Giuliano Pontara: Etica e Politica

La questione del rapporto tra etica e politica riguarda tre problemi fondamentali.
Definendo la politica come l'insieme dei comportamenti (di un individuo, di
un gruppo, di una collettivita') volti ad influenzare, conquistare,
mantenere o esercitare il potere (a livello locale, statale,
internazionale), i tre problemi possono essere posti brevemente nel modo
seguente: 1) se l'agire politico possa plausibilmente essere fatto oggetto
di giudizio morale, ossia se esso sia sussumibile sotto le categorie del
moralmente giusto e ingiusto, doveroso e proibito, oppure esuli totalmente
dalla sfera della moralita'; 2) se, data una risposta affermativa alla
precedente domanda, le esigenze morali cui soggiace l'agire politico siano
fondamentalmente diverse da quelle cui soggiace l'agire privato; 3) se, o in
che misura e a quali condizioni, la lotta politica possa essere
efficacemente condotta con i mezzi propri della morale intesa in senso lato,
ossia l'argomentazione, il dialogo, l'appello all'empatia, la pressione
nonviolenta. I primi due problemi sono di natura prevalentemente
teorico-filosofica, il terzo e' invece di natura prevalentemente empirica.
Nel plurimillenario dibattito sulla questione, questi problemi sono stati
trattati in modo piu' o meno sistematico da pensatori, filosofi, sociologi,
politologi, scrittori e politici di natura ed estrazione culturale piu'
diversa. In questo dibattito, che va da Socrate a Gandhi, da Platone a Hegel
e Croce, da Marx ed Engels a Lenin e Mao, da Aristotele a Tommaso d'Aquino
a Maritain, da Machiavelli e Hobbes a Max Weber, Meinecke e Karl Schmidt, da Sofocle a Tolstoj e Sartre, sono individuabili relativamente a ciascuno dei
tre problemi, tre tesi opposte: 1. La tesi dell'amoralita' della politica
verso la tesi della sua moralita'; 2. la tesi dualistica verso la tesi
monistica; 3) la tesi "realistica" verso la tesi "idealistica".
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1. Secondo la tesi dell'amoralita', l'agire politico (individuale o
collettivo che sia) non soggiace, gia' a livello teorico, ad alcuna esigenza
o limite di natura morale; esso esula dalla sfera della moralita' tout
court, e' al di la' del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto. Ne
segue che chi formula sinceramente giudizi morali sull'agire politico compie
un errore analogo a quello che compirebbe chi, applicando categorie morali
alla condotta degli animali o delle macchine, giudicasse tali comportamenti
moralmente giusti o doverosi o sbagliati. E' pero' compatibile con questa
tesi riconoscere che giudizi morali su questo o quell'agire o attore
politico possono essere usati come strumenti di propaganda nella misura in
cui si dimostrano mezzi efficaci nella lotta politica per i fini che si
perseguono. Per esempio, visto che tanta gente crede - erroneamente, secondo i fautori della tesi in oggetto - che vi siano guerre moralmente
giustificate e guerre moralmente ingiustificate, puo' essere assai efficace,
al fine di ottenere l'appoggio ad una guerra, presentarla come moralmente
giustificata.
Un argomento talora addotto a sostegno della tesi dell'amoralita' della
politica e' che l'agire politico, a differenza dell'agire privato, non e'
espressione di una volonta' libera, ossia che gli attori politici, a
differenza degli individui che agiscono nella sfera del privato, non sono
forniti di libero arbitrio. Questo argomento si fonda sulla premessa che la
morale presuppone una volonta' libera, o, come si suole dire, che dovere
implica potere. Ma perche' mai gli individui che agiscono in ruoli politici
dovrebbero perdere quella liberta' del volere che presumibilmente hanno
nella sfera privata? Altra cosa e' che vi possono essere azioni le quali, in
determinate situazioni, sono politicamente impossibili, nel senso che un
attore politico non puo' scegliere di farle se vuole influenzare, mantenere
o conquistare il potere. A volte l'argomento in questione e' formulato
soltanto relativamente a comportamenti politici collettivi in situazioni
conflittuali acute: in tali situazioni i singoli individui membri di tali
collettivita' perderebbero del tutto ogni potere di scelta e l'agire
collettivo diventerebbe simile ad un fenomeno naturale. In base a questo
argomento, la guerra, per esempio, e' il risultato di forze impersonali
sulle quali gli uomini non hanno alcun potere di influire: strettamente, non
sono gli uomini a scegliere di fare la guerra, ma forze impersonali che, in
determinate situazioni, fanno fare agli uomini la guerra. In questo senso,
tutte le guerre che si sono verificate e quelle che si verificheranno sono
"necessarie". La guerra, quindi, non e' ne' morale ne' immorale - e'
amorale.
La tesi dell'amoralita' della politica non va confusa con quella della
minore moralita' secondo la quale vari fattori socialpsicologici e
sociologici fanno si' che gli attori politici siano portati a trasgredire
impunemente esigenze basilari di moralita' in misura maggiore di quella in
cui lo sono gli individui nei loro rapporti privati. Questa tesi presuppone
che l'agire politico non esuli dalla moralita' tout court.
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2. Se la politica rientra nella sfera della morale, un problema che sorge e'
in base a quali criteri essa vi rientri. Secondo la tesi dualistica, l'agire
politico e' moralmente giusto o ingiusto in base a criteri diversi -
fondamentalmente diversi - da quelli validi nella sfera del privato. Vi sono
varie versioni di tale tesi, a seconda del contenuto che piu' precisamente
si da' a tali criteri. La versione forse piu' diffusa, risalente in parte a
Machiavelli, a Lutero, ai teorici della ragion di stato, e' quella elaborata
da Max Weber. Egli distingue tra etica della convinzione o dell'interiorita'
(Gesinnugsethik) da una parte, ed etica della responsabilita'
(Verantwortungsethik) dall'altra. Grosso modo, la prima, valida nella sfera
dei rapporti privati, e' una forma di cosiddetta etica deontologica in
quanto si articola in una serie di obblighi (non uccidere, non mentire,
mantenere le proprie promesse, soccorrere i bisognosi, ecc.) valevoli nei
confronti di tutti e vincolanti indipendentemente dalle conseguenze cui
l'agire conforme ad essi conduce. Per Max Weber, quest'etica s'identifica
sostanzialmente con l'etica dell'amore e della non resistenza al male
predicata da Cristo. La seconda invece, valida nella sfera dell'agire
politico, e' una forma di cosiddetta etica consequenzialistica in quanto
consiste in un principio fondamentale che prescrive di agire in base al
calcolo delle conseguenze che l'agire ha per il bene o gli interessi dello
Stato (o, in altre versioni, del popolo, o della nazione o della classe) cui
si appartiene. Se vi sono altri obblighi morali, essi sono secondari
rispetto a quello di massimizzare il bene dello Stato. Per l'attore politico
le ragioni morali piu' forti sono sempre le ragioni di Stato: "salus rei
publicae suprema lex". In base a questo principio di etica politica possono
essere moralmente giustificate azioni - come mentire, uccidere, non
mantenere patti - che in base all'etica privata sono ingiustificabili.
Una siffatta concezione dualistica e' problematica sotto vari aspetti. Qui
se ne indicano brevemente due. Problematica, in primo luogo, e' l'idea che
vi sia una distinzione fondamentale e irriducibile tra esigenze etiche a
livello privato e esigenze etiche a livello politico: e' difficile vedere in
base a quali argomenti una siffatta distinzione possa essere plausibilmente
difesa. Altrettanto problematica, in secondo luogo, e' l'idea di un obbligo
irriducibile, ultimo e assoluto, o comunque dominante, di massimizzare il
bene dello Stato cui si appartiene: perche' mai le conseguenze dell'agire
politico cesserebbero di essere moralmente rilevanti allorche' investono,
come spesso e in modo molto drammatico accade, il benessere di persone e
gruppi che non appartengono allo Stato dell'attore politico agente? Perche'
mai le esigenze fondamentali della morale in politica si fermerebbero ai
confini dello Stato, che e' una costruzione storica che in futuro puo' anche
non esistere? Tutti e due questi problemi sono evitati da una concezione
etica che, riprendendo la dottrina dell'utilitarismo classico elaborata
inizialmente da Jeremy Bentham e susseguentemente da Henry Sidgwick e altri, assume come unico e fondamentale principio etico quello che prescrive di massimizzare il benessere o la felicita' generale a livello universale.
L'utilitarismo e' un esempio - forse il piu' convincente - di dottrina etica
universalistica e monistica: cio' che rende un'azione (sia essa individuale
o collettiva, privata o politica) moralmente giusta sono le conseguenze che
essa ha sul benessere generale universale, incluso quello delle generazioni
future. Va notato che in base a tale dottrina monistica si puo' sostenere
una forma di dualismo derivato: siccome la previsione e il calcolo delle
conseguenze delle nostre azioni sul benessere generale sono molto difficili
e complessi, puo' essere preferibile - perche' probabilmente massimizza il
benessere generale - che nella vita quotidiana gli individui non deliberino
applicando direttamente il principio utilitaristico bensi' seguano delle
norme generali di condotta. Queste norme possono benissimo identificarsi,
almeno in parte, con quelle che nella tesi dualistica sopra accennata sono
considerate proprie dell'etica individuale. A livello di grandi scelte
collettive, sociali, economiche, politiche - che presumibilmente hanno
conseguenze di ben piu' vasta portata sul benessere generale e dove
presumibilmente si puo' contare sulla collaborazione di gruppi di esperti di
vario tipo - puo' invece essere preferibile che le decisioni su quale
alternativa mandare ad effetto siano basate direttamente sul calcolo delle
conseguenze. Un altro tipo di dottrina monistica e' quella fondata sull'idea
di diritti fondamentali dell'uomo universalmente validi e tali da porre
precisi vincoli morali sia all'agire individuale sia a quello collettivo,
tanto nella sfera privata quanto in quella politica.
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3. Ne' la dottrina utilitaristica, ne' quella dei diritti umani escludono
come sempre ingiustificato il ricorso alla violenza. Se o meno il suo
impiego sia moralmente giustificabile dipende in parte da come e'
configurata la situazione in cui si agisce e in parte da come agiscono gli
altri. Ora, secondo i fautori della tesi "realistica" la sfera della
politica e' caratterizzata da situazioni di incontro con la menzogna, la
frode, la minaccia e l'uso della violenza, onde chi vuole partecipare alla
lotta politica in modo efficace deve avere le virtu' machiavelliche della
volpe e del leone, ossia essere disposto a ricorrere a quegli stessi mezzi:
non si puo' partecipare efficacemente alla lotta politica senza essere
disposti ad avere, come dice Jean-Paul Sartre, "le mani sporche". A questa
tesi si oppone la tesi "idealistica" per cui la lotta politica non e', per
sua natura, essenzialmente connessa all'uso della menzogna, della frode e
della violenza. La tesi si fonda sull'assunto che gli esseri umani, anche
quando agiscono in gruppo e in situazioni conflittuali tese, possono essere
in grado di comportarsi e reagire in modo umano, che essi sono influenzabili
dall'appello alla ragione, all'empatia e dalla pressione nonviolenta. La
storia dei rapporti tra politica e morale, da questo punto di vista, e' la
storia del continuo tentativo di moralizzare la politica creando situazioni
e istituzioni che limitino e riducano in qualche modo il ricorso alla
violenza e favoriscano gli strumenti del dialogo, del compromesso equo e la
soluzione pacifica dei conflitti.
Tre importanti sviluppi in questa direzione, specie a partire dal secolo
scorso, sono: a) l'affermazione in un numero sempre maggiore di stati, anche
se in modo variamente efficace, del metodo democratico, con il quale la
lotta politica viene condotta contando e non tagliando le teste; b) la
creazione dell'Onu come strumento di governance umana basata sull'idea di
diritti fondamentali; c) l'esplorazione pratica su vasta scala di metodi
efficaci di lotta nonviolenta, da quelli impiegati dalle classi lavoratrici
nella lotta tra capitale e lavoro, a quelli praticati da Gandhi, Martin
Luther King e molti altri nella lotta per l'indipendenza di un popolo o per
l'affermazione di fondamentali diritti umani. Viste le conseguenze sempre
piu' esiziali che l'uso della violenza armata nei conflitti tra stati o tra
etnie oggi conduce, compreso un rischio di catastrofe per l'intera umanita',
tre tra le maggiori sfide di questo secolo sono quella di allargare
ulteriormente il metodo democratico, quella di potenziare e sviluppare
ulteriormente l'Onu in direzione di istituzione di democrazia internazionale
o cosmopolita e quella di esplorare ulteriormente metodi efficaci di lotta
nonviolenta.


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