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09 ottobre 2010

John Lennon, il visionario che oggi non compie 70 anni
di Roberto Brunelli

Oggi il più visionario e utopico dei Beatles avrebbe spento le settanta candeline: ma per l’immaginario è una fotografia eterna, praticamente un santo. Lui non sarebbe d’accordo: «Siamo tutti dio», diceva. 

Non credo in Gesù, urlava John. Non credo nella Bibbia, non credo nello yoga, non credo in Elvis, non credo nei Beatles, non credo in Dylan. Se c’è un dio, spiegava John, lo siamo tutti quanti. La canzone era "God" («dio è un concetto sul quale misuriamo la nostra sofferenza»), una canzone che quest’anno ha compiuto solo quarant’anni: era il pezzo forte di "Plastic Ono Band", primo album solista dopo lo scioglimento dei Beatles. Praticamente un urlo dagli abissi dell’inconscio. E visto che siamo alla cabala dei numeri, quasi trent’anni fa Lennon è stato ucciso da un pazzo (l’8 dicembre 1980) di fronte a casa sua a New e York, ma è esattamente settant’anni fa che John Winston Lennon - tra i Fab Four quello con l’aura del demiurgo, del visionario, contrapposto al pragmatico Paul McCartney - vide la luce in un sobborgo di Liverpool. 

Settant’anni? Anche se pare impossibile, immaginatelo: stempiato, come Pete Townshend? Incartapecorito e un po’ gobbo, come Bob Dylan? Le sue rughe un feroce campo di battaglia, come Keith Richards? O con una faccia da eterno ragazzo? Oggi, a tre decadi dal giorno in cui Mark David Chapman gli sparò cinque sudici colpi di pistola, John Lennon è una sorta di fotografia eterna. Come se fosse stata scattata ieri. Destino delle icone, si dirà, a maggior ragione di quelle del rock’n’roll, quelle dei mitici "sixties": Jimi Hendrix, Janis Joplin, Brian Jones, Jim Morrison. Inaudito pensarli vecchi: ma forse è solo un incanto del destino, solo la proiezione ipnotica di generazioni di persone cresciute con la loro musica, forse è perché la loro immagine è della materia di cui sono fatte le utopie, come Che Guevara, Martin Luther King, Mahatma Gandhi o chi volete voi, figure mitologiche che ad un certo momento della loro vita si sono trovate a travalicare il tempo. 

Proprio per questo immaginare Lennon vecchio sembra quasi un esercizio contro natura, un po’ perverso: ieri nelle agenzie circolava una rielaborazione di come sarebbe John Lennon oggi. Un po’ triste, appena un po’ più rugoso, il mento ancora più sottile, le borse sotto gli occhi. Praticamente un bibliotecario in pensione, laddove l’amico e rivale McCartney è una specie di orsacchiotto sgonfio con il parrucchino colorato, sia pur dotato di un’energia senza pari, che ancora macina concerti strepitosi per mezzo mondo. 

La cosa che rende il tutto ancora più difficile è il fatto che, mentre pullulano d’amore e di ideali (da "All You Need is Lov"e a "Imagine", da "Give Peace a Chance" a "Happy Xmas"), le canzoni di John Lennon raramente si soffermano sulla vecchiaia o sulla morte, se non in senso lato o lontanamente metaforico. "Strawberry Fields Forever" è un pezzo sulla morte? («Let me take you down, ‘cause I’m going to Strawberry fields...»: quei campi di fragole sono un’ipotetica terra promessa?). Certamente "A Day in the Life" (gemma universale dall’altrettanto universale" Sgt. Pepper’s", 1967) narra di vita e di morte tanto da ispirare sinanche il Kubrick di" 2001 Odissea nello Spazio", così come" In My Life" (da ""Rubber Soul", 1965) ricorda gli amici passati a migliore vita. 



SÌ, UN EPITAFFIO
Ma raramente John ha ipotizzato o giocato con la propria morte, contrariamente a quello che avevano fatto sia Hendrix che Morrison o, più tardi, Kurt Cobain (tanto per citare un’altra icona ovvia della mitologia rock). Casomai è stato Paul a indugiare - in maniera un po’ «piccoloborghese», se volete - sulla vecchiaia o sulla morte, in pezzi come "Rocky Raccoon", "Eleanor Rigby", "The End "(«and in the end, the love you take is equal to the love you make»: e" alla fine, l’amore che prendi è uguale all’amore che dai.".. un bellissimo epitaffio). Tutto sommato strano, se si pensa che John la morte l’ha conosciuta bene, l’ha avuta nelle ossa sin da ragazzo: sua madre Julia, dalla quale era stato separato all’età di cinque anni, morì in un incidente stradale quando lui di anni ne aveva diciassette. Ma è la madre il suo tema, non la morte. È l’assenza, la nostalgia, la mancanza, il rifiuto, il dolore. È "Julia," infinita gemma d’amore dal "White Album" (1968): «Metà delle cose che dico non hanno senso, ma le dico solo per raggiungerti, Julia... Julia, figlia dell’oceano, mi chiama, così canto una canzone d’amore per Julia, Julia occhi di conchiglia, sorriso di vento... i suoi capelli di cielo fluttuante luccinano, scintillano nel sole». Non c’è tempo, non c’è vecchiaia, non c’è morte. C’è amore e nostaglia. Immagine capovolta in "Mother", sempre da "Plastic Ono Band" (1970): «Madre, tu hai avuto me ma io non mai avuto te. I ti volevo, ma tu non volevi me. Così devo dirti addio, addio».

IL RITMO DEL MITO
È dal 2000 che tutti scriviamo articoli sul rock che è entrato nella terza età: esattamente dal giorno in cui dettero a Bill Wyman, bassista dei Rolling Stones, il tesserino da anziani per viaggiare a prezzo ridotto sull’autobus. C’è Dylan - il più profondo cantore del tempo dopo Omero, si potrebbe dire - che brandisce la vecchiaia come un vessillo, per dare alla propria storia e alla propria musica il ritmo di una mitologia eterna, ben oltre quella del rock. Ci sono Mick Jagger e soci, con i loro defibrillatori sul palco a ballare ancora il loro selvaggio blues con Satana in persona. C’è McCartney, che veste eroicamente i panni dell’unico detentore ufficiale della "Wunderkammer" dei Beatles. Ma Lennon è di un’altra stoffa (senza togliere nulla a quegli altri: è dura portare sulle proprie spalle il peso di una storia così ingombrante, è dura attizzare ogni giorno il motore del sogno). Nel bene e nel male (male mediatico, s’intende), per l’immaginario comune Lennon è una sorta di divinità postmoderna, una specie di santo, è «Mister Utopia», nonostante quel tanto di droga, le persecuzioni dell’Fbi, il rapporto edipico con Yoko Ono, le nevrosi da recluso di lusso nel Dakota Building (la sua ultima casa a New York City, davanti al cui ingresso gli sparò il «nowhere man» Mark Chapman). John forse risponderebbe: «Io un dio? Macché: siamo tutti quanti dio».

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