lavoro dei nostri giovani (basterebbe un eurofighter, o uno degli aerei ordinati agli USA, in meno, aerei che sono utilizzabili soprattutto per lanciare dall’alto bombe nucleari, e quindi fuori legge, per avere migliaia e migliaia di posti di lavoro in più per i nostri giovani. Se a questi si aggiungono i costi delle basi Usa in Italia pagati per circa il 40 % dai nostri cittadini, se queste si eliminassero i soldi per la creazione di posti di lavoro in più aumenterebbero notevolmente).
Ma detto questo delle priorità che un governo delle sinistre, o meglio di centro-sinistra, dovrebbe e potrebbe fare, c’è da affrontare ora quello che dovrebbe e potrebbe fare un movimento di opposizione di sinistra, soprattutto se questo si richiama ai valori della nonviolenza.
Anche in questo sembra mancare del tutto una valida strategia. Si sono fatte manifestazioni di piazza, importanti si, ma che spesso lasciano il dubbio di quello che si chiama “non nel mio giardino”, che non si lotti contro il problema stesso ma che si chieda solo che quella iniziativa o quel progetto vadano da qualche altra parte, magari anche nel nostro stesso paese. Il che, se riesce, può essere una vittoria per gli abitanti del posto, ma non elimina il problema di fondo contro il quale si vuole combattere. Oppure si è ricorso all’obiezione di coscienza votando contro alle decisioni del governo, con il rischio, in questo caso, di accellerare il ritorno al governo di partiti che non sono certo meno militaristi di quello attuale.
Malgrado il tanto parlare di nonviolenza sembra non essere chiaro che la nonviolenza non richiede solo l’attinenza a quella che è stata definita l’”etica dei principi”, ma anche all’”etica delle conseguenze”. E che i due opposti fondamentalismi (di quelli che, da una parte, sulla base dei principi, obbiettano e votano contro ogni decisione che comporta una partecipazione alla guerra, e dall’altra parte, quelli invece, che, sulla base delle conseguenze delle loro azioni, ingoiano tutto e lasciano passare decisioni assurde e militaristiche, pur di non far cadere l’attuale governo, nel timore del ritorno di Berlusconi al potere) non aiutano il nostro paese ad andare avanti. E che è necessario uscire da questo dilemma e trovare una strategia alternativa.
E’ chiaro che questa deve essere rigidamente nonviolenta. Solo con la nonviolenza ci si può opporre alle ingiustizie senza compiere noi stessi, magari anche involontariamente, altre ingiustizie (ad esempio, partecipando ad una guerra, l’uccisione di tanti civili innocenti che risultano, negli ultimi anni, essere il 90 % dei morti negli attuali conflitti armati), ma senza nemmeno cadere in quello che Pontara definisce il peccato di “omissione”, è cioè il subire le ingiustizie che colpiscono noi, ed anche gli altri, senza reagire e senza lottare contro di queste, premiando perciò, in fin dei conti, chi le commette. E la nonviolenza è l’unica forma di azione che permette di unire l‘etica dei principi con quella della responsabilità perché unisce la lotta (nelle parole di Gandhi “satyagraha”, che letteralmente significa “lotta con la forza della verità” ma che è stato tradotto in italiano, in modo creativo, da un amico prete operaio Don Silvio Politi, scomparso vari anni fa, come “lotta come amore”) al progetto costruttivo, con il quale si cerca di superare le ragioni che hanno portato al conflitto ed alla lotta.
L’obiezione di coscienza non è che una delle armi della nonviolenza, ma come ha scritto la nostra amica siciliana, Maria Occhipinti, (Occhipinti, 2004, p.350) “non basta”. Come abbiamo accennato in precedenza il nonviolento deve tenere presente, nella sua azione, oltre al rapporto tra l’etica dei principi e quella delle conseguenze, anche il principio di gradualità. E’ noto come Gandhi stesso si sia tenuto fedele in tutta la sua vita a questo principio. Galtung, nel suo “Gandhi oggi” (1987) scrive a proposito: “In termini strategici moderni, Gandhi sembra adottare la dottrina della risposta graduale e distribuita nel tempo. All’altra parte deve essere offerta l’opportunità di riflettere e giungere a mutare il proprio modo di vedere la situazione, proprio come anche il proprio gruppo ha bisogno di tempo per avere possibilità di apprendere, di crescere, di progredire insieme con l’antagonista…La scelta di un ritmo lento per il conflitto favorirà ciò ed eviterà che le energie umane e sociali vadano perdute in azioni distruttive” (ibid. p.115). Anche Pontara parla di gradualità, e cioè che vale il principio che è necessario ”graduare i mezzi di lotta: scegliendo quelli più radicali (come la disobbedienza civile o il boicottaggio) solo quando quelli più blandi si sono dimostrati chiaramente insufficienti” (Pontara, 1977). Ma questa gradualità di strumenti di lotta implica anche una gradualità di obiettivi, si deve partire da obbiettivi meno complessi e più facilmente raggiungibili per poi, dopo che il gruppo si è consolidato grazie anche alle prime vittorie ottenute, si può passare a quelli più complessi, dopo aver allargato anche la base di appoggio alle lotte che si stanno portando avanti. Ma questo richiama alcune delle principali caratteristiche individuate da Pontara della personalità nonviolenta (Pontara, 1996): la capacità di empatia, e cioè il riuscire ad identificarsi con l’altro mettendosi dal suo punto di vista; la fiducia negli altri, rifiutando la logica “se vinci te, perdo io”, ma nella convinzione che nel conflitto si possa arrivare, tramite la collaborazione e la comunicazione, ad una soluzione che convinca entrambe le parti; la capacità di dialogare, e cioè il dare grandissima importanza all’ascolto della parte avversa, sforzandosi di tenere aperti più canali di comunicazione possibili; ed infine, ultima, ma forse una delle caratteristiche più importanti, la pazienza, la persona nonviolenta non fa le cose in fretta. E’capace di aspettare, non si lascia scoraggiare né abbattere se non vede risultati qui, ora, subito. E tutto questo tende a riconfermare quanto detto prima dell’importanza del principio di gradualità, come uno dei principi fondamentali dell’atteggiamento e dell’azione nonviolenta.
Il nonviolento non pretende di ottenere tutto subito, ma attraverso un progetto costruttivo, elaborato con la massima partecipazione del maggior numero possibile di persone, cerca di allargare gradualmente il consenso in modo da raggiungere degli obiettivi sempre più radicali e sempre più vicini a quelli finali, che vadano nella direzione da lui auspicata. Questi possono essere, ad esempio, la diminuzione graduale, anno per anno, delle spese militari, per allargare invece le spese per i Corpi Civili di Pace (che non risultano ancora realizzati ma che sono presi in considerazione nel programma dell’Unione) che intervengano prima dell’esplodere del conflitto armato per cercare di prevenirlo, oppure, quando il conflitto è già esploso, per interporsi nonviolentemente tra i due contendenti per interrompere lo scontro armato, e poter passare alla ricerca di soluzioni concordate, oppure, dopo la guerra, per aiutare il processo di riconciliazione tra gli ex nemici.
All’interno del principio di gradualità sarebbe opportuno utilizzare quelle che Gene Sharp, uno dei più profondi studiosi di nonviolenza, considera “armi” importanti della nonviolenza e cioè le “sanzioni positive”. Egli usa spesso, in vari suoi testi, il concetto di “sanzioni nonviolente” per parlare di sanzioni che, senza alcun uso di violenza, cercano di convincere l’avversario ad una politica o ad una proposta di azione. Galtung, invece, nel suo libro su, Gandhi Oggi, (1987), a pag. 152, parla di nonviolenza negativa e positiva. La nonviolenza negativa “cerca di indurre [gli avversari] ad astenersi da alcune azioni indesiderate”; con quella positiva, al contrario, “si cerca di far compiere loro azioni desiderate”. Quindi il concetto di “sanzioni positive”, unisce in sé due elementi, di per sé apparentemente contraddittori, le “sanzioni” che cercano di convincere l’avversario, attraverso metodi nonviolenti, ad un certo tipo di azione, e la positività, che cerca di fare questo stimolando da lui delle azioni desiderate, come, negli esempi citati qui, una più seria politica dell’attuale governo nei riguardi delle armi nucleari (in accordo con il TNP - Trattato di Non Proliferazione- da noi sottoscritto, con le sentenze della Corte dell’Aia contro le armi nucleari, e con l’Art.11 della nostra Costituzione che rifiuta la guerra di attacco, alla quale servono invece questi missili),
Le sanzioni positive sono perciò, in complesso, un appoggio ad un determinato governo, o una speciale organizzazione, ma subordinato però ad una serie di condizioni considerate fondamentali, e senza il raggiungimento delle quali l’appoggio viene ritirato. Pur condividendo del tutto l’opposizione alla guerra in Afghanistan, vista l’attuale posizione della maggioranza della sinistra, ritengo importante, sulla base del principio di gradualità, appoggiare il governo Prodi, chiarendo però alcune condizioni, condivisibili da molti altri della sinistra, che riteniamo siano raggiungibili nei prossimi anni di questo governo, e sulle quale si è disponibili anche a concordare le scadenze. Se questo non avviene il governo sarà costretto a cadere, ma se il lavoro è stato fatto bene, e realmente partecipato, tale caduta non aiuterà l’attuale destra, ma piuttosto la nascita di un altro governo che miri, più dell’attuale, alla pace, alla nonviolenza, ed a quelli che sono i tradizionali valori della sinistra, che non sono certo quelli per la salvaguarda del mercato (che sembra essere la grande preoccupazione dell’attuale governo), ma piuttosto rivolti a dar vita ad un modello di sviluppo alternativo.
Le idee di Sharp, dell’importanza della nonviolenza solo pragmatica (per una critica a questa impostazione si veda il mio libro, di prossima pubblicazione.- L’Abate,2008) sono servite a destabilizzare e rovesciare i regimi comunisti dei paesi dell'Est (si veda la trasmissione di Report del luglio 2007), ma sembrano essere utilizzate anche in Italia, con la regia di Berlusconi e Bossi. Ma anche la sinistra, inconsciamente, sta cadendo in questa trappola, attraverso due meccanismi:1) un qualunquismo di sinistra che tende a non vedere differenze tra Bush, Berlusconi e Prodi. Questa impostazione ha fatto si, ad esempio, che nel fare la manifestazione di Roma contro Bush, questa venisse intitolata " No BUSH, No PRODI". Su Prodi , ed il suo governo, abbiamo molte riserve non solo per la politica interna, ma soprattutto per quella estera ed in particolare per quella militare, ma metterli insieme come se facessero la stessa politica, è un grosso errore. Il governo Prodi ha fatto vari tentativi, secondo me non troppo forti né coraggiosi, ma li ha fatti, e altri ancora ne sta facendo, per distinguersi dalla politica USA (uscita dall’Iraq, ONU per il Libano, Conferenza di Pace per l'Afghanistan, moratoria sulla pena capitale, tentativi per dar vita ai Corpi Civili di Pace,ecc.).Considerare come se queste differenze non ci fossero nemmeno mi sembra fare proprio il gioco delle destre che stanno montando l'opposizione (non-violenta o accattata?) contro Prodi per fare cadere il suo governo e far tornare loro al potere, con una politica non certo pacifista e non certo smaccata da quella di Bush (l'intervista televisiva a Fini durante il suo viaggio a Israele, e la sua invocazione ad una guerra contro Hamas e contro l'Iran sono una dimostrazione concreta di quello che potremo avere con un governo di destra, forse non più diretto da Berlusconi, ma dallo stesso Fini! ); 2) questa impostazione, secondo me qualunquistica, porta molti della sinistra a non votare, o a mettere scheda bianca, con il risultato che le destre avanzano elettoralmente. Se le sinistre non vanno a votare, ed il loro astensionismo aumenta, il risultato non può essere che uno: il ritorno delle destre al potere!. Don Milani diceva che il voto è l'unica arma dei poveri, e che bisogna usarlo bene, perciò anche il voto deve far parte di una strategia a lungo termine, e va visto in questo quadro, come una delle forme di lotta che abbiamo a disposizione, non svalutandolo come cercano di fare i politici di destra che si danno da fare per aumentare lo scontento della popolazione e far incrementare, a loro vantaggio, l’astensionismo della sinistra.
Quale può essere l’alternativa a queste due posizioni, o fondamentalismi (come li ho definiti prima), largamente perdenti? Secondo me l’unica possibile politica nonviolenta da portare avanti nei confronti del governo Prodi, in un approccio diverso, è quello delle sanzioni positive. Questo significa appoggiare il governo attuale ma porre delle precise richieste che siamo disposti anche a discutere con esso e graduarle, per vedere quali portare prima e quali dopo, ma senza il raggiungimento delle quali non siamo disposti a continuare il nostro appoggio. Ma questo presuppone l’elaborazione di un progetto alternativo che aiuti il governo a prendere decisioni coraggiose che vadano contro i dettata dei grandi poteri mondiali, in primis gli USA (anche se il suo impero sta scricchiolando), della Nato, del FMI, della Banca Mondiale, ecc. Riusciranno questi due movimenti, quello pacifista e quello nonviolento, a superare i loro litigi interni che li rendono di fatto quasi inesistenti come soggetti realmente politici ? Non lo so, ma credo sia importante cercare di farlo. In caso contrario non lamentiamoci delle deficienze dei nostri governanti. Ce le siamo volute. Se su una politica di questa genere ci fosse un reale accordo tra tutti i movimenti nonviolenti, ed anche con quelli pacifisti, e questi riuscissero a far capire questa modalità di lotta alla gente, c'è forse la speranza di modificare l'attuale andazzo del governo, senza cadere nelle mani della destra. In caso contrario non lamentiamoci se, quando caduto Prodi, viene Fini e la terza guerra mondiale preannuciata da Bush Jr., l'avremo voluto noi per la nostra incapacità ad elaborare una valida strategia, e di vedere oltre il nostro naso.
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Bibliografia citata
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