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28 agosto 2010

Il «monaco» il cui verbo fu il dialogo tra le religioni
di Beppe Sebaste

È morto ieri 26 agosto, a 91 anni, Raimon Panikkar, filosofo e teologo, uno dei miei «maestri». Ma non so se «morto» è la parola giusta. Avevo pochi giorni fa rivisto e corretto, per il libro di prossima uscita, ciò che di lui, con lui e per lui ho potuto testimoniare. Pensandolo di nuovo e intensamente.
Dal testo sul mio incontro con Raimon Panikkar (2001), di prossima pubblicazione nella nuova edizione del Libro dei maestri: «Raimon Panikkar, filosofo e teologo, fu professore emerito presso l'università della California di Santa Barbara, fondatore del Centro Studi Vivarium di Barcellona, promotore da tantissimi anni di un dialogo interreligioso e interculturale tra le religioni, in onore del quale gli fu conferito il Premio Nonino. Conoscitore dell'induismo, del cistianesimo e del buddhismo, il Dalai Lama era un suo vecchio amico, da quando nel 1959, in fuga dai Cinesi, Panikkar lo accolse a Sarnath insieme a un monaco theravada (...). Monaco di svariate ordinazioni, figlio di un indiano e una spagnola, tra tutti i suoi numerosi libri resta fondamentale la rielaborazione delle sue lezioni tenute trent'anni fa sul tema del monachesimo: Santa semplicità, il monaco come archetipo universale, suonava il titolo inglese. La sfida di scoprirsi monaco - è invece il titolo forte della versione italiana. Panikkar vi espone la tesi rivoluzionaria di una priorità logica e storica del monachesimo rispetto alle religioni e alle chiese; vi descrive antropologicamente la vocazione e la vita del monaco come una dimensione e un archetipo dell'uomo, irriducibili a ogni tentativo di istituzionalizzarli. Al centro del discorso, il concetto vitale di "conversione". (...)
«...Non occorre credere o sapere perché si ama. Alla domanda ‘perché mi ami?’, una risposta sarebbe una bestemmia». È la conoscenza di quello che lui chiama «il cuore puro», l'unica che si coniughi con l'essere felici. «Un cuore puro è un cuore vuoto, un cuore che non ha paura di perdere la propria personalità. L'uomo non può stare in punta di piedi, e si stanca di indossare maschere. Il cuore puro non ha tecniche, non può essere classificato. È la vita che ci insegna, e il cuore puro si fa svuotare dalla vita. Il perdere libera. Per questo parlare di cuore puro è uguale che dire: Beati i poveri!... I poveri di spirito sono liberi. Chi non scopre la bellezza della povertà non sarà mai libero...».


Tra vacuità orientale e pienezza occidentale, la felicità è questa conversione - lasciarsi svuotare dalla vita. E la sera, nella prossimità del dialogo, ho chiesto a Raimond Panikkar se avevo capito bene, se questo lasciarsi svuotare significa che non si ha (più) paura della morte, perché si è già morti, da tempo, nella pienezza della vita. «Sì», sorride. «Chi non rinuncia a se stesso non sarà mai se stesso. Chi nega se stesso, resuscita. Vorrei togliere agli uomini l'angoscia della morte, la sofferenza che viene dal volersi conservare al di fuori del tempo. Noi siamo temporali, ma non solo temporali. Ho inventato la parola tempiternità, per dire il tempo e ò'eternità insieme. L'eternità si vive adesso. È questa la mistica, la spiritualità vera che è felicità, beatitudo, ananda, gioia, e chi trova questa gioia è vicino al mistero divino...».
Un anno fa pronunciò queste parole nella chiesa di San Carlo a Milano: «Io vivo costantemente la morte. La morte è un problema per l'individuo, ma non per la persona. Ognuno di noi, nella propria individualità, è una goccia d'acqua. Cosa capita a questa goccia d'acqua quando, secondo una tradizione che è transculturale, cade nel mare e sparisce come goccia? Dipende da che cosa è: la goccia d'acqua o l'acqua della goccia? La goccia d'acqua sparisce, ma all'acqua della goccia non succede niente. Si unisce a tutto il mare, a tutto il divino, ma non perde la sua vera natura. Ciò che sparisce, sono le difficoltà di comunicare, di abbracciarsi, di amarsi, che nascono grazie all'individualismo...». Tutto questo, concordiamo, è la vera politica.

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