l’Unità, 28 settembre 2001

La sfida del monaco
Conversazione con Raymond Panikkar

   Di fronte alle ovvie domande d’attualità rivoltegli alla conferenza stampa del mattino - mi racconta Raymond Panikkar la sera con ironia e modestia - lui se l'è cavata abbastanza bene. Mi dice che, se un buon programma filosofico è innanzitutto quello di rispettare le parole, ripristinarne il senso proprio, ricondurle alla loro evidenza e salute mentale, un buon esempio potrebbe essere questo: "la vittima non può essere il proprio giudice". E con questo, d’accordo entrambi, abbiamo licenziato dalla nostra conversazione l'argomento "guerra", che sempre più evidentemente consiste nell'abituarsi all'idea della guerra, a una sua ineluttabilità e a un suo senso, e a quella militarizzazione dello spazio, del tempo e delle menti già in atto negli Usa e non solo.
   Ma rispettare le parole significa anche riconoscere che non c'è nessuna distinzione tra filosofia e teologia (in India e in molte altre culture non ha alcun senso), oppure contestare la distinzione di "genere" (assente nella lingua inglese) e opporsi alla spaccatura tra uomo e donna: anthropos, ricorda Panikkar, li comprende entrambi. E anche Dio, certo. "Di parole come vita, ridotta a genere, o spazio, ridotto a scatola vuota di corpi, o tempo, ridotto a velocità, occorre ripristinare il senso primigenio, di prima del loro ladrocinio". Per non parlare, aggiunge, dell'incredibile locuzione "intelligenza artificiale".
   Sono di fianco a Raimon Panikkar, professore emerito presso l'università della California di Santa Barbara, fondatore del Centro Studi Vivarium di Barcellona, filosofo e teologo, promotore da tantissimi anni di un dialogo interreligioso e interculturale tra le religioni, in onore del quale lo scorso inverno gli è stato conferito il Premio Nonino. Conoscitore dell'Induismo, cita i Vangeli e Agostino, mentre Dogen, il fondatore dello Zen Soto nel XIII secolo, è uno dei suoi autori preferiti. Il Dalai Lama è un suo vecchio amico, da quando nel 1959, in fuga dai Cinesi, Panikkar lo accolse a Sarnath insieme a un monaco theravada (su un punto divergono: se per il Dalai Lama le religioni sono parallele, Panikkar pensa piuttosto che esse si incontrino e si incrocino in una mutua collaborazione, che è, in realtà, una "mutua fecondazione"). Monaco di svariate ordinazioni, figlio di un indiano e una spagnola, Panikkar, che ha ottantatré anni e ne dimostra cinquanta, incanta l'interlocutore, me compreso, con la grazia dei suoi modi, dei suoi abiti color pastello, del suo calore e della sua freschezza. Tra tutti i suoi libri, gli confesso, il più importante resta per me la rielaborazione delle sue lezioni tenute vent'anni fa di fronte a un pubblico interreligioso di monaci sul tema del monachesimo: “Santa semplicità, il monaco come archetipo universale”, suonava il titolo inglese. La sfida di scoprirsi monaco - è invece il titolo forte della versione italiana. Panikkar vi espone la tesi rivoluzionaria di una priorità logica e storica del monachesimo rispetto alle religioni e alle chiese; vi descrive antropologicamente la vocazione e la vita del monaco come una dimensione e un archetipo dell'uomo, irriducibili a ogni tentativo di istituzionalizzarli. Al centro del discorso, il concetto vitale di "conversione". Non si diviene monaco, samnyasin, attraverso un processo di riflessione, e neppure per un desiderio (di Dio o di altro): ma come risultato di un'esigenza, frutto di un'esperienza che ci porta a mutare, e alla fine a rompere qualcosa nella propria vita, per amore di quella "cosa" che tutto abbraccia o trascende, e che ha tanti nomi quante le esperienze religiose. Monaco è colui che lascia la propria casa per abbracciare e abitare il mondo intero. "Non si diventa monaco per fare qualcosa o per ottenere qualcosa ma per essere. E' l'esistenza di tale aspirazione ontologica dell'essere umano che mi porta a parlare della dimensione monastica come di una dimensione costitutiva della vita umana". Cosa c'entra tutto questo con la filosofia, coi logos e i discorsi veritativi? - gli chiedo, e sorridiamo entrambi.
   Ospite domenica scorsa di "Festivalfilosofia" a Modena, dedicato alla parola "felicità", Raymond Panikkar ha tenuto una lezione magistrale nel Palazzo Ducale di Sassuolo su "Le vie della felicità tra Oriente e Occidente". Ecco, spiega Panikkar, l'unica felicità possibile è appunto "tra". "Il regno di Dio è tra voi", dice il Vangelo, al tempo stesso interiore ed esteriore. "La felicità è sempre "tra", trasparente e passeggera. Non esiste un capitale di felicità, non appartiene al tempo, non è un ricordo né un'attesa, né un'astrazione, e non è nella ragione né nella volontà. Fu un Padre della Chiesa a dire: chi non vive adesso la vita eterna, non la vivrà mai. E chiese un monaco zen a un altro cristiano: mostrami adesso la tua Resurrezione!". "In Occidente - continua la parola classica, origine di tutta la filosofia, è beatitudo: filosofia non è l'amore per la saggezza, ma la saggezza dell'amore. Non bisogna farne una dicotomia. Felicità e divinità sono la stessa cosa. Se tu sei felice, sei già divinizzato. Anche la Trinità che non è esclusiva della religione cristiana ma presente simbolicamente in ogni religione - ci ricorda che un Dio da solo sarebbe un triste Dio, senza felicità... ".
   Ad ascoltare queste parole, una platea straripante di giovani e meno giovani convenuti nonostante la pioggia, sintomo vistoso di una domanda di senso, se non di "maestri". Domanda, anche, di commozione, stando ai commenti della gente durante la composizione di un Mandala, da parte di alcuni monaci tibetani, per tutta la durata del festival. Ecco, al “Mandala della felicità suprema” - composizione rituale dì polveri colorate a simbolizzare l'universo, e che alla fine, dopo la paziente realizzazione, viene dispersa con un soffio e mescolata simbolicamente alla terra - si collega nell'ambito del festival a un altro evento iperbolico, ma opposto, che è la mostra fotografica dei più grandi ipermercati del mondo, dal titolo "Iperfelicità". Come non pensare che questi due eventi circoscrivano la presenza di Panikkar, tra Oriente e Occidente? Il fatto che anche l'universo delle merci possa polverizzarsi, e che esse siano sempre meno destinate a durare ma sempre più a creare problemi per la loro inutile ma indistruttibile eccedenza, non c'è bisogno di atti terroristici per saperlo. Il famoso àpeiron di Anassimandro, tradotto per secoli "infinito" dai filosofi, e diventato il motore occulto delle superbe utopie di progresso occidentali, vuol dire invece "polvere" - ci ha insegnato di recente il grande filologo Giovanni Semerano. Cioè impermanenza. "Gli animali e l'uomo naturale sono nati per la gioia, dice Panikkar. La gioia non è nell'infinito, né nella conoscenza". A meno che essa sia come "nascenza di ciò che si conosce", il contrario di una conoscenza come controllo o calcolo, impostata sul come. "Non occorre credere o sapere perché si ama. Alla domanda ‘perché mi ami?’, una risposta sarebbe una bestemmia". E' la conoscenza di quello che lui chiama "il cuore puro", l'unica che si coniughi con l'essere felici. "Un cuore puro è un cuore vuoto, un cuore che non ha paura di perdere la propria personalità. L'uomo non può stare in punta di piedi, e si stanca di indossare maschere. Il cuore puro non ha tecniche, non può essere classificato. E' la vita che ci insegna, e il cuore puro si fa svuotare dalla vita. Il perdere libera. Per questo parlare di cuore puro è uguale che dire: Beati i poveri!... I poveri di spirito sono liberi. Chi non scopre la bellezza della povertà non sarà mai libero ... ".
   Tra vacuità orientale e pienezza occidentale, la felicità è questa conversione - lasciarsi svuotare dalla vita. E la sera, nella prossimità del dialogo, ho chiesto a Raymond Panikkar se avevo capito bene, se questo lasciarsi svuotare significa che non si ha (più) paura della morte, perché si è già morti, da tempo, nella pienezza della vita. "Sì", sorride. "Chi non rinuncia a se stesso non sarà mai se stesso. Chi nega se stesso, resuscita. Vorrei togliere agli uomini l'angoscia della morte, la sofferenza che viene dal volersi conservare al di fuori del tempo. Noi siamo temporali, ma non solo temporali. Ho inventato la parola tempiternità, per dire il tempo e L'eternità insieme. L'eternità si vive adesso. E' questa la mistica, la spiritualità vera che è felicità, beatitudo, ananda, gioia, e chi trova questa gioia è vicino al mistero divino...".
   Un anno fa pronunciò queste parole nella chiesa di San Carlo a Milano: "Io vivo costantemente la morte. La morte è un problema per l'individuo, ma non per la persona. Ognuno di noi, nella propria individualità, è una goccia d'acqua. Cosa capita a questa goccia d'acqua quando, secondo una tradizione che è transculturale, cade nel mare e sparisce come goccia? Dipende da che cosa è: la goccia d'acqua o l'acqua della goccia? La goccia d'acqua sparisce, ma all'acqua della goccia non succede niente. Si unisce a tutto il mare, a tutto il divino, ma non perde la sua vera natura. Ciò che sparisce, sono le difficoltà di comunicare, di abbracciarsi, di amarsi, che nascono grazie all'individualismo ... ". Tutto questo, concordiamo, è la vera politica

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