Gestione Nonviolenta del Conflitto: Cultura, Forme, Istituzioni
di Lidia Menapace

1. La guerra è sempre un crimine

Vorrei collocare quello che verrò dicendo in questo tempo, perché mi risulta impossibile introdurre accademicamente il tema di questa sera, che intende essere un tentativo di risposta alla domanda: "è possibile una politica di pace?". Introdurre una risposta a questa domanda non è possibile se non si ricorda quello che sta succedendo in Libano o in Liberia, o cosa ancora è minaccioso nella ex-Jugoslavia. Sarebbe astratto incominciare a pensare senza fare riferimento a tali realtà, perché questi soli tre nomi significano sostanzialmente che una politica di pace ancora non esiste. Ci sono solo tentativi per sedare i conflitti, per chiudere delle guerre. E tutto questo, che è solo una specie di balbettamento anche se bene intenzionato, significa che nel pensiero politico non c’è ancora una fondazione teorica sufficiente, e non voglio dire adeguata, di una politica della pace.

Ci avventuriamo dunque su un terreno del tutto nuovo, instabile, incerto, senza indicatori, ci avviamo su una strada da tracciare. Conviene ricordare ciò, perché le cose che verremo dicendo sono di carattere sperimentale e induttivo. E però, mentre sono sperimentali e induttive, queste parole non sono così tranquille come quando si fa una riflessione in laboratorio su una situazione stabile, perché sono mescolate con vicende che non possono lasciarci indifferenti, sia per la carica di ferocia e di disumanità che portano con sé, sia per la carica di pericolo che in qualche modo esprimono. Non si tratta soltanto di eventi calamitosi per i quali la nostra coscienza sobbalza e il nostro cuore geme, ma si tratta di fatti calamitosi per i quali l’intera nostra esistenza è minacciata, è messa in difficoltà: una qualche ansia si insinua nelle nostre giornate, si aggiunge a quelle che già ci sono, ma è un ansia più greve, più profonda, più lancinante, perché riguarda la possibilità di eventi così drammatici come sono le guerre.

D’altra parte io non posso nemmeno ricordare questa data senza pensare che è così vicina al 25 aprile, una data che ricordo bene. Ero allora ragazza, avevo fatto la guerra di resistenza, sono stata staffetta partigiana nella mia città Novara, una città importante nella guerra partigiana, e mi ricordo non solo la gioia perché finalmente era finita, ma anche la convinzione che fu allora delle giovani generazioni che avevano partecipato alla resistenza, di aver concluso l’ultima guerra che si sarebbe mai combattuta. Questa convinzione non era soltanto frutto di una giovanile improvvisazione o di puri desideri, ma era talmente partecipata dai poteri politici, sia pure in forme che non si sono realizzate, che di lì a poco la carta che fondava le Nazioni Unite cominciava dicendo, dopo un breve accenno ai lutti e alle rovine della Seconda guerra mondiale, che si poteva da quel momento dire che la guerra è sempre un crimine.

La riflessione su una possibile politica di pace parte da questa definizione: la guerra è sempre un crimine. Questa definizione capovolge una lunga riflessione del pensiero politico e giuridico-politico, per il quale la guerra è stata definita un mezzo, uno strumento per risolvere i conflitti, per riparare delle ingiustizie, per misurare i rapporti di forza reali. Varie opinione sono state dette di questo evento: espressione dell’aggressività umana innata, invincibile. Tutta una serie di definizioni hanno considerato la guerra qualche cosa intorno alla quale non si dà previamente un giudizio etico, ma si cerca di capire che cosa è. In più, quando ci si approssimava ad un giudizio etico, si cercava sempre di distinguere le guerre giuste dalle guerre ingiuste: quindi l’approssimazione etica considerava l’ipotesi che la guerra potesse essere anche una cosa giusta. Invece la carta delle Nazioni Unite tronca questo pensiero, lo mette fuori dalla storia, perché afferma che la guerra è un crimine, e quindi va repressa.

Questa definizione si sostituisce alla più celebre definizione politica di guerra data da Von Clausewitz nei suoi Pensieri sulla guerra. Certamente è la riflessione più lucida che sia stata fatta su questo evento, con anche grande onestà intellettuale. Von Clausewitz dice: "La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi", continuazione necessaria quando la politica non riesce più a risolvere i conflitti che si sono annodati. Dunque fra guerra e politica Von Clausewitz mette una continuità. Per questa ragione non vi è motivo di scandalo: si può dire che vi sono degli eccessi, ma questi ci sono anche nella politica. Interviene in questo modo una sorta di giudizio etico di seconda istanza sugli eccessi, ma non sul fatto in sé. Von Clausewitz, dunque, raccoglie la riflessione sulla guerra a lui preesistente, e dà questa lucidissima e intellettualmente onesta definizione: la guerra è la continuazione della politica, quando questa si trova di fronte a problemi così annodati che non possono essere più risolti con metodi "politici". Questa definizione contiene anche altre osservazioni molto acute. Ad esempio Von Clausewitz osserva che la guerra è uno strumento assoluto: dopo che la politica ha usato tutti gli strumenti possibili e non è riuscita a risolvere i problemi, in extremis dà il via a quest’altro strumento, la guerra, che dunque è assoluto. Tantoché, aggiunge Von Clausewitz, chiunque parla di limitazione, attenuazione, umanizzazione della guerra o mente o non sa di cosa parla. In questo consiste la sua onestà intellettuale. Siccome la guerra è uno strumento assoluto è inutile pensare che lo si possa contenere: sarebbe una contraddizione di termini. Se un mezzo è assoluto, allora si dispiega fino a quando non ha finito. Non si può dire: facciamo "un po’" di guerra, facciamo una guerra in tono minore, facciamo una guerra con contenimento umanitario. Questo non è possibile, ed è in contraddizione con l’idea di guerra, che è di per sé uno strumento assoluto, che non ammette contenimenti.

Credo che questa parte del ragionamento di Von Clausewitz sia ancora estremamente attuale: è vero che la guerra ha questa caratteristica di non poter poi essere contenuta e limitata. Tutti i protocolli internazionali sull’umanizzazione della guerra, sulla tutela delle popolazione e dei prigionieri valgono fino a quando un Hitler qualsiasi non dichiara che tutti i trattati sono solo pezzi di carta e che lui fa quello che vuole. D’altra parte la stessa tutela delle popolazioni civili, dalla Seconda guerra mondiale in poi, quando Hitler individua nella popolazione civile il punto debole della possibile resistenza del nemico riconoscendo nelle città obiettivi militari, viene esclusa dalla gestione delle guerre. Questo è stato il punto in cui l’assolutezza della guerra si è mostrato nella sua forma più estrema. La città, che è il luogo in cui comunemente la popolazione civile rimane, e che quindi viene generalmente dalla guerra scartata (le città subiscono assedi oppure vengono saltate perché lo scontro si fa sul campo, e rimanevano in qualche modo isolate dall’essere considerate direttamente obiettivi militari), la città diventa per la guerra da Hitler in poi il principale obiettivo militare. È probabile che non riusciamo più ad avere la sensazione sconvolgente di questo mutamento, perché ormai ci abbiamo vissuto in mezzo tanti anni. Ma quando avvenne per la prima volta che una città fu colpita a freddo bombardando la popolazione civile, l’emozione fu tale che Picasso dipinse Guernica. Questo quadro rappresenta il primo bombardamento a freddo dell’aviazione hitleriana di una piccola città nel corso della guerra di Spagna, tantoché Guernica è diventata il simbolo di tutte le città che sono state colpite come obiettivi militari non per caso, ma intenzionalmente. Esiste anche una parola: "coventrizzare", che significa bombardare Coventry, in Inghilterra, come fu fatto dall’aviazione nazista e fascista durante le Seconda guerra mondiale con l’intenzione di ridurre la città a cenere. Poi naturalmente gli alleati replicarono, e Dresda è una città ridotta dagli angloamericani in rovine. Quando anche l’asilo urbano viene scientemente violato, siamo nella massima espansione della definizione di guerra di Clausewitz come strumento assoluto. La conclusione è che dalla Seconda guerra mondiale in poi le vittime civili delle guerre sono più numerose dei caduti militari: è evidente il carattere totale della guerra, che non lascia asili, luoghi marginali, luoghi franchi, città aperte o altre cose del genere.

Ma nello stesso momento in cui la definizione di Clausewitz riceve storicamente il massimo d’affermazione, l’evento Hiroshima mette quella definizione in crisi, perché quando l’uso degli strumenti distruttivi è tale da non lasciare adito alla continuazione della vita, allora la guerra arriva a un tale livello di irrazionalità che giustamente le Nazioni Unite la definiscono sempre un crimine. Quando la distruzione di massa diventa così repentina, incontrovertibile, eccezionale, diffusa e per di più con la possibilità di proseguire i suoi effetti addirittura sulle generazioni future, come accade con le radiazioni atomiche, siamo fuori persino dalla definizione della guerra come continuazione della politica con carattere di assolutezza. Abbiamo oramai una guerra come crimine contro la vita, contro la natura, contro la storia.

Il pensiero di una possibile politica di pace, o il pensiero politico pacifista nasce con Hiroshima. Il pacifismo moderno, e non il semplice anelito alla pace che c’è sempre stato ma non ha fermato mai una guerra, il tentativo di definire in termini giuridico-politici un altro modo di riflettere intorno alla guerra nasce con Hiroshima, cioè con l’oltraggio insopportabile di strumenti di distruzioni tali che la loro permanenza minaccia il nemico fino a due generazioni seguenti. Questo è un fatto importante, ma è anche un limite del pensiero pacifista che ha sviluppato la sua politica di pace nei primi decenni seguenti la Seconda guerra mondiale essenzialmente puntando sulla paura del nucleare. La paura del nucleare è assai razionale, chi non ha paura del nucleare è pazzo, è folle. Come pure avere paura della guerra è un fatto assolutamente umano e ragionevole. Non aver paura della guerra non vuol dire essere eroi o coraggiosi, vuol dire essere pazzi, fuori da qualsiasi razionalità. Però fondare esclusivamente sulla paura del nucleare la formazione di una coscienza politica di pace è insufficiente. Infatti, dopo le grandi manifestazioni che in tutta Europa hanno dato la misura di quanto le popolazioni europee, che pure non avevano subito direttamente la minaccia atomica ma che continuamente temevano che questa potesse presentarsi, il pensiero militare ha cambiato forma dimostrando di essere più scaltro, avveduto e storicamente più fondato di quanto non fosse il pensiero pacifista. Infatti sono state inventate le guerre subatomiche, le guerre regionali, cioè delimitate per territorio, le guerre che possono essere tenute sotto controllo.

La guerra del Golfo è la grande risposta del pensiero militarista all’insufficienza politica del pensiero e della pratica pacifista, perché dalla guerra del Golfo in poi la guerra comincia a rilegittimarsi nella coscienza popolare. Cade questo schermo di rigetto sia pure per paura e si ricomincia pensare: "...però, insomma, se avviene lontano..., se le bombe sono intelligenti..., se si tratta di un’operazione chirurgica...". Se la guerra è presentata con un linguaggio simbolico che allude ad una sua utilità, allora viene in qualche modo accettata. Voglio osservare che la guerra viene presentata in questa nuova forma non come una cosa giusta, ma come una cosa utile. C’è una specie di mutamento dello spettro etico entro cui la guerra viene collocata. Non si dice più che la guerra è giusta. D’altra parte è difficile commuovere le persone sulla sorte degli emiri dell’Arabia Saudita, che non sono soggetti facilmente portatori di emozioni positive nell’opinione pubblica mondiale: dire "corriamo in soccorso degli emiri e degli sceicchi, difendiamoli in nome della giustizia" non avrebbe commosso nessuno. Invece si introduce l’elemento della guerra utile: "è un’operazione chirurgica". Nessuno ama le operazioni chirurgiche ma sa che sono utili, nel senso che risanano da una malattia. In questa nuova edizione l’evento bellico non è più presentato come qualcosa intorno a cui richiamare grande passioni come la difesa della patria, della civiltà, dell’occidente, del cristianesimo, dell’islam, tutti messaggi che danno una specie di giustificazione etica o addirittura religiosa della guerra. La novità è che ci troviamo di fronte a una giustificazione di tipo utilitaristico. Siccome, per altro, nel periodo in cui viviamo il tema dell’utilità è molto sentito, questo strumento è molto efficace nel legittimare nuovamente la guerra.

 

2. Per un nuovo pensiero politico pacifista

Se ho tracciato in maniera sommaria queste tappe sul pensiero intorno alla guerra è perché vorrei che ci sforzassimo di considerare la fondazione di una politica della pace come un’impresa teoricamente, culturalmente, eticamente impegnativa e di grande fascino. Si tratta di dare risposta ad una questione rimasta aperta dalla Seconda guerra mondiale in poi, quando finisce il possibile utilizzo positivo, storicamente accettabile della definizione che Von Clausewitz ha dato della guerra come continuazione della politica con altri mezzi di carattere assoluto. La guerra non è più questo, ma è, ad esempio, un intervento chirurgico sul tessuto canceroso della convivenza umana, è un taglio brutale, ma necessario. Questa è la nuova teoria della guerra, che ci viene presentata come un intervento che risana un tessuto ammalato. La risposta che viene data dalla pratica e dal pensiero pacifisti non è adeguata, perché è rivolta all’indietro: la guerra è il mostro che fa paura, il che è vero ma non basta, tantoché la guerra ha fatto di nuovo dei passi in avanti nella coscienza comune. Non c’è più una immediata e istantanea forma di ripulsa. È comune sentire persone che dicono: "quando proprio non si può fare altro...", che è un modo popolare di riformulare la definizione di Clausewitz. Anche alcuni pacifisti hanno detto: "...beh, in Bosnia intervengano pure militarmente, cosa si deve fare, piuttosto del massacro!". Questo ci fa capire che non siamo riusciti ad elaborare un vero pensiero politico sulla pace, se noi stessi e noi stesse pacifisti ci troviamo a non avere argomenti convincenti per resistere alla richiesta di intervento armato che periodicamente viene avanti.

Ritorniamo alla carta delle Nazioni Unite, che rimane un punto nettissimo, un aggancio assai importante, benché il suo valore giuridico sia praticamente nullo in quanto non è uno strumento di diritto internazionale, e non ci sono sanzioni per chi la viola. Però si tratta di un alto messaggio etico-politico, ed anche di qualcosa che ha dietro di sé grumi di potere non del tutto indifferenti. Questa carta delle Nazioni Unite, dopo aver definito la guerra un crimine, non prosegue dicendo che tutti quelli che fanno la guerra sono "cattivi", perché uno strumento politico fatto da stati assai potenti non può continuare in questa maniera un po’ ingenua e moralistica di discutere intorno alla guerra. Avendola definita un crimine, ovviamente richiama la risposta che gli stati danno ai crimini: organizzano la pubblica sicurezza, la polizia. Il crimine è definito, non si devono commettere crimini, ma siccome non si può presumere idealisticamente che basti dire "non devi rubare" perché nessuno rubi, allora si dice "non devi rubare, e se rubi allora ti metto in galera". Ti becco, provo, che hai rubato, e ti condanno. Quindi intervengo con un’operazione di polizia e di pubblica sicurezza. Infatti la carta delle Nazioni Unite parla di un sistema di polizia internazionale che dovrebbe servire per intervenire contro il crimine guerra. Questo è un punto che è stato pochissimo e male elaborato. Inoltre questo aspetto della carta delle Nazioni Unite non ha mai avuto un’adeguata esecuzione: tutti gli stati avrebbero dovuto mettere a disposizione 5000 persone addestrate in operazioni di polizia internazionale, mentre tutti gli stati mettono a disposizione pezzi dei loro eserciti a cui cambiano l’elmetto: gli mettono il casco blu e diventano polizia internazionale. A questo punto c’è una prima osservazione da fare: la formazione di un corpo di polizia è essenzialmente diversa dalla formazione di un corpo militare. Il poliziotto può commettere abusi, ma comunque chi fa parte di un sistema di pubblica sicurezza o di polizia è addestrato a catturare il criminale possibilmente vivo, ad agire per la difesa dei cittadini innocenti, e non a sparare nel mucchio, altrimenti commette un abuso e può e deve andare in processo. Al contrario il soldato è addestrato e ha il dovere di sparare contro chiunque abbia la divisa di un altro colore. È sufficiente un diverso colore della divisa perché uno senta dentro di sé il comando di sparare. Non si può dunque trasformare un pezzo d’esercito, per di più professionale, come sono molti dei corpi utilizzati dall’ONU, in un’organizzazione di pubblica sicurezza. Al massimo si possono utilizzare delle truppe di leva, considerato il fatto che hanno paura anche loro e che quindi non si espongono troppo, per il loro scarso tasso di militarismo, dunque. Ma quando si tratta di corpi speciali volontari addestratissimi, far finta che, mettendogli in testa un casco blu, diventino dei corpi di polizia, è proprio una finzione delle più balorde, che per di più espone queste persone a rischi oppure a repliche indiscriminate e violente.

Ora occorre affrontare il problema di come collocarsi di fronte a questo grumo di questioni che si sono annodate negli ultimi decenni. La guerra non può più in alcun modo essere definita uno strumento risolutivo dei conflitti troppo annodati a cui la politica non riesce a dare una risposta, e non può essere in alcun modo definita giusta. Inoltre la guerra implica una grande sproporzione fra mezzi e fini, fra offesa e risposta. Qualunque cosa un popolo ritenuto colpevole abbia fatto, anche invaso un pezzo del tuo territorio, questo non giustifica che tu lo distrugga, lo massacri, bombardi le sue città, ammazzi i civili, fai delle rappresaglie. Tutte queste cose non sono giustificabili. Quindi la guerra resta un crimine: da questa definizione non conviene tornare indietro, perché è un punto molto elevato, molto avanzato della riflessione etico-politica.

 

3. Che fare?

La cultura che noi assorbiamo anche criticamente non ha dentro di sé questa affermazione: che la guerra è sempre un crimine. Dobbiamo rovesciare questa situazione, quindi dobbiamo incominciare a far politica a partire dal fatto che la guerra è sempre un crimine. Persino nelle costituzioni in cui questo è detto, questa parte non è diventata cultura politica. L’art.11 della Costituzione italiana afferma che l’Italia "ripudia la guerra". Il verbo ripudiare non è un termine giuridico, e infatti nei testi giuridici non si trovano delle parole così emotive. Ripudiare vuol dire una forma di rigetto esistenziale: la guerra mi fa schifo, mi rovescia le budella, è qualcosa di molto profondo. La parte dell’articolo che recita "l’Italia ripudia la guerra come offesa alla libertà degli altri popoli" è stata imposta all’Italia, come alla Germania e al Giappone, dai vincitori che hanno imposto agli sconfitti di scrivere nelle rispettive costituzioni che non avrebbero fatto più guerre d’aggressione. Ma in più i nostri costituenti aggiunsero, e questa è la parte più significativa e più carica di futuro, che la guerra viene ripudiata anche "come strumento di risoluzione delle controversie internazionali". In presenza di controversie internazionali, nelle quali anche noi avessimo ragione, non siamo legittimati dalla nostra Costituzione nemmeno a pensare che potremmo fare una guerra per risolvere a nostro favore la controversia.

Dunque la nostra Costituzione ci obbligherebbe da cinquant’anni in qua a darci da fare a studiare come si fa ad aver ragione in una controversia internazionale senza fare ricorso alla guerra, cioè come si fa una gestione non violenta di un conflitto politico. Questa cosa non è viva nel nostro dibattito politico, non è un meccanismo che scatta. Mentre se c’è un attacco alla libertà di stampa o alla indipendenza della magistratura, c’è un’emozione, almeno nella stampa, immediata e anche una qualche partecipazione popolare. Questa cosa ci scatta spontaneamente, tantoché coloro che vogliono minacciare la libertà di stampa e l’autonomia della magistratura sono obbligati a giustificarsi dimostrando che ciò non è vero. Ormai nella coscienza popolare l’idea che la libertà di stampa sia un prezioso valore, e che l’autonomia della magistratura vada rispettata c’è. Mentre quando si tratta di guerre non scatta una reazione analoga. Questo torpore morale nei confronti della guerra è iniziato con la spedizione italiana in Libano voluta dal governo Spadolini, spedizione che era incostituzionale: soldati di leva, per di più, mandati fuori dai confini per una operazione di tipo militare. Non disse niente quasi nessuno. Da quel momento in poi di invii di truppe italiane in varie parti c’è ne sono stati molti altri, e sempre più oramai di corpi professionali. Per questa strada si costruisce l’esercito professionale italiano, che è sbocco quasi inevitabile. Ma il problema è che se viene costruito attraverso questa strada, diventerà un esercito professionale che chiederà la modifica dell’articolo 11. Di fatti la richiesta della modifica dell’articolo 11 c’è già, nel senso che si chiede che l’Italia faccia una politica di sicurezza con la possibilità di intervenire ovunque gli interessi nazionali siano minacciati. Il passaggio da difesa a sicurezza è un passaggio pericolosissimo. L’arbitrio interpretativo dell’espressione "ovunque gli interessi italiani siano minacciati" è tale da giustificare qualsiasi intervento. Tutto questo può succedere perché fra i primi 11 articoli della Costituzione, quelli che ne caratterizzano il volto, l’art.11 è particolarmente messo in dubbio e scavalcato nella sua formalità dalla cosiddetta costituzione materiale. Così il pratico modo di agire e la formazione dell’opinione intorno a questo articolo sono già mutati, e questo dipende dal fatto che non siamo riusciti a motivare e ad agganciare a queste affermazioni lo stesso sentimento di democrazia minacciata come invece accade quando si verifica un attacco ad esempio alle libertà individuali (art.3) o alla libertà di pensiero ed espressione. È vero che anche altri articoli non suscitano sempre una grande emozione. Ad esempio il fatto che il razzismo sia solennemente bandito dalla nostra Costituzione non fa sì che immediatamente scatti una emozione popolare negativa quando avvengono fatti razzisti. Generalmente si dice "...sono ragazzate, ...episodi singoli". Ma quando uno ruba, sarà un episodio singolo, ma resta un furto. Analogamente un gesto razzista sarà un gesto singolo, ma resta un gesto razzista e non un’altra cosa. Anche su questo la coscienza popolare non è altrettanto viva come su altre cose. Quindi degli 11 articoli che disegnano il volto della nostra Costituzione non tutti hanno lo stesso radicamento nella coscienza democratica del paese. E a mio parere, nonostante tutte le belle parole e gli orgogli con cui noi sbandieriamo, e questo termine militare indica già una contraddizione, il nostro art.11, in realtà lo sbandieriamo perché molto spesso lo violiamo.

Mi propongo, allora, di avviare una riflessione su come si può far diventare di nuovo reale, se possibile, l’art.11 della Costituzione, su come si fa a radicare nella coscienza popolare l’idea che sia possibile risolvere il conflitto senza fare ricorso alla guerra, nemmeno ad una guerra chirurgica, limitata, fatta da eserciti professionali, che tra l’altro hanno il torto di scaricare la coscienza comune dall’idea di essere responsabili della guerra: "quando c’è l’esercito professionale la guerra la fanno quelli che la vogliono". In primo luogo questo non è vero, e poi comunque la paghiamo noi. E chi paga una cosa è in un certo modo il mandante. Come non si può essere responsabile di quelli che vanno a sparare con le armi costruite con le tasse che si sono versate? Anzi è un po’ più bieco che dire: "mi espongo anch’io!". E invece si pensa: "Pago i killer, però io non conto perché loro sono killer volontari". Questo è un rapporto facile dal punto di vista etico, ma è un po’ rozzo e insoddisfacente, anche perché là dove ci sono gli eserciti professionali non è vero che vanno a fare la guerra quelli che vogliono fare la guerra, a parte gli alti ufficiali delle accademie. Ad esempio l’esercito degli Stati Uniti, che da sempre è professionale e volontario, è fatto per il 60% da neri, chicanos e ragazze madri che sicuramente non sono il 60% della popolazione degli Stati Uniti: la rappresentanza non è proporzionalmente adeguata. Generalmente entrano nell’esercito persone che si trovano in grandi difficoltà come studenti che non hanno i soldi per finire l’università, oppure, cosa ancora più lamentevole e dolorosa, come neri e chicanos, che dopo aver svolto il servizio militare sperano di aver dato una prova di lealtà allo stato tale da poter essere accolti nella società americana. Queste sono condizioni di libertà e di volontà un po’ dubbie. Il dibattito sull’esercito professionale, inevitabile ormai, e altre forme di servizio alla comunità è di estremo interesse, ma ora non possiamo trattarlo più a fondo.

 

4. Nominare i conflitti. Il conflitto sindacale

Allora, come si risolve la questione della gestione non violenta del conflitto? Dobbiamo almeno proporci alcune procedure mentali, e poi ciascuno cercherà di applicarle lì dove vive. Quando si parla di una "azione di movimento", la metodologia è questa: io mi convinco di alcune cose e poi cercherò di applicarle, esprimerle e farle conoscerle lì dove ho le mie relazioni sociali, dove parlo con altre persone: nella scuola, nella mia famiglia, nella professione, nel mio partito, nel sindacato.

La prima cosa da fare è prendere l’abitudine di nominare sempre tutti i conflitti, e di non avere paura dell’esistenza del conflitto. Il conflitto c’è, e coprirlo è sbagliato. Anche aver paura, vergogna, timore o senso di colpa del conflitto è sbagliato. Anche di fronte a tutti i malesseri, riconoscere che ci sono è ragionevole. Uno che dicesse che non c’è disoccupazione, non è un benefattore dell’umanità, ma è un cretino, perché la disoccupazione c’è. Quando uno dice che la disoccupazione c’è, non intende dire che è una buona cosa, dice semplicemente che c’è. Allora il conflitto c’è, e ne esistono diverse forme. Esistono ad esempio dei conflitti di interesse fra varie classi o ceti sociali, e questo c’è. Ed è inutile dire che non esiste, oppure che dipende dal fatto che gli uni hanno l’odio di classe e gli altri la prepotenza dei padroni, spiegazioni moralistiche senza fondamento, che comunque non aggiungono niente al fatto che il conflitto c’è. Questo conflitto esiste ed è un conflitto di interessi. Il problema è un altro. Dobbiamo lasciare che si esprima selvaggiamente e vinca il migliore?

Tutta la storia del movimento sindacale ed operaio dimostra che è stata scelta un’altra strada: nominare i conflitti e cercare di trovare delle procedure per governarli. Il fine del sindacato, infatti, non è la distruzione fisica dell’avversario, ma la sua riduzione a più moderate richieste. Questo viene fatto attraverso una serie di comportamenti e scelte di mezzi. La lotta sindacale per definizione è la riduzione non violenta di un conflitto che poteva essere sanguinoso, e che talora lo fu. Questo conflitto viene tenuto sotto controllo, ma non nel senso che si dice che hanno ragione gli operai o hanno ragione i padroni, o nel senso che non è vero che il conflitto esiste e basterebbe essere buoni. Questi interessi sono realmente in conflitto fra di loro, e allora ci si organizza e si stabiliscono le regole di gestione del conflitto e anche le forme di lotta.

Tra le grandi organizzazioni sociali nell’età moderna il sindacato è quella che ha scoperto e praticato forme di lotta non violenta. "Forma di lotta non violenta" non vuol dire forma di lotta mite, o col sorriso sulle labbra, ma piuttosto forma di lotta che esclude la distruzione fisica dell’avversario, che sono dunque grandi manifestazioni, scioperi, picchetti, etc. Questi strumenti cercano di compattare una forza e presentarla in modo tale che poi si possa aprire la trattativa avendo manifestato la propria forza. Questa è una gestione non violenta del conflitto, e io voglio cominciare proprio da questa, perché molto spesso si crede che la gestione non violenta del conflitto sia la non gestione del conflitto: si sta lì e si prendono le sberle in faccia. Questa non è gestione non violenta del conflitto. La gestione non violenta del conflitto è anche forte, determinata, che vuol raggiungere degli obiettivi, e che solo esclude la distruzione fisica dell’avversario, esclude dunque che il conflitto diventi cruento. Ma il conflitto rimane tale e può esprimersi anche con forza: lo sciopero, il picchetto, la grande manifestazione non sono cose che non abbiano dentro di sé elementi minacciosi. C’è un conflitto di interessi!? Bene, io faccio mancare la mia forza lavoro e tu sei danneggiato.

L’esempio precedente significa che la gestione non violenta del conflitto comporta anche danni. Ad esempio quando a proposito della difesa popolare non violenta si dice che il sabotaggio è ammesso, si legittimano anche atti di forza come la distruzione di un ponte per fermare l’invasione del nemico. Quando si parla di gestione non violenta del conflitto bisogna intendere una cosa energica. Questa osservazione è importante, perché altrimenti si ha sempre l’idea che l’azione non violenta sia una resa più o meno sorridente ed eticamente nobile. Non è questo. L’azione non violenta è azione, e quindi comporta metodologie, organizzazione, espressione della forza e uso di mezzi. L’unica cosa che si esclude è la volontà di distruzione dell’avversario, e questo distingue teoricamente in maniera netta la gestione non violenta del conflitto dalla guerra, che invece è fondata sull’idea che il conflitto si può eliminare distruggendo uno dei due contendenti. Questa è la dialettica amico-nemico, per cui la mia vita è la tua morte, e non per cui la mia vita è la possibilità di tenere a freno la tua prepotenza obbligandoti a pagare qualche prezzo. Questa è la gestione non violenta del conflitto, la prima è la guerra, o gestione violenta dei conflitti, che significa non solo uso delle armi e versamento di sangue, ma significa soprattutto l’idea che il conflitto si possa risolvere solo cancellando uno dei due contendenti. La dialettica amico-nemico è fondata sull’idea che se io campo tu devi morire.

La guerra si basa sull’idea che il conflitto si risolve riducendolo, e d’altra parte per ridurre il conflitto si hanno quelli che dalla guerra del Golfo in poi si chiamano effetti collaterali. La morte dei nemici si chiama, infatti, "effetto collaterale". Durante la guerra gli americani dicevano ad esempio: "abbiamo avuto 400 morti, e poi abbiamo avuto alcuni effetti collaterali", e cioè sono morti qualche decina di migliaia di iraqeni. Si tratta degli effetti collaterali di un’operazione chirurgica.

Una delle invenzioni più clamorosamente geniali della guerra del Golfo è l’uso dei simboli linguistici, che, non a caso, sono stati studiati nei dipartimenti di linguistica delle università americane su commissione del Pentagono, perché oramai - lo dico con vergogna - i generali sono diventati intelligenti. Hanno così tanti soldi che possono comprare quasi tutte le università. Il complesso industriale-militare-scientifico è l’aggregato di potere più strepitoso ed enorme che ci sia al mondo. E i militari sono i migliori committenti che qualsiasi scienziato o produttore possa immaginarsi, perché chiedono solo una tecnologia che si usa una volta e poi scoppia e non serve più. Quindi tutti gli studi che si fanno sul riciclaggio, sulla conservazione dei materiali, sull’utilizzo delle macchine sono una rogna non da poco per chi produce. Al contrario i militari chiedono una cosa che scoppia, e che poi se ne fa un’altra. Sono tecnologie molto elementari, queste. Comunque i militari sono ottimi committenti, hanno soldi a non finire e quasi nessun controllo. È sufficiente pensare che la gestione dei 20.000 miliardi all’anno messi da parte nelle finanziarie per il nuovo modello di difesa sono dati, a prescindere completamente dalla situazione economica generale, senza resocontazione. C’è da sperare che siano utilizzati per amanti, ville, caviale, champagne, che almeno non fanno danni, perché se sono stati usati davvero per armi allora c’è da aver paura.

 

5. Il conflitto fra i generi. Azione non violenta

Abbiamo forse incominciato ad approssimarci all’idea di cosa sia la gestione non violenta del conflitto. Primo è la sua nominazione: si riconosce che c’è un conflitto, lo si chiama per nome e cognome. Ad esempio può essere un conflitto di interessi fra le classi, i ceti, le professioni, un conflitto economico che riguarda l’accesso alle risorse, il loro utilizzo e la loro trasformazione in merci, e quanto viene appropriato da chi mette il suo lavoro e da chi rischia il suo capitale, classicamente, sia pure oggi in modo più sofisticato e piò complesso. Si possono evocare anche altri conflitti. Ad esempio esiste un conflitto di interessi fra genere maschile e genere femminile, che non è la stessa cosa che dire che esistono conflitti fra il singolo uomo e la singola donna. Esistono anche questi, ma possono anche non esistere, visto che ci sono coppie felici all’interno delle quali non esistono conflitti. Ci sono partiti o sindacati dove le donne sono felicissime di come sono trattate, rappresentate, messe in lista o nelle candidature, fatte riuscire nei posti più strepitosamente importanti, e va benissimo. Ma lasciando stare queste isole felici, esiste tuttavia un conflitto di interessi fra i due generi. Questo conflitto di interessi è storico e dipende dal fatto che le vicende della storia hanno portato al fatto che uno dei due generi sia dominante, nel senso che, per esempio, nominando se stesso pretende di nominare l’intera specie umana. Avrete sentito parlare fino alla noia dei valori dell’uomo. Magari una donna dice 7000 volte: dobbiamo difendere i valori dell’uomo. Ma che se li difendano gli uomini i loro valori. Io vorrei difendere i valori delle donne, ad esempio. Perché non posso dirlo? Si risponde: quando si dice uomo, si intende anche donna, tanto siamo uguali. Allora io dico: siccome siamo uguali, io dico donna, e intendo anche uomo. E si capisce subito che non è uguale, perché se io dico di difendere i valori della donna, nessuno capisce che sto parlando anche dei valori dell’uomo. Questo significa che uno dei due generi è riuscito, essendo dominante, a imporre che la sua denominazione valga come neutro universale. Si tratta di un’operazione di una genialità strepitosa, che maschera il conflitto. Quando affermo che il genere maschile è il genere dominante intendo offendere gli uomini, perché considero "dominio" una parola oscena. Qualunque democratico che lotta contro il dominio delle multinazionali, non può essere contento di essere considerato lui stesso dominatore, altrimenti c’è una contraddizione insanabile: "Lottare contro il dominio delle multinazionali è utile, ed io eserciterei un dominio sull’altro genere? Dovrei vergognarmi".

Comunque c’è questo dominio storicamente consolidato, che si manifesta negli usi linguistici e soprattutto nella ripartizione del potere pubblico e sociale, e nel fatto che il genere femminile viene ammesso non contemporaneamente all’esercizio dei diritti: valga per tutti l’esercizio del voto come forma della cittadinanza. Generalmente si chiama suffragio universale quello di tutti gli uomini, che è l’espressione più tipica di questo gioco mentale per cui tutto il genere maschile è uguale alla specie umana. Le donne prima devono chiedere di poter votare, di poter andare all’università, di poter esercitare tutte le professioni. Nella storia del femminismo si ricordano una serie di episodi curiosi, come quello di una laureata in giurisprudenza che fece domanda per partecipare a un concorso nella magistratura quando ancora le donne non erano ammesse, e la domanda fu respinta perché "mancante del requisito del sesso". Nel senso che la tipa era sessuata, ma non era del sesso giusto, essendo una donna. A questo punto si chiede che questo requisito venga almeno considerato per com’è in natura nelle sue duplici due forme. Tutto questo riduce questo conflitto gradatamente, per lo più attraverso delle lotte non violente. Queste lotte non violente non sono dolci, perché generalmente dal suffragismo in poi l’espressione della rabbia delle donne per essere escluse dal godimento dei diritti politici e civili non si esprime in termini gentili: se mi ami concedimi il diritto di voto. Si esprime in forme molto dure: vergognatevi di tenerci fuori dal potere, cedete, mollate il potere della rappresentanza, riconoscete questo diritto.

Dal movimento del suffragismo in poi anche questo movimento di rivendicazione dei diritti politici e civili mette all’ordine del giorno nella storia il conflitto fra i generi, conflitto che era a lungo rimasto sedato, nascosto, gestito in forma di dominio da una parte e di pressione anche non consapevole dall’altra. Quando questo conflitto diventa consapevole, esso assume fin dalle suffragiste inglesi, e questa è la cosa interessante, forme e metodi di espressione non violenti. Le suffragiste inglesi invadono il parlamento e gettano volantini sulla testa dei deputati che stavano discutendo dei "bastardi", così si chiamavano i figli illegittimi nella legislazione inglese. In questo volantino c’era scritto: forse ci sono dei genitori illegittimi, certamente non ci sono dei figli bastardi, quindi evitate questa definizione, i figli sono tutti legittimi, forse i genitori quando li concepirono potevano non essere legati in matrimonio secondo le norme stabilite dal codice, ma questo non implica alcun giudizio sul frutto del concepimento. Oppure le suffragiste si legavano alle colonne davanti al parlamento e si sedevano per terra, cosa scandalosissima ai loro tempi, ed anche molto complicata con gli abiti che portavano, e i poliziotti e spesso anche i militari a cavallo inglesi non avevano il coraggio di calpestarle e quindi si fermavano. Queste forme di lotta come il volantinaggio, il legarsi ai simboli delle istituzioni e il sit-in sono stati inventati dal movimento suffragista e sono poi diventati patrimonio del movimento politico delle donne. Ghandi ha studiato le forme di lotta del suffragismo inglese e ha ricavato molte delle sue teorizzazioni sull’azione non violenta da lì. Anzi ha elaborato una specie di osservazione sulle varie fasi a partire da quella in cui un movimento rompe gli equilibri culturali, cioè nomina un conflitto, lo fa diventare visibile nella storia,

I movimenti che rompono l’equilibrio in un primo momento vengono ignorati, perché si spera in questo modo che il movimento si esaurisca da sé. Questa è una forma di guerra, perché ignorare vuol dire cancellare l’esistenza, è come dire: io campo se tu non ci sei. Dunque prima vengono ignorati, seppelliti nel silenzio, poi sono colpiti dal ridicolo. Infatti, non a caso le suffragiste furono chiamate in questo modo, dette generalmente zitelle insoddisfatte, che se avessero trovato qualche marito avrebbero smesso di chiedere il diritto di voto. E generalmente le barzellette sulle suffragiste si sprecano. Oggi ci sono quelle sulle femministe, tutte lesbiche, tutte maledonne, tutte nemiche degli uomini, tutte castratrici. Dopo il ridicolo c’è la repressione: le suffragiste vennero anche messe in galera per vilipendio della nazione, per offesa alla morale pubblica e così via. Infine, quando si superano questi tre livelli si entra nella storia. Pare che sia così, secondo Ghandi. Quindi bisogna aspettarsi il silenzio, l’irrisione, la repressione, e se si tiene duro, si diventa un movimento che pratica la sua azione politica non violenta in modo orami ammesso.

Voglio ricordare che invece negli Stati Uniti il movimento suffragista incominciò subito a praticare delle alleanze significative e cominciò ad esercitare una cosa che non c’era nel movimento inglese, ma che è presente nel movimento sindacale, e cioè la disobbedienza civile e il non rispetto, tranquillo e non violento, delle leggi esistenti. Siccome il codice matrimoniale americano era fondato sulla subordinazione della donna all’uomo, della moglie al marito, le suffragiste americane generalmente si sposavano facendo una dichiarazione di non rispetto del codice, e qualche volta gli veniva perciò rifiutato il matrimonio. Generalmente i due erano d’accordo, e dunque si realizzava una gestione del conflitto fra i generi in cui uno era un disertore, rompendo la solidarietà del suo branco. Dunque, fa parte dell’azione non violenta anche il non riconoscimento tranquillo delle leggi esistenti, la disobbedienza civile alle leggi. Le suffragiste americane fecero anche disobbedienze più significative di questa, che pure era importante in una società puritana: generalmente le suffragiste americane ospitavano gli schiavi neri che scappavano dal sud. C’è una storia comune d’alleanza: un movimento di gestione non violenta dei conflitti spesso sente l’esigenza di un’alleanza con le situazioni più marginali e difficili della società. Moltissimi schiavi neri che scappavano dagli stati del sud imparavano il nome di una donna che li ospitava nella loro casa e che indicava loro un altro nome, fino a che non arrivavano al nord. Anche questa era un’azione illegale, perché le suffragiste ospitavano persone scappate da una condizione di legale schiavitù nello stato in cui erano.

Allora, nell’azione non violenta, nella gestione non violenta dei conflitti, incominciamo a introdurre un nuovo elemento rispetto alle metodologie che abbiamo visto nel movimento sindacale e in quello suffragista: si può anche mettere in discussione la legalità esistente, si può anche disubbidire alle leggi, non sottraendosi alle sanzioni che eventualmente colpiscono. Se infatti qualcuna di queste donne veniva scoperta, era naturalmente processata. Questo comporta un altro aspetto della gestione non violenta dei conflitti, che richiede un grande coraggio civile.

Di nuovo, se prima avevo detto che l’azione non violenta è azione, non è passività, così pure l’azione non violenta è anche grande coraggio civile, esposizione, assunzione di responsabilità, fino alla rinuncia temporanea della propria libertà assoggettandosi ad un processo, con l’intenzione di dimostrare che c’è una legge ingiusta che va modificata. L’intendimento è ottenere un riconoscimento giuridico alla giustezza futura della propria azione. È lo stesso tipo di testimonianza che viene richiesta all’obiezione di coscienza al servizio militare. Inizialmente l’obiezione di coscienza è il rifiuto di obbedire ad una legge dello stato che in sé è illegittima. Eppure questa disobbedienza è così forte, parla così tanto che prima o poi modifica la legge. E quindi l’obiezione di coscienza diventa legale. Su un altro terreno si può dire che la lunga omertà intorno all’aborto, tollerato benché fosse un reato, è stata rotta dall’azione non violenta delle donne che hanno detto: vogliamo che questo problema venga preso in considerazione, come un problema di cui pubblicamente si parla, e quindi violiamo la legge, addirittura facciamo dichiarazione di averla violata. Sapete quante di noi hanno firmato false dichiarazioni di aver abortito per suscitare il dibattito, in modo da poter poi ottenere una modifica della legge.

La gestione non violenta del conflitto sposta in avanti il conflitto. Mi interessa molto che si capisca e spero che sia utile trasmettere questa idea specialmente alle giovani generazioni, che la gestione non violenta dei conflitti è una cosa che richiede grande determinazione, grande capacità organizzativa, grande solidarietà. La gestione non violenta del conflitto non è cosa da pappemolli, non è una cosa semplicemente passiva, puramente esigenziale. È una vera politica, tanto è vero che si propone di ottenere una modificazione degli assetti giuridici.

 

6. I conflitti fra gli stati e la sovranità

Fino a questo momento abbiamo incontrato due movimenti che sono incarnati da soggetti ben visibili: il proletariato e le donne che sono consapevoli di esserlo. Perché per essere donna non è sufficiente sapere di chiamarsi Maria, bisogna anche sapere di essere una donna, e questo non sempre succede. Molte donne assumono una totale identificazione con il modello maschile senza grandi contraddizioni interne. Ci sono altre forme di gestione non violenta del conflitto, che possono riguardare ad esempio il conflitto fra il genere umano e la natura, che invece non ha parola, e che solo può mandarci i suoi disperati messaggi desertificandosi, cambiando il clima o franando rovinosamente. Questi sono i messaggi che manda la natura. E però perché diventino politicamente efficaci occorre che qualcuno se ne faccia carico. Anche in questo caso occorre nominare il conflitto. Esiste un conflitto fra gli equilibri naturali, l’accoglibilità del pianeta, la compatibilità ambientale e i nostri comportamenti, che si rivelano particolarmente violenti nei confronti della natura. Ora, tuttavia, è venuto il momento di affrontare il problema dei conflitti fra gli stati.

Se consideriamo la gestione non violenta dei conflitti, e cerchiamo di applicarla a quei conflitti più specificatamente politico-militari che generalmente sfociano in guerre, possiamo individuare come si può fare una gestione non violenta dei conflitti che siamo abituati a chiamare propriamente politici, quelli fra gli stati. Qui, però, ci fa ostacolo una cosa consolidata: mentre posso dire: "sei dominante e vergognatene!" al genere maschile, mentre posso dire che il genere maschile è violento rispetto a quello femminile, oppure che il genere umano è violento rispetto alla natura, quando si arriva agli stati questo non è più possibile, perché l’uso della violenza da parte degli stati si chiama forza, ed è legittimato. Quando uno stato usa la violenza, questa violenza si chiama forza, ed è riconosciuta dalle leggi. Anzi generalmente i politologi ritengono che lo stato rinuncia all’uso della violenza al suo interno, perché non uccide in modo discriminato i suoi cittadini e riconosce delle leggi a tutela della loro vita, dei beni e dei loro interessi, e riceve dai cittadini in cambio la legittimazione a usare la violenza contro gli altri. Questa è la legittimazione popolare della guerra. Tu non fai guerra a me, mi difendi, mi lasci vivere, e io però ti lascio fare la guerra agli altri.

Tocchiamo in questo modo una questione molto delicata e importante: come si fa a togliere legittimità alla violenza quando, essendo esercitata dagli stati, si chiama forza? Qui bisogna lavorare su una cosa che c’è nella nostra Costituzione, lavorare per la riduzione del tasso di assolutismo che è incluso nel termine sovranità. La "sovranità" è un termine assolutista. Nell’articolo della Costituzione in cui si dice che l’Italia è disposta a rinunciare a porzioni della sua sovranità purché questo avvenga anche dall’altra parte, c’è una prima pista di ricerca sulla possibilità di riduzione del tasso di assolutismo che ancora è incluso nell’idea di stato, anche democraticamente ordinato, quando gli si riconosce, come erede del sovrano assoluto, una certa porzione di sovranità. Dobbiamo introdurre anche in questo caso una metodologia non violenta: uno stato può rinunciare ad una porzione della sua sovranità purché in modo bilaterale.

Ad esempio, sui confini degli stati europei esistono spesso delle popolazioni miste. Se si facessero una serie di regioni sui confini, queste dovrebbero nascere con una reciproca rinuncia di porzioni di sovranità degli stati confinanti. Per esempio il Sud Tirolo - io abito a Bolzano e quindi questo esempio mi viene subito in mente - potrebbe essere ridisegnato con una reciproca ed uguale riduzione di sovranità da parte dell’Italia e dell’Austria e finire di essere uno dei possibili focolai di conflitti in Europa. Probabilmente il gioco varrebbe la candela. Mentre tutte le politiche di polizia etnica tentate da Hitler e Mussolini in Alto Adige nel ’39, di divisione rigorosa delle risorse e delle popolazioni, di continui ricorsi a istituzioni internazionali mediatrici non risolve il conflitto e lo lascia sempre sotto la cenere, un’applicazione della riduzione di sovranità, purché reciproca, potrebbe essere una soluzione. Questa potrebbe essere una soluzione standard che, nella costruzione dell’Europa, si applica abitualmente a tutti quei confini degli stati nazionali europei sui quali ci sono popolazioni miste, oppure su tutti quei confini di montagna abitati da popolazioni per le quali il confine non è rappresentato dal crinale di montagna ma dalla pianura. Ad esempio i Baschi sono di qua e di là dei Pirenei, e il paese basco finisce dove inizia la pianura. Lo stesso vale per le popolazione del Ticino e della Valtellina e per le popolazioni tirolesi del nord e del sud, per le quali le Alpi non sono il confine ma il loro territorio, il confine sono le pianure di qua e di là. Questo serve anche per ridurre un po’ l’assolutezza dell’idea di confine, che è una delle idee più infondate che esistano: non esistono confini naturali, però in loro nome si versano fiumi di sangue e lagrime. L’assolutezza dell’idea di confine genera anche episodi ridicoli. Ad esempio quando è stata trovata una mummia sul Similaun un giornale di Bolzano titola "Hötzli - che vuol dire l’omino della valle di Hötz - era italiano", perché è stato trovato un po’ di qua dal confine. Uno per il quale la parola "italiano" come pure "tedesco" non significava niente per i tempi in cui è vissuto, viene assimilato ad una comunità nazionale in virtù della forza dell’idea di confine.

Quando arriviamo alla gestione non violenta dei conflitti politici, la prima cosa in cui ci imbattiamo è l’assolutezza o l’assolutismo incluso nell’idea non discutibile di sovranità dello stato. In primo luogo, bisogna lavorare per rendere attuale quel pezzo dell’art.11 della Costituzione in cui si parla di rinuncia reciproca di sovranità fra stati, che è uno dei principi su cui si può fare l’Europa. In secondo luogo, se veniamo ai conflitti politici più tormentosi, che possono sfociare in situazioni tremende - ho citato il Libano e la Liberia, ma si possono ricordare il Ruanda, il Sudan etc. - bisogna attrezzarsi diversamente da quanto fatto sinora. Tutti questi confitti vanno nominati subito, e bisogna agire in modo preventivo. Poi, bisogna dire un cosa che è fondamentale nella fondazione di una cultura di pace: il pacifista o la pacifista può agire solo fino a quando la guerra non c’è, perché quando la guerra è scoppiata può solo dichiarare la sua sconfitta. Tutte le volte che scoppiano le guerre c’è qualche bello spirito che dice: cosa fanno i pacifisti? I pacifisti avevano già fatto prima: hanno detto che la guerra non si doveva cominciare. La gestione non violenta del conflitto politico è che non bisogna passare alla guerra. Sto per dire: a nessun costo. A questo proposito, sono in disaccordo con quei pacifisti che hanno legittimato l’intervento in Bosnia, per esempio, nonostante che sappia che era quasi impossibile resistere alla violenza dei massacri che si vedevano. Ma credo che nemmeno in questo caso si possa intervenire. Le guerre si possono solo prevenire. Quindi bisogna nominare i conflitti appena si manifestano, analizzarli, trovare quali sono gli strumenti per raffreddarli. Questi strumenti possono essere vari: mediazioni, arbitrati, separazione di interessi. Tutta la diplomazia può lavorare in questo campo, e però è necessario che sia una diplomazia addestrata a segnalare i conflitti prima che diventino acuti.

Una volta avevo pensato ad una modifica del piano di studi della Farnesina: va bene che la nostra rappresentanza diplomatica sia in grado di organizzare splendidi ricevimenti, o anche di segnalarci se qualche italiano è rimasto coinvolto in un disastro aereo, ma ci sappiano anche dire se lì dove sono sta per scoppiare qualche cosa. È possibile che sui nostri giornali non ci fosse niente che lasciasse presumere quello che stava per succedere in Liberia? È già successo altre volte: non abbiamo mai informazioni adeguate. C’è un’abitudine passiva della diplomazia italiana che segnala i conflitti solo quando sono scoppiati. È necessario che siano segnalati prima, e che ne siano individuate le cause, così potremo sapere per tempo per quale ragione mai, quando succede una cosa in Liberia, si scopre che lì cerano tre o quattro funzionari di Mediobanca. Per me è misteriosissima la ragione per la quale Mediobanca deve stare in Liberia, però vorrei sapere perché. Cos’era lì a commerciare? Che tipo di crediti apriva? Per le armi al potere detto legittimo? Spero che non fossero lì per contrattare armi ai cosiddetti "insorti". È possibile tutto. Quando non si hanno informazioni si è legittimati ad avere i peggiori sospetti.

Dunque il conflitto deve essere nominato per tempo, prima che si manifesti. Preferisco un ambasciatore che mi dica: "qui fra cinque anni può scoppiare qualcosa", che non uno che mi avvisi la mattina in cui è scoppiato. Dinanzi a tale preavviso si ha il dovere di mettere in atto come comunità internazionale tutti i meccanismi di arbitrato ed anche di blocco, che è uno degli strumenti di cui la comunità internazionale può servirsi per la carta delle Nazioni Unite. Ma quale blocco? Tutti i blocchi che sono stati sinora realizzati e che sono ancora in corso, contro gli iraniani, contro o libici, contro i serbi - e non a caso nomino i popoli invece che gli stati - sono blocchi contro i popoli, perché sono blocchi anche dei generi alimentari e dei prodotti medici. Si tratta di blocchi politici contro i popoli con l’idea che così fanno saltare i loro governi. Questo si chiama intervento, considerazione della sovranità limitata di altri popoli senza reciprocità. Mentre l’unico blocco che si deve fare è quello delle forniture militari: questo è l’unico vero strumento di gestione non violenta del conflitto politico. Poi si dice: tanto poi in Jugoslavia si prendono a mattonate. Meglio! Così il cecchino a mattonate non può ammazzare nessuno. Non è che il non invio delle armi cancelli la violenza, ma comunque ne riduce moltissimo l’intensità e gli effetti, e dunque giova a raffreddare la situazione. Quando il conflitto va evitato, bisogna usare tutti gli strumenti di arbitrato e blocco per sottrarre strumenti al possibile degenerare violento del conflitto. Quando il conflitto è ormai degenerato bisogna mantenere il blocco più assoluto degli armamenti.

L’altra cosa necessaria è la dichiarazione internazionale di legittimità della diserzione. Questo bisogna fare, e cioè dire: "Scappate da quel conflitto, rifiutate, disobbedite a questo ordine violento". Come si fa negli incendi di bosco, quando si taglia tutto intorno, cioè non si mandano armi, non si versa benzina sul bosco incendiato, e si sta li con qualche coperta, e se viene fuori qualche scoiattolo, gli spegni il fuoco addosso e si salva. Di fronte a un conflitto bisogna dichiarare la legittimità della diserzione. Così quando noi mandavamo indietro dal confine giuliano quelli che venivano dalla ex-Jugoslavia, facevamo una grande violazione del diritto umanitario internazionale. Se la Svezia e il Canada non avessero ospitato alcune decine di migliaia di disertori americani dalla guerra del Vietnam, questa guerra avrebbe forse avuto un esito diverso. Però lo hanno fatto. Questi stati hanno riconosciuto il diritto degli americani che ricevevano la cartolina per andare in Vietnam, a fare un atto di diserzione. Analogamente c’erano degli intellettuali americani che chiedevano ai ragazzi di bruciare la cartolina di precetto, e moltissimi professori americani si rifiutarono di fare da selettori per l’esercito: in Vietnam, naturalmente, prima sono stati mandati i disoccupati, i neri e poi alla fine, poiché avevano bisogno di tanti altri, hanno richiesto gli studenti che prendevano brutti voti all’università. È un criterio di utilità relativa: se uno è bravo non lo mandiamo in Vietnam, se uno è uno studente un po’ sul bocciato, allora lo mandiamo. I professori universitari dettero da quel momento in poi trenta a tutti: non potete chiedere a me di mandare uno a farsi ammazzare perché non sa la fisica. Non sarà mica una condanna a morte, non sapere la fisica. Anche in questo caso c’è stata un’azione di disobbedienza civile molto importante sostenuta anche internazionalmente da Canada e Svezia, che non si limitarono a proclamare "è legittimo disertare", ma poi accolsero i disertori. Qui c’è una difficoltà, perché generalmente siamo molto prodighi di grandi affermazioni di diritto internazionale, ma quando poi arrivano ai nostri confini, diciamo: tornate indietro perché siete sotto leva. Oppure. Non solo, ma poi bisogna che gli stati che dicono "disertate" nello stesso tempo proclamino "e avete il diritto di tornare a casa vostra quando la guerra è finita se lo desiderate". Anche questo diritto deve essere internazionalmente tutelato.

Come vedete ho indicato solo alcune delle possibili piste di ricerca e di azione per rendere popolare, far diventare il ripudio della guerra una specie di reazione obbligata, una specie di riflesso condizionato. Bisogna uscire dall’enfasi retorica: "che grande è la nostra Costituzione, ripudia persino la guerra". Poi però la facciamo.

Bisogna imparare a gestire i conflitti, e la gestione del conflitto è una cosa che richiede grande determinazione, alto livello di coscienza, senso di responsabilità, capacità di disobbedienza, non disobbedienza testimoniale o martirologica individuale, ma disobbedienza collettiva e politica che produca un mutamento degli ordinamenti. A questo attribuisco una grande speranza per il futuro. Se dovessi guardare invece alla passività con cui le guerre vengono accettate, sarei molto triste. Credo che la cosa ultima che dobbiamo fare è d’ora in avanti, se siamo convinti di questo, non lasciar più passare senza l’espressione del nostro dissenso, nulla che sia contraddittorio con questa ipotesi di gestione non violenta dei conflitti. Ad esempio, se la TV pubblica fa propaganda, come pubblicità, per delle pubblicazioni che magnificano le grandi battaglie navali della Seconda guerra mondiale o le armi più sofisticate, bisogna protestare: "noi non siamo d’accordo, questa cosa è in contrasto con l’art.11 della costituzione, se continuate così facciamo una campagna di non pagamento del canone, facciamo calare l’audience". La gestione non violenta dei conflitti richiede un alto livello di coscienza politica, una assoluta abitudine di controllo, e un esercizio quasi quotidiano della cittadinanza. Questa cosa si chiama partecipazione.

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