Definire la Pace
di Lidia Menapace
Tratto da La Nonviolenza e’ in Cammino

[Da "Alternative" n. 4 riprendiamo il seguente articolo disponibile anche nel sito: www.alternativebo.org
Lidia Menapace (per contatti: lidiamenapace@aliceposta.it) e' nata a Novara nel 1924, partecipa alla Resistenza, e' poi impegnata nel movimento cattolico, pubblica amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto"; e' tra le voci piu' alte e significative della cultura delle donne, dei movimenti della societa' civile, della nonviolenza in cammino. La maggior parte degli scritti e degli interventi di Lidia Menapace e' dispersa in quotidiani e
riviste, atti di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. Il futurismo. Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968; L'ermetismo. Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968; (a cura di), Per un movimento politico di liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con Chiara Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa, Sinistra indipendente, Roma 1988; Il papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la luna, Milano 2000; Resiste', Il dito e la luna, Milano 2001; (con Fausto Bertinotti e Marco Revelli), Nonviolenza, Fazi, Roma 2004]


Esistono molte definizioni di guerra e regole per condurla e persino per giudicare quando sia "giusta", e testimoniano il costante sforzo umano per tenere sotto controllo un fenomeno storico-politico, un'istituzione giuridico-sociale unanimemente ritenuta tragica, infausta, negativa. Da quando nelle antiche litanie essa fu inclusa negli eventi deprecati, quasi esorcizzandola, "A peste fame et bello libera nos Domine"; fino alle sofisticate procedure per l'inizio, la sospensione, la tregua, la fine, non mancano testi in proposito. Che la guerra dovesse essere dichiarata formalmente dagli ambasciatori e alcuni giorni prima di iniziarla per consentire alle rappresentanze diplomatiche e ai civili divenuti "nemici" di poter rientrare in patria, sono tutti segni che la guerra e' considerata un'interruzione drammatica e grave delle normali relazioni diplomatiche e di ospitalita'; che si debba concludere con un armistizio e poi definire con un trattato e' pure una dottrina giuridica costantemente applicata. Chi vi si sottrae incorre in un pesante giudizio negativo, come tocco' ai Giapponesi per aver aperto le ostilita' verso gli Usa nella seconda guerra mondiale prima di aver formalmente dichiarato guerra. Anche sull'esclusione delle popolazioni civili dal teatro di guerra esiste una costante dottrina, cancellata dalla teoria mussoliniana della guerra "totalitaria", che include attacchi aerei sulle citta' (il fronte interno) per fiaccare la resistenza delle truppe al fronte. Sul trattamento dei prigionieri di guerra parlano i trattati di Ginevra che contemplano comportamenti umani e non degradanti e il diritto riconosciuto alla fuga. Anche chi insorge nel suo paese occupato da truppe straniere gode di una protezione giuridica e di una legittimazione: non puo' essere giudicato "un delinquente, un bandito, un terrorista".
Quanto alla definizione di guerra come "conflitto interstatale armato", essa e' generalmente accolta. E anche la definizione di "guerra giusta" sembra intesa a limitare gli eccessi e il dilagare dell'illegalita': si definiva infatti guerra "giusta" quella intrapresa da uno Stato che aveva subito un torto ed esperite tutte le forme possibili di trattativa per il recupero, senza risultati, entrava in guerra; ma nel recuperare il maltolto doveva rispettare una certa proporzione tra danno e risarcimento. L'invenzione e l'uso delle armi nucleari rende impossibile questa definizione. Dopo Hiroshima non e' piu' possibile chiamare "giusta" una qualsiasi guerra, e infatti la Carta delle Nazioni Unite definisce la guerra sempre un crimine e autorizza, a determinate condizioni, solo interventi di polizia internazionale. Nella dottrina della chiesa cattolica dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII in poi essa e' definita come un evento alienum a ratione, cioe' un'assoluta irrazionalita', giudicata dal cardinal Ottaviani "omnino vitandum", da evitare a ogni costo. Si possono citare come precursori di questa dottrina la definizione della prima guerra mondiale come "inutile strage" secondo Benedetto XV, e orrore di "proletari che, travestiti da militari, si sparano addosso agli ordini delle rispettive borghesie nazionali", secondo Rosa Luxemburg.
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Tutto cio' che ho sommariamente enunciato sarebbe considerato da von Clausewitz uno sforzo inutile o ipocrita, dato che - secondo il grande teorico della guerra - essa e' per natura senza limiti e qualsiasi tentativo di tenerla sotto controllo e' destinato a essere frustrato. La guerra e' un mezzo "assoluto" e non tollera limitazioni fino alla distruzione del "nemico", non gia' - si guardi bene - al raggiungimento degli scopi per i quali fu dichiarata (come, ad esempio, l'esistenza di armi di distruzione di massa). La guerra ha dominato la storia e non a caso generali e capi di Stato si fregiano di titoli bellici ("sono un presidente di guerra", si vanta Bush), mentre chi si e' opposto alla guerra non e' altrettanto ricordato. Benedetto XV e' l'unico pontefice del XX secolo per il quale non sia stata iniziata una procedura di canonizzazione, e Rosa Luxemburg pago' con la vita e una certa rispettosa oscurita' il suo tenace antimilitarismo.
La pace, unanimemente chiamata buona, felice, desiderabile, non e' invece definita giuridicamente se non come cessazione delle ostilita'. Non esiste infatti una definizione giuridica di pace per se', della pace come normale relazione tra gli Stati e i popoli. Gli eserciti sono una delle principali espressioni della sovranita' dello Stato. A meno di una dichiarazione di neutralita', nel qual caso gli armamenti e gli eserciti subiscono significative diminuzioni qualitative e quantitative.
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Dalla fine della seconda guerra mondiale in poi il carattere della guerra e la sua definizione muta: come dicevamo, dopo Auschwitz e Hiroshima la misura e' stracolma e non si puo' piu' considerare senza limiti la sovranita' statale rispetto ai diritti umani e alla possibilita' di dichiarare legittimamente una guerra. Le Nazioni Unite vengono costruite sul presupposto che la guerra e' un crimine e compito della comunita' internazionale organizzata sia di preservare le generazioni da tale orribile destino. Tanto che una polizia internazionale avrebbe dovuto essere costituita, come pure una magistratura, un diritto e un tribunale per reprimere, catturare e processare coloro che a tale crimine tentassero di far ricorso. Questo perche' dopo Auschwitz e Hiroshima, come si diceva, non esiste piu' la possibilita' di un qualsiasi equilibrio tra fini e mezzi. Siamo, per cosi' dire, necessitate e necessitati alla pace se non vogliamo che l'umanita' finisca. La guerra e' posta fuori legge. La pace diventa il fine, la meta e insieme lo strumento delle relazioni tra i popoli e gli Stati, e le sue procedure, lo strumento per governare i conflitti territoriali, culturali, economici, religiosi e di identita'. Questa e' la novita' del millennio appena iniziato, ma tarda a farsi strada: anzi il millennio si inaugura con un vigoreggiare di guerre non dichiarate, dimenticate, quasi clandestine, e con il sempre maggior peso che eserciti, stati maggiori e produzione d'armi assumono anche nella gestione della politica e dell'economia. Una terribile barbarie investe i paesi di piu' avanzato stato di tecnologia e ricchezza. Di fronte al potenziale distruttivo delle armi, non per caso dette da chi le possiede "di distruzione di massa", non vi e' alternativa alla pace, se non la distruzione. Che cosa e' dunque la pace? Non e' assenza di conflitti e stato d'animo arrendevole, non virtu' e rassegnazione, ma un'impresa molto coinvolgente e coraggiosa intesa a far uscire la guerra dagli orizzonti del vivere associato. Come cominciammo a dire noi femministe a partire dalla prima guerra del Golfo: "Fuori la guerra dalla storia!". Cio' comporta il disinquinamento del linguaggio politico dal simbolico bellico, e la riscrittura della storia a partire dalle operazioni di convivenza e dagli accordi, e non dalle guerre generatrici di morti eroiche.
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Provo a definire la pace come nozione politica: "governo nonviolento dei conflitti". E per ora mi attengo a tale definizione che non nega l'esistenza di conflitti, ne' copre la loro possibile legittimita' e persino opportunita' storica. Vale ad esempio per il conflitto sociale o di classe, e per il conflitto di genere: cio' comporta che si studino mezzi e forme per governare appunto i conflitti come norme contrattuali, liberta' sindacale, legittimita' dello sciopero, definizione di lavoro come fondamento della convivenza civile ecc, oppure leggi per stabilire parita' di accessi ai diritti di cittadinanza, voto attivo e passivo, accesso alla rappresentanza per le donne, norme per la tutela dei diritti di chi arriva in un paese per ragioni di persecuzione politica o religiosa o di comportamenti e scelte sessuali, iniziative per la salvaguardia degli equilibri ambientali, ecc. Una ricca produzione di leggi e norme, una cultura che le fissi nella coscienza delle persone sono necessarie. E quindi una forte pratica politica generale e la costruzione di una adeguata cultura e teoria.

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