Giuliano Pontara: Ripensare I Diritti

[Riproponiamo (nuovamente ringraziando l'autore per avercela messa a
disposizione) l'introduzione al libro di Philip Alston e Antonio Cassese,
Ripensare i diritti nel XXI secolo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2004]


Gli autori dei due scritti che costituiscono questo volume (l'undicesimo)
della collana "Alternative" sono entrambi noti studiosi del diritto
internazionale dei diritti umani.
Ambedue sono anche da anni impegnati in organizzazioni internazionali di
monitoraggio e protezione di tali diritti. Philip Alston e' uno dei massimi
esperti mondiali nel campo dei diritti economici, sociali e culturali, ed e'
stato per otto anni - dal 1991 al 1998 - presidente del Comitato dell'Onu su
questi diritti. Antonio Cassese, giudice, autore di importanti lavori sui
diritti umani, ha presieduto per cinque anni - dal 1993 a 1997 - il
Tribunale dell'Aja sui crimini nella ex Iugoslavia (International Criminal
Tribunal for the former Yugoslavia).
Entrambi gli autori "prendono i diritti sul serio". Sono quindi
perfettamente coscienti dell'uso puramente ideologico cui il linguaggio dei
diritti molto bene si presta e della retorica dei diritti, spesso usata
nelle giustificazioni ufficiali di interventi "umanitari" di vario tipo (da
qualsiasi parte avvengano) allo scopo di stendere cortine di fumo su azioni
in realta' mosse da ben altre ragioni e far accettare alla gente politiche
che, nei migliori dei casi, con i diritti umani non hanno nulla a che fare
e, nei peggiori, comportano gravi e ripetute violazioni di essi.
Ambedue gli autori concordano anche nel ritenere il sistema dei diritti
umani, come concepito mezzo secolo fa, strumento sempre piu' inadeguato.
Muovendo da una concezione dinamica, essi evidenziano il bisogno di
ripensare e ridisegnare il sistema dei diritti umani in funzione del
susseguirsi sempre piu' rapido di avvenimenti che in pochi decenni hanno
profondamente cambiato il mondo. Da questo punto di vista i due scritti in
questo volume sono complementari l'uno all'altro. Alston auspica un
ripensamento del diritto internazionale in modo tale che anche degli attori
non statali siano trattati alla stregua di "soggetti" al pari degli stati.
Cassese insiste sul problema dell'enforcing, additando come particolarmente
importanti alcuni diritti "essenziali".
*
Una delle sfide cui il sistema dei diritti umani, tradizionalmente inteso su
basi puramente statocentriche, si trova di fronte e' posta dalla drastica
riduzione della sfera del potere statale e dalla parallela ascesa di potenti
attori non statali, connessa con il modello neoliberista prevalente
nell'attuale processo di globalizzazione dell'economia. Prevale la tendenza
allo stato minimo (peraltro armato fino ai denti), "guardiano notturno"
della legge e dell'ordine. Il resto e' lasciato sempre di piu' alle
operazione di un mercato globale presupposto libero, in realta' fortemente
dominato da diecimila multinazionali e da potenti istituzioni finanziarie
internazionali quali la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale.
In questo modello, caratterizzato dalla deregulation del potere di attori
privati mossi dalla logica dell'efficienza economica e della massimizzazione
del profitto, favorevole alla privatizzazione anche dei servizi pubblici
piu' essenziali, in cui le esigenze connesse al rispetto dei diritti sono
sistematicamente messe in secondo piano (a meno che non si tratti di quelle
che favoriscono le operazione del mercato e dello stato minimo), i deboli
del mondo, coloro che non hanno potere contrattuale e potere di acquisto,
sono destinati ad essere spazzati via. La logica in questo modello non e'
quella di una benigna mano invisibile che assicura continui miglioramenti
per tutti, bensi' piuttosto quella di un duro stivale - spesso assai
visibile - che a grandi pedate relega i piu' poveri e i piu' deboli nei
ghetti della poverta' assoluta.
La tesi centrale sostenuta da Alston nel suo scritto e' che, tale essendo la
situazione globale, una delle grandi sfide per il sistema dei diritti umani
e' quella di ristrutturare il diritto internazionale dei diritti estendendo
la portata del principio di responsabilita' dagli stati ad attori non
statali quali, in primo luogo, le imprese multinazionali e le grandi
organizzazioni finanziarie internazionali. Infatti, a tutt'oggi, tali
attori, in quanto attori non statali, non sono vincolati dalle norme del
diritto dei diritti. La proposta di Alston puo' avere implicazioni piu' o
meno radicali, e la fattibilita' di quanto implicato puo' essere piu' o meno
realistica. Come minimo, essa comporta che le politiche di attori non
statali del tipo menzionato dovrebbero essere monitorate da sistemi
internazionali ufficiali di controllo e attuazione dei diritti (e non solo
dal mondo delle Ong - Amnesty International, Human Rights Watch, ecc. - come
avviene oggi).
*
La lista dei diritti umani e' molto estesa e nuovi si vanno aggiungendo.
Alcuni di essi, come certi diritti civili e politici, sono diritti
"negativi" nel senso che richiedono immunita' da certi tipi di interferenza;
altri, segnatamente certi diritti economici e sociali, sono "positivi", nel
senso che implicano una pretesa di interventi di un certo tipo. I primi si
violano essenzialmente per commissione, i secondi anche per omissione. Si
dice spesso che tutti i diritti umani sono indivisibili e interdipendenti. E
in qualche senso lo sono. Ma e' chiaro che essi possono confliggere, quanto
meno nel senso che, come si continua a rilevare da varie parti, a causa
della scarsita' di risorse non tutti possono venire pienamente attuati in
breve tempo e per tutti.
Teoricamente, vi sono vari modi per risolvere conflitti tra diritti e tra
politiche alternative che incidono variamente sui diritti umani di molte
persone. Un modo e' quello di prendere tutti i diritti ugualmente sul serio
e quindi di volta in volta (cercare di) individuare la politica che
probabilmente conduce alla maggiore attuazione totale dei diritti - nel
lungo periodo dato che, plausibilmente, i diritti di individui futuri
contano tanto quanto contano quelli degli individui oggi esistenti. Secondo
questo modo di vedere non vi sono diritti umani assoluti, che non e' mai
lecito violare: tra i diritti vi possono essere trade-offs. Plausibilmente,
e fino a prova contraria, sia il numero delle persone i cui diritti sono
coinvolti, sia il numero dei diritti attuati rispettivamente non attuati o
violati, sia i gradi di attuazione, non attuazione o violazione, sono
fattori ugualmente importanti. Inutile dire che, dato il gran numero di
persone e di diritti coinvolti, le stime necessarie per individuare di volta
in volta le politiche piu' atte a massimizzare la fruizione totale dei
diritti comportano calcoli e operazioni estremamente complessi.
Un modo di rendere il problema piu' gestibile consiste forse nel dare
priorita' a pochi diritti che possono plausibilmente essere considerati
basilari, ossia tali che l'effettiva fruizione di essi e' condizione
necessaria per il perseguimento e la fruizione di tutti gli altri diritti.
Tra i diritti basilari vi saranno, plausibilmente, oltre al diritto alla
vita, il "diritto alla liberta' dalla fame" (come sancito nel Patto sui
diritti economici, sociali e culturali), e oggi si puo' certamente
aggiungere, dalla sete; o piu' in generale, un diritto di "sopravvivenza",
inteso come diritto a un nutrimento adeguato, acqua potabile, servizi
igienici e sanitari essenziali, educazione di base, insomma un diritto a
quelle risorse basilari necessarie per raggiungere quel tenore di vita
materiale e mentale a sua volta necessario per poter perseguire qualsiasi
altro valore, scelta o proprio piano di vita. Questa e' la via indicata da
Cassese il quale appunto suggerisce che la "comunita' internazionale", al
fine di non disperdere energie e poter agire piu' efficacemente nella
promozione dei diritti umani, negli anni a venire dovrebbe focalizzare
l'attenzione su un numero ristretto di diritti civili politici ed economici
"essenziali", potenziando contemporaneamente il sistema di controllo e
implementazione di essi.
*
I diritti umani pongono severi limiti alle politiche locali e globali sia
degli attori statali sia degli attori non statali. Cio' vale forse in
particolar modo per i diritti basilari, quale quello alla liberta' dalla
fame. Se la gente in alcune parti del mondo muore di fame in seguito alle
politiche economiche di certi stati, o di certe imprese multinazionali e
certe istituzioni finanziarie internazionali, perche' questi stati, imprese,
istituzioni non sarebbero da ritenere corresponsabili di violazioni massicce
di siffatto diritto? Si considerino, a titolo di puro esempio, i due
seguenti casi.
- Le sovvenzioni dei paesi ricchi dell'Occidente alla propria agricoltura,
dell'ordine di 300 miliardi di dollari annui, e quelle alla produzione di
tabacco, dell'ordine di 200 miliardi di dollari annui - da paragonarsi ai 52
miliardi di dollari annualmente devoluti all'assistenza nei "paesi in via di
sviluppo" - producono, in questi ultimi, congiuntamente con le politiche
doganali protezionistiche praticate dai primi, ulteriore disoccupazione,
fame e miseria. Se tali sovvenzioni fossero drasticamente ridotte, e le
politiche doganali radicalmente rivedute, tanti contadini del "Terzo Mondo"
avrebbero ben altre possibilita' di esportazione dei loro prodotti, con
conseguente diminuzione della poverta' e della fame tra di essi. Non
comportano le politiche protezionistiche dei paesi occidentali violazioni di
diritti umani?
- Se gli Stati Uniti, invece di praticare il dumping della sovrapproduzione
delle proprie granaglie in Africa, comperassero quelle che ivi vengono
prodotte e quindi usassero le proprie risorse nella loro distribuzione, cio'
costituirebbe un grande stimolo per l'agricoltura africana proprio dove c'e'
maggiore bisogno di esso, con conseguente riduzione di disoccupazione,
poverta', fame tra le popolazioni locali. Le esigenze di attuazione di
diritti umani basilari non fanno si' che il dumping praticato dagli Usa
costituisca una violazione di tali diritti?
*
I diritti implicano obblighi, e se gli obblighi non vengono onorati i
diritti rimangono parole nelle Carte. Diritti umani basilari come quello
alla vita e alla liberta' dalla fame implicano un obbligo dei governi
(specie quelli che hanno ratificato i patti e le convenzioni in cui siffatti
diritti sono sanciti), nonche' della comunita' internazionale di creare
leggi, norme e istituzioni per la realizzazione di quelle politiche
necessarie alla loro attuazione - a livello globale.
Qui ci si scontra con un altro difficile problema per il sistema dei diritti
umani, quello rappresentato dall'espansione dell'egemonia - specie
militare - degli Stati Uniti nel mondo. Da piu' di mezzo secolo, la
politica, tanto interna quanto estera, degli Usa viene ufficialmente
presentata e giustificata come ispirata alla promozione dei diritti umani.
Nel gennaio del 1941 il presidente F. D. Roosvelt, in un famoso messaggio al
Congresso, proponeva una nuova societa' mondiale fondata sul rispetto, "da
parte di tutti", dei diritti alla liberta' di parola e di pensiero, alla
liberta' di culto, alla liberta' dal bisogno e alla liberta' dalla paura.
Mezzo secolo dopo, alla Conferenza mondiale sui diritti umani che ebbe luogo
a Vienna nel giugno l993, l'allora Segretario di Stato statunitense, Warren
Chistopher, ribadiva l'impegno degli Usa nella difesa "della universalita'
dei diritti umani" contro "gli aggressori di tutto il mondo e coloro che
incoraggiano la diffusione delle armi", in base a un criterio unico di
comportamento determinato dalla universalita' stessa dei diritti. E,
immancabilmente, ogniqualvolta gli Usa sono intervenuti militarmente, da
soli o alla testa di alleanze, sulla scena internazionale (interventi armati
in Somalia, Bosnia, Kosovo, Iraq) essi si sono richiamati alla protezione
dei diritti umani. Ma alle parole corrispondo di rado i fatti.
E' noto che gli Stati Uniti sono i maggiori esportatori di armi nel mondo.
E' arcinoto che gli Usa non hanno ratificato vari Patti e Convenzioni intesi
a dare maggiore concretezza ai diritti sanciti nella Dichiarazione
universale dei diritti dell'uomo. Non hanno ratificato ne' il Patto sui
diritti economici, sociali e culturali del 1966 (ritenendo che parlare di
tali diritti sia un nonsenso - una "lettera a Babbo Natale" aveva a suo
tempo ironicamente caratterizzato questa categoria di diritti l'ambasciatore
statunitense all'Onu Jeanne Kilpatrick), ne' la Convenzione
sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione della donna del 1979,
ne' la Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia del l989 (unico
paese al mondo, assieme alla Somalia, a non averla ratificata). Inoltre, pur
avendo ratificando il Patto sui diritti civili e politici, essi hanno
formulato precise riserve nei confronti dell'articolo 6(5) che proibisce la
pena di morte per reati commessi da persone antecedentemente al loro
diciottesimo anno di eta', sancendo che "nella legislazione presente e
futura" degli Usa la pena capitale puo' essere comminata anche a persone per
reati commessi quando erano minori. (Sedici stati mantengono a tutt'oggi una
legislazione che permette l'esecuzione capitale per reati commessi da
minori: tra questi, l'Arkansas e il North Carolina pongono il limite a
quattordici anni, la Louisiana e la Virginia a quindici, il Mississippi a
tredici). Gli Stati Uniti hanno anche formulato precise riserve nei
confronti dell'articolo 7 dello stesso Patto che proibisce punizioni o
trattamenti crudeli, inumani o degradanti, sancendo che gli Usa sono
vincolati da questo articolo "soltanto nella misura in cui 'punizione o
trattamento crudele, inumano o degradante' significa punizione crudele o
inusuale" come proibita dalla Costituzione degli Stati Uniti. Una simile
riserva condiziona anche l'accettazione da parte degli Usa della Convenzione
contro la tortura del 1984. Nel momento in cui sto stendendo queste righe
gli Stati Uniti - che non intendono ratificare il trattato istitutivo della
Corte penale internazionale - stanno allestendo tribunali militari speciali,
incompatibili con ogni sistema democratico e stato di diritto, per giudicare
i prigionieri tenuti a Guantanamo in condizioni che contravvengono le norme
del diritto internazionale vigente.
Una sfida per il sistema universale dei diritti umani e' quella di impedire
che con l'egemonia militare statunitense prevalga a livello globale anche la
concezione riduttiva dei diritti umani di cui la classe dirigente di questo
paese e' portatrice. La sfida puo' addirittura essere nientemeno che quella
di impedire che il diritto internazionale venga di fatto sostituito da
quello americano. E' sperabile che l'Europa firmataria del Trattato di
Amsterdam, entrato in vigore nel 1999, voglia e sia in grado di prendere
questa sfida sul serio.
*
Un'altra grande sfida per il sistema dei diritti umani nel XXI secolo e'
quella - brevemente discussa da Cassese nell'ultima parte del suo scritto -
concernente l'enforcing dei diritti - almeno di quelli essenziali. Come
Cassese rileva, tale strategia si articola essenzialmente in due direzioni:
da una parte, attraverso il perseguimento e la punizione (per scopi
preventivi, non grettamente retributivi) di persone provate colpevoli di
crimini internazionali (tortura, crimini contro l'umanita', genocidio) da
corti nazionali, o da tribunali penali internazionali; dall'altra,
attraverso il ricorso, come ultima ratio e in via del tutto eccezionale,
all'intervento armato da parte della comunita' internazionale allo scopo di
porre termine a violazioni sistematiche e massicce di diritti umani, o
almeno di quelli indicati da Cassese come "essenziali".
Su questo ultimo punto il dibattito negli ultimi dieci anni si e' fatto
sempre piu' intenso. Un numero crescente di voci, molte assai autorevoli, si
sono alzate a sostenere o rispettivamente a contestare la tesi per cui il
diritto internazionale deve essere sviluppato in modo tale da rendere
possibile legittimare in base ad esso determinati interventi militari
umanitari da parte della comunita' internazionale. Vari fautori di questa
tesi auspicano addirittura la legittimazione di siffatti interventi anche
senza l'autorizzazione dell'Onu - almeno in situazioni in cui l'Onu non sia
in grado di agire e tutte le alternative diplomatiche e quelle di intervento
non armato si siano dimostrate inefficaci. A sostegno di questa tesi si
adducono talora vari precedenti di interventi fatti a scopo umanitario - o
comunque ufficialmente presentati come tali - e avvenuti senza
l'autorizzazione dell'Onu: l'intervento armato del Vietnam in Cambogia;
l'intervento armato da parte dell'Ecowas (Economic Community of Western
African States) nel l990 in Liberia dilaniata dalla guerra civile;
l'intervento di truppe statunitensi, francesi e inglesi nel l991 nell'Iraq
del Nord, giustificato ufficialmente come necessario per proteggere le
popolazioni curde ivi residenti dopo il soffocamento della rivolta curda da
parte dell'esercito di Saddam Hussein; i bombardamenti della Nato contro la
Iugoslavia, e via dicendo. Il diritto internazionale non e' statico. Esso si
trasforma continuamente attraverso nuove interpretazioni che non sono il
risultato di conferenze diplomatiche internazionali, bensi' interpretazioni
degli stati; e quando queste interpretazioni sono sostenute da grandi
potenze e via via condivise da un numero sempre maggiore di stati, esse
diventano in prosieguo di tempo consuetudine e un po' alla volta diritto
vincolante (principio di effettivita'). Tuttavia, come Cassese rileva, non
vi e' a tutt'oggi nel diritto internazionale consuetudinario una norma
largamente accettata che sancisca interventi armati umanitari del tipo in
questione. Sia in relazione al massiccio intervento armato della Nato in
Kosovo nel 1999, sia in relazione all'intervento armato ancor piu' massiccio
degli Usa e alleati contro l'Iraq (tutti e due gli interventi, come noto,
sono avvenuti senza l'autorizzazione dell'Onu), la comunita' internazionale
e' stata profondamene divisa.
*
L'attuazione dei diritti umani richiede potere. Ma si puo' lecitamente
perseguire la loro attuazione attraverso operazioni militari che comportano
esse stesse la violazione di diritti? Questo e' il dilemma. Nella sua
trattazione vengono spesso tirati in ballo vari principi, quello di
"proporzionalita'", quello di "discriminazione" tra perpetratori di
violazioni di diritti e innocenti (tra combattenti e civili), e quello tra
"violazioni dirette" (deliberatamente volute) e "violazioni collaterali"
(previste o prevedibili, ma non deliberatamente volute) di diritti umani.
Ciascuno di questi principi solleva piu' questioni di quelle che in base ad
essi si cerca di risolvere. Le violazioni di diritti debbono essere
proporzionali: come, quanto, a che cosa? E chi lo decide quando lo sono?
Come si traccia piu' precisamente la linea di demarcazione tra coloro che
sono coinvolti in violazioni massicce di diritti (combattenti) e coloro che
non lo sono (civili)? Che senso ha, da parte delle vittime, se loro
fondamentali diritti sono violati direttamente o collateralmente? E perche'
mai le violazioni collaterali di diritti sarebbero meno importanti (quanto?)
di quelle dirette?
Qualcuno e' forse disposto ad avanzare seriamente la tesi per cui interventi
militari come quelli della Nato contro la Iugoslavia o della coalizione
Usa-Gran Bretagna (perche' di questa in effetti si e' trattato) contro
l'Iraq, non comportano nessuna violazione di diritti? Ma gia' le politiche
di sanzioni - comprese quelle decise in varie occasioni dal Consiglio di
Sicurezza (da quelle contro la Repubblica Sudafricana al tempo
dell'apartheid ufficiale, a quelle contro l'Iraq) - hanno avuto effetti
devastanti sui diritti di milioni di persone. Come rilevato in un rapporto
del Comitato delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e
culturali - steso in base a un'analisi di vari tipi di sanzioni e del loro
impatto nei vari paesi colpiti - "le sanzioni determinano spesso
interruzioni nella distribuzione di cibo, prodotti farmaceutici e sanitari,
compromettono la qualita' dell'alimentazione e l'accesso all'acqua potabile,
colpiscono gravemente il funzionamento dei servizi sanitari di base e
dell'istruzione, abbattono il diritto al lavoro". Se questi sono gli effetti
sui diritti umani delle politiche di sanzioni, figurarsi quali sono quelli
connessi con i massicci interventi armati "umanitari" verificatisi gli
ultimi quindici anni! E allora?
Allora e' auspicabile che il diritto internazionale non legittimi, in nome
della tutela di diritti fondamentali, massicci interventi armati di tal
tipo. E se per mettere fine a vistose e reiterate violazioni di diritti
umani fondamentali e' ritenuto necessario, come ultima ratio, l'intervento
armato da parte della comunita' internazionale, e' ovviamente importante che
chi decide sull'ultima ratio non sia questo o quello stato o alleanza di
stati e che le forze militari da far intervenire non siano quelle di paesi
che nell'area di intervento hanno grossi interessi economici, geopolitici,
ecc. E' quindi auspicabile che un eventuale diritto di intervento armato
umanitario rimanga di esclusiva competenza dell'Onu.
E' ben vero che in seno all'Onu le decisioni di intervento le prende il
Consiglio di Sicurezza, che queste decisioni sono politiche e che,
attraverso l'istituto del veto, possono essere bloccate. Ma e' altrettanto
vero che politiche sono pure le decisioni di intervento di uno stato o
alleanza di stati. Quello che occorre, oggi piu' che mai, e' potenziare il
processo di riforma democratica e ulteriore rafforzamento dell'Onu. Nella
regia di un'Organizzazione delle Nazioni Unite piu' democratica, piu' forte
ed economicamente piu' attrezzata sono pensabili efficaci, e dal punto di
vista internazionale piu' credibili, interventi umanitari alternativi a
quelli armati: politiche di sanzioni molto selettive volte a colpire i
responsabili di massicce violazioni di diritti umani e non intere
popolazioni; impiego di vasti contingenti di verificatori (in Kosovo, per
esempio, invece di ritirare i verificatori Osce in vista e/o preparazione
dei bombardamenti, si poteva potenziarne fortemente la presenza portandoli
da poche migliaia a decine di migliaia); impiego di forze di intervento non
armate.
*
Comunque sia, l'introduzione nel diritto internazionale di una norma che
sancisca, in determinate e ben specificate condizioni, "interventi armati
umanitari" comporta l'evoluzione del diritto internazionale in direzione di
una revisione dei principi di sovranita' e non-intervento. Ma cio' puo'
avere implicazioni assai radicali. Se possono essere legittimati determinati
e ben limitati interventi armati da parte della comunita' internazionale
allo scopo di (cercare di) porre fine a massicce violazioni di diritti
basilari perpetrate contro intere popolazioni dai loro governi o da fazioni
coinvolte in una guerra civile, perche' non potrebbero parimenti essere
legittimati interventi coercitivi (non dico armati!) da parte della
comunita' internazionale nei confronti di stati - ma anche di attori non
statali - le cui politiche economiche comportano palesi e gravi violazioni
di diritti umani basilari tra le popolazioni del pianeta? E perche' non
dovrebbero trovare legittimazione - sempre che sia possibile attuarle -
misure volte a introdurre un sistema di tassazione coercitiva globale degli
stati (e delle multinazionali) al fine di realizzare una ridistribuzione un
po' piu' equa delle ricchezze e risorse del pianeta e garantire cosi'
l'effettiva fruizione di diritti umani basilari per un numero crescente di
persone? Cio' puo' a sua volta comportare una revisione del principio di
sovranita' territoriale come sancito nell'articolo 1 comma 2 dei due Patti
del '66 per cui "tutti i popoli possono disporre liberamente delle proprie
ricchezze e delle proprie risorse naturali". E' vero che questo articolo
puo' essere visto come volto a tutelare dallo sfruttamento i popoli piu'
poveri e deboli; ma e' parimenti chiaro che esso favorisce fortemente anche
quelli che sono piu' ricchi, lo siano per fortuna naturale, o come frutto di
passate immani violenze e violazioni di diritti nei confronti di altri
popoli, o per ambedue questi fattori.
La funzione del sistema dei diritti - presi sul serio - e' quella di
costituire una barriera alla violenza in tutte le sue forme, da quella
militare, a quella strutturale, a quella culturale. La grande sfida cui tale
sistema si trova di fronte nel XXI secolo e' nientemeno che quella di
riuscire a imporsi a livello globale. A rischio, altrimenti, di rivelarsi un
inganno di piu'.

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