Ascoltare la Violenza
di Jean-Marie Muller
Traduzione di Silvia Cosentino

Tratto da La Nonviolenza e’ in Cammino

La violenza che sta incendiando i sobborghi di Parigi non e' un mezzo d'azione, ma un mezzo d'espressione. Le violenza appare come l'ultimo mezzo di espressione a coloro ai quali le societa' ha rifiutato tutti gli altri mezzi per esprimersi. Le violenza e' l'ultima risorsa di coloro che sono esclusi da ogni partecipazione alla vita della societa'. La violenza esprime allora una richiesta di riconoscimento, una volonta' di vivere: "sono violento, quindi sono". Questa violenza porta un po' di vividezza nel grigiore dell'esistenza. Essa viene a rompere la monotonia del tempo che trascorre nella disoccupazione e nel vuoto dei giorni. Nello stesso tempo, le violenza e' una maschera che nasconde degli esseri che errano, che soffrono, che si disperano.
Bisogna ascoltare e comprendere questa violenza come una pro-vocazione, cioe', secondo il significato etimologico della parola, come un appello. La violenza ha le sue radici nell'angoscia e vuole essere una richiesta d'aiuto. La violenza vorrebbe essere una parola; essa e', quantomeno, un grido. Si tratta quindi di capire questa violenza, mentre e' vano condannarla con un surplus di indignazione. In definitiva, questa violenza e' l'espressione di un desiderio di comunicazione, un bisogno di dialogo. Spetta alla societa' capire questo appello.
Le delinquenza causa la rottura del legame sociale, ma essa ne e' in primo luogo una conseguenza. A partire dal momento in cui un individuo, soprattutto un giovane, non trova nella societa' quel radicamento che struttura la sua personalita' e da' un senso alla sua esistenza, egli si trova in una situazione di rottura. Se ha un insuccesso scolastico, si trovera' senza lavoro e sara' privato di una vera cittadinanza. Nella maggior parte dei casi, la discriminazione etnica rafforza l'esclusione. E' un ingranaggio. L'incivilta' e' precisamente la conseguenza di una privazione di cittadinanza.
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Le violenza permette tanto piu' di farsi riconoscere quanto piu' e' proibita dalla societa'. Essa simboleggia la trasgressione di un ordine sociale che non merita di essere rispettato. Cio' che gli attori della violenza ricercano e' precisamente questa trasgressione. Essi ritengono che non vi sia alcuna ragione di rispettare le leggi di una societa' che non rispetta i loro diritti. A coloro che la legge esclude da ogni tipo di riconoscimento, la violazione della legge appare il miglior mezzo per farsi riconoscere. In piu', la violenza della trasgressione, distruggendo i simboli di una societa' iniqua, calpestando gli attributi di un ordine ingiusto, procura un piacere sottile, un godimento reale. Per questo motivo, la violenza esercita un fascino su coloro che sentono la frustrazione e l'umiliazione di essere degli esclusi. La violenza rappresenta un tentativo disperato di riappropriarsi del potere sulle loro vite, di cui sono stati spossessati. Non e' questo un mezzo degenerato, deviato, di accesso a una forma di trascendenza?
Ogni tentativo di "moralizzazione" e' destinato all'insuccesso. Peggio ancora, ogni stigmatizzazione non puo' che aggravare la situazione e rendere impossibile la riconciliazione. Piu' che uno sbaglio, essa costituisce un errore politico. La repressione poliziesca e' una fuga in avanti che allarga la frattura sociale e allontana il ritorno alla pace. La "tolleranza zero" deve in primo luogo concernere i poliziotti incivili di cui i giovani dei sobborghi sono troppo spesso vittime. Occorre riconoscere che, malgrado la retorica ufficiale, la nostra democrazia ha un cattivo rapporto con la sua polizia. Bisogna certo "ristabilire l'ordine", ma questo deve significare che bisogna in primo luogo "ristabilire la giustizia" in questi quartieri diseredati.
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Sforzarsi di comprendere le violenza non significa "lasciar dire e lasciar fare". Al contrario, comprendere la violenza e' il modo migliore per interdirla.
Ma soltanto se la societa' sara' capace essa stessa di dare un segnale forte di nonviolenza sara' possibile dare un significato all'interdizione della violenza. Questa violenza manifesta che coloro che vi si abbandonano non incontrano limiti; nella stesso tempo, essi domandano che si pongano loro dei limiti. Questi serviranno loro come un riferimento, che dara' loro la sicurezza di cui hanno un bisogno vitale e permettera' di strutturare le loro personalita'. Bisogna dunque rispondere alla violenza tentando di ristabilire la comunicazione. La cosa peggiore e' rispondere a questa violenza con la violenza. E' un formidabile segno d'impotenza da parte della societa'. Bisogna dunque rispondere a questa violenza mettendo in atto una strategia nonviolenta rivolta a creare degli spazi d'intermediazione, in cui dei mediatori potranno ristabilire la comunicazione fra questi esclusi e la societa'. Sara' allora possibile far prevalere il rispetto della legge.
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Se la violenza e' l'espressione di una parola che non ha potuto essere detta, nel momento in cui il delinquente potra' dire la sua violenza, sara' gia' in grado di governarla e di trasformarla. La parola libera dalla violenza. La mediazione deve mirare a permettere agli esclusi e ai delinquenti di riappropriarsi della loro vita per mezzo della parola. La parola ha una virtu' efficiente. Mettere in parole, verbalizzare le proprie sofferenze, le proprie paure, le proprie frustrazioni, i propri desideri, significa distaccarsene cosi' da poter affrontare e gestire la realta' con la riflessione.
La vera sfida lanciata da questi violenti alla societa' e' quella di decostruire la cultura della violenza che domina le nostra civilta'. E' compito di tutti i cittadini impegnarsi nella promozione di una cultura della nonviolenza che permetta di inventare comportamenti e metodi che consentano una risoluzione umana degli inevitabili conflitti che costituiscono la trama della nostra vita collettiva.


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