A Quarant’anni dal Congedo Africano del “Grand Docteur”
di Giorgio Torelli

Sono passati quarant’anni dall’addio di un grande dell’umanità, il dottor Albert Schweitzer, teologo, predicatore, personalissimo interprete di Bach all’organo, cattedratico, scrittore, medico tardivo e fondatore (una stupenda follia evangelica) di quell’ospedale nella foresta del Gabon (ex Africa occidentale francese) che il mondo finì per scoprire, ammirare senza riserve oppure discutere con argomenti accademici rivolti soprattutto ad arginare la vistosa provocazione cristiana.

Schweitzer non sentì i rumori del dibattito. E rimase fermo nelle sue scelte, nei giorni e nelle opere: casco bianco, baffi da patriarca, camicia lavata al fiume, un piccolo papillon sempre nero, pantaloni rammendati, scarpe contadine.

Fu coronato dal Premio Nobel per la pace. Restò sul campo fino all’addio. E io, che l’amavo e non avevo fatto in tempo a conoscerlo, vol- li almeno onorare la sua croce in pietra grigia, piantata su un tumulo di terra rossa sen- za niente che ribadisse la straripante storia di un intellettuale europeo sceso nell’Africa coloniale per dichiararsi (altre polemiche) «Fratello, ma fratello maggiore». Lavoravo allora per un settimanale Mondadori a grande tiratura. E proposi di raccontare il grand docteur con un vistoso servizio per il numero di Natale. Era l’inverno dell’anno 1965. Presi accordi telegrafici con un pilota francese del Camerun, il comandante Marcel Beaumont. Marcel aveva combattuto nei cie- li d’Indocina. E, tempo prima, mi aveva già recapitato alle soglie della guerra del Biafra, nell’isoletta portoghese di Sa˜o Tomè in mezzo all’Atlantico. Feci sapere a Beaumont che non c’era tempo per il visto del Gabon. E che avremmo dovuto atterrare da clandestini e inoltrarci. Il comandante telegrafò subito che potevamo farcela. Lo raggiunsi a Douala, Camerun. Decollammo all’alba con un volo trasversale sull’Africa del verde e delle nubi in smisurato sa- fari verso boscaglie e colture ansiose di piogge. L’aeroplano a freccia era vorace di miglia. In fine prendemmo pista.

VOLO CLANDESTINO IN GABON PER UN ADDIO AD ALBERT SCHWEITZER

Nel Natale 1965 scrissi questo reportage sulle rive del fiume Ogowé. Ero fortunosamente arrivato all'ospedale nella foresta, fondato a Lambaréné dal medico europeo che stupiva il mondo.

Il maestoso Albert, teologo, filosofo, organista, predicatore, casco bianco e imponenti baffi alsaziani, aveva appena chiuso i giorni. Lo rappresentava una croce in pietra grigia, alta e diritta sulla terra rossa. Le amiche galline vi razzolavano attorno.

All’aeroporto di Libreville, capitale del Gabon. C’era con noi anche un fotografo taciturno. Eravamo dunque tre: il pilota coloniale, il giornalista e il fotografo, arrivati dall’alto senza dire perché. Nel suo spiccio francese da Gauloise a fior di labbra, Beaumont padroneggiò i doganieri gabonesi bantu. Disse senz’altro: «Andiamo un momento dal dottor Schweitzer. Parcheggio qui l’avion. Torniamo subito». I gabonesi abbozzarono, più sorpresi che indignati. Così navigammo in piroga l’Ogowé, fiume di gran respiro e sovrana corrente, approdando a Lambaréné per restarvi alcuni giorni, talmente intensi da parer smisurati. La croce con il nome inciso in nero – Albert Schweitzer –, niente titoli di merito, niente massime, solo le due date, era là. Le galline ovaiole vi razzolavano. E i bambini dai grandi occhi lasciavano le loro piccole orme sul fulvo del terriccio. Quando tornammo all’avion – un affilato Piper Comanche –, i doganieri s’erano scordati di noi. Si fece subito quota. Apparivamo intrisi di storie mirabili. Beaumont pilotava coi guanti di seta bianca. E ogni tanto faceva di sì con la testa come a dire: che esperienza. Da Douala (addio a Beaumont), si riguadagnò l’Italia via Parigi.

A Milano, il mio reportage fu messo a stampa nel Natale dell’anno Domini 1965. Il numero della rivista settimanale – 500mila copie di tiratura – aveva 250 pagine e la copertina d’oro. L’incursione a Lambaréné per salutare l’ombra di Schweitzer ne fu il vistoso servizio d’apertura. Ripubblicarlo oggi ha un doppio significato: far conoscere Schweitzer a chi non ne abbia ancora contezza; e ripetere al grand docteur (tra cielo e terra si librano milioni di parole invisibili) che non l’abbiamo mai dimenticato.

Non dovrà accadere che la sua storia concreta, tangibile, sempre esemplare, volga in leggenda televisiva e sfiorisca.

Io – per me – saluto il dottor Schweitzer tutte le sere. Fu la sua più devota infermiera di prima leva, la mite e impeccabile olandese Àli Silver, a donarmi una delle penne di color verde con cui Albert scriveva al lume notturno della lampada a petrolio. La penna è nata americana. Come usava fare con le cannucce, Schweitzer la spezzò in due per bilanciarla meglio tra indice e medio. Poi praticò lungo il fusto una spirale, manovrando con accortezza certosina una vecchia lametta da barba: benché sudate per le calure equatoriali, le dita avrebbero trattenuta la penna in movimento.

Quando scriveva di giorno (in tedesco e in francese), il dottor Albert vedeva corteggi di impazienti formiche traversargli il foglio in affrettata moltitudine. Figurarsi: non si sarebbe mai consentito di scacciarle. Il rispetto per la vita, ogni vita della Creazione, era la sua legge intima. Scioglieva allora due cucchiai di zucchero in un bicchiere, mescolava con vigore e intingeva il mignolo nel liquido ormai dolce tracciando, lungo il perimetro del foglio, una golosa autostrada per i suoi amici insetti. Le formiche stavano al gioco e seguivano volentieri le dolci piste obbligate. Per Albert, furono sempre compagne di concentrazione.

Àli Silver mi disse: «La penna è sua. Sono certa che le farà memoria di Albert».

L’ho fissata a una piccola tavola di legno africano. C’è una targhetta sotto: «Lambaréné, anno 1965». È appesa sul mio comodino, sempre là, accanto a pile di libri in lettura e altre rimembranze di viaggio e di conoscenza. Mi è molto cara. Talora, sembra scrivere pa- role che non si vedono e che io so leggere.

Ecco, dunque, la mia testimonianza su quello che fu uno dei più avventurosi ospedali missionari dei continenti in divenire. Siamo nel dicembre africano 1965, giorni in dorata discesa verso il Natale.

AN UNDERCOVER FLIGHT TO GABON FOR A FINAL FAREWELL TO ALBERT SCHWEITZER

Some great men and their work have a timeless fascination. Forty years have passed since A. Schweitzer’s death, but his legacy lives on. Reading the article celebrating his achieve- ments, published years ago just a few months after his death, is like unearthing all the human and moral values of an extraordinary life. From the 75 huts of his Lambaréné hospital on the River Ogowè, to the pelican Parsifal II, the faithful nurse Ali Silver, and Schweitzer’s predestined heir, Doctor W. Munz, who was as tough and fearless as his master. Time stands still as you read through these pages, which convey the spirit of this great mission and show how important this man was to the world and to the history of mankind.

LAMBARENE (GABON), DICEMBRE 1965 Dal nostro inviato speciale

Il tramonto tinge di plumbeo le acque. Vaste striature rosse macchiano il livido delle nubi; e la linea viola all’orizzonte si rischiara di lampi. Il termometro oscilla sui trenta gradi, l’umidità sfiora il 93 per cento. Talvolta raggiunge il 95. Nell’aria satura d’acqua i tre motori, che danno luce alla baracca operatoria e alle corsie dei ricoverati, scoppiettano, poi si spengono, soffocati. Le prime gocce tambureggiano sul- le palme da olio, l’albero del pane e le lunghe foglie della cannella; la foresta ogni sera si fa lucida. Matrone nere con foulard di chiffon celeste in capo, mettono al riparo lenzuola e bende che hanno ve- leggiato tutto il giorno sui filari tra i manghi e le papaie. Al tramonto, un campanaro nero batte il martello su due rotaie appese a un sostegno di legno rosso: suona la fine della giornata. Allora, dai ricoveri degli ammalati, si leva con un fumo azzurrognolo l’acre odore del legno bruciato, che arde male. Le famiglie dei pazienti, accampate attorno alle corsie, cucinano il caimano nelle pentole in bilico sui ciottoli.

Nelle settantacinque baracche dell’ospedale di Lambaréné, che dal Piper Comanche bimotore si scorgono rosseggiare tra la foresta vergine, questo è il primo Natale senza il dottor Schweitzer. Il fiume Ogowé continua a muovere lento verso l’Oceano Atlantico e lunghe formazioni di pellicani lo incrociano a fior d’acqua contro corrente. Per la prima volta, dopo quarantotto Vigilie africane, il vecchio dottore non poserà le dita sul pianoforte della salle à manger, né improvviserà, come sempre, una toccata e fuga prima di accompagnare il coro dei sei medici e delle tredici infermiere, che cantano in tedesco, illuminati dalle lampade a petrolio.

Il pianoforte è chiuso a chiave. Schweitzer riposa lungo il sentiero che dalla collina porta a un’ansa del fiume. È accanto alla baracca dove il 4 settembre 1965, alle ventitré e venti, ha chiuso gli occhi sotto la zanzariera, i bianchi e i neri muti tutt’attorno. Aveva compiuto novant’anni l’11 gennaio. L’imbarcadero gremito di piroghe, con qualche rematore bendato a bordo, è poco più sotto. Un vecchio pesca. La croce del dottore è in pietra grigia, la scritta in lettere nere. Un gallo si drizza sulla croce ogni mattina e si gonfia per cantare. Altri galli gli fanno eco fino al limitare della foresta. Caprette di manto nero belano e allattano dovunque. Nel terriccio fulvo attorno alla croce sono stati trapiantati arbusti di rose, ma stentano a crescere, insidiati dalle capre. Le due antilopi dinoccolate e il pellicano Parsifal II, che il dottore ammise nella sua stessa stan- za di lavoro, sopravvivono in due recinti ombrosi. La linea dell’Equatore corre ottanta chilometri più a nord, subito sotto il Cameroun; il Congo ex francese è a un’ora di volo; l’Oceano a duecentottanta chilometri. La stagione delle piogge volge al culmine. Quando imbruna, il cielo, prima così alto sulla foresta, si appesantisce. E tentano di riordinarsi i capelli. È la vita di sempre, in quest’angolo d’Africa. Sono sbarcato a Lambaréné per dire «Buon Natale» a tutti: ai medici, alle infermiere, ai carpentieri, ai malati, a chiunque ha deciso di dedicarsi all’ospedale della foresta per seguire Schweitzer o solo per ascoltare il più riposto e geloso dei suoi intendimenti. Dopo un difficile volo dal Cameroun al Gabon sopra una coltre di foreste e fiumi al di qua e al di là dell’Equatore; dopo il passaggio dell’Ogowé in piena su una piroga ricavata da un tronco di padouk, sono approdato alla riva dell’ospedale, lungo la collina.

Nella stanza dove il Ngang- Nden (il grande dottore) lavorò per circa mezzo secolo, ho portato un fascio di rose rosse. Il nastro che le legava dice «Al dottor Albert Schweitzer nel Natale del 1965». È stata l’infermiera olandese Àli Silver a deporle sul tavolo, e non ha potuto neanche dir grazie. Guardava fissa le rose, turbata dai ricordi. C’era un raggio di sole sulle lenti degli occhiali di Schweitzer rimasti dove li aveva deposti l’ultima volta lui stesso. Mandavano un barbaglio che si rifletteva sul camice bianco della signorina Silver. Poi è arrivato il dottor Munz, alto più di un metro e ottanta, camicia e calzoni bianchi, sandali francescani di cuoio, capelli brizzolati, viso aperto. Ha teso la mano e in italiano ha detto: «Le sono riconoscente per questo segno di amicizia. Grazie per il dottor Schweitzer».

Walter Munz, trentadue anni dal 1° marzo, svizzero di Arbon nel Canton di Turgovia, è il nuovo Schweitzer dal febbraio di quest’anno. Il dottore stesso l’ha scelto per continuare il lavoro a Lambaréné e per mandarlo avanti, con l’antica saggezza ma anche con metodi, attrezzature, cognizioni, strumenti più nuovi. Munz è scapolo, specialista in chirurgia gene- rale, ottimo ostetrico, luterano. Come dice lui: «Vengo da una buona famiglia protestante». Il padre Emilio, medico generico di sessantacinque anni, vive al numero 12 di Rebenstrasse ad Arbon. È malato. È stato a Lambaréné con suo figlio quando il grande dottore chiese a Walter, che allora aveva solo trentun anni, di prendere il suo posto alla guida dell’ospe- dale. Munz era approdato qui nel maggio del 1961 ed era rimasto fino all’agosto del 1963 (aveva letto a dieci anni il primo libro di Schweitzer). Poi si era visto arrivare in Svizzera una lettera dal vecchio medico che diceva: «Venga, l’ospedale è suo». Ha studiato a Losanna, Zurigo, Amburgo, Roma e Napoli. Parla tedesco, francese, italiano, inglese e due dialetti africani. Dal suo primo giorno a Lambaréné, ha fatto millecinquecento interventi chirurgici. La sala operatoria è in una delle grandi baracche. Infermieri gabonesi con la mascherina bianca sul volto nero, lucido di sudore, escono ogni tanto nel sole a riprendere fiato. Passano anitre con la nidiata di anatroccoli, in fila indiana. Munz compie anche otto interventi per mattina. Opera martedì, giovedì e sabato. Oltre la fitta rete che dà aria alla baracca, lo si vede curvo sul paziente, il camice colorato in giallo da una grande lampada. La alimentano tre motori a gasolio che mandano un rombo sordo nella più vicina delle capanne, quella della centrale elettrica. Il primo motore arrivò nel 1954, il secondo nel 1962, il terzo è nuovo. Munz è assistito da un medico cecoslovacco di quarantacinque anni, il dottor Jaroslav Sedlacek, chirurgo plastico, che ha un volto alpino, la barba ispida, rossiccia, gli occhi chiari. Dicono sia un profugo politico. Ma a Lambaréné non occorre dire tutto.

Munz precisa: «Siamo tutti amici. Non per questo in confi- denza». Ci sono quattro medici oltre Munz e Sedlacek. Conosciamoli. L’ungherese Richard Fried- man, medicina interna e psichiatria, quarantaquattro anni, nove anni di Lambaréné, ha baffi e favoriti grigi come li portò l’imperatore Francesco Giuseppe; parla quattro lingue, anche l’arabo; nel grembiule bianco che tiene come gli altri appeso al collo, ha una tasca irta di matite; è l’unico che ascolti una radio a transistor per comunicare ai colleghi cosa è suc- cesso nel vasto mondo, ben oltre l’Ogowé; è ebreo. Il dottor Fergus Pope, americano, pediatra e ra- diologo, ha trentasei anni; è all’Equatore da un anno, insieme alla moglie. Il dottor Ary van Wijnen, medico generico, è il più giovane: ha ventisei anni, è arrivato da tre mesi dall’Olanda; è biondo, roseo, commosso; si pettina con cura, resta ore con lo stetoscopio incollato alle schiene nere. Infine c’è il dottor Isao Takahaschi, giapponese, cinquantotto anni; è di religione shintoista ed è venuto dall’Estremo Oriente per prodigarsi tra le baracche dell’ospedale dei lebbrosi, quello che Schweitzer costruì coi 30.480 dollari del premio Nobel per la pace, vinto nel 1953. Takahaschi non discute mai il cristianesimo degli altri cinque: si ritrovano d’accordo sui fatti. Suona la cetra e canta con una voce tenera, da adolescente. Molti dei suoi pazienti vengono dimessi – guariti – dopo un anno e mezzo. La maggior parte dei lebbrosi sono cattolici.

Walter Munz guida i suoi collaboratori con umiltà, a bassa voce. Tutti sono stati intimi di Schweitzer e devono aver condi- viso la scelta del nuovo primario della foresta. «Ma anche noi siamo uomini comuni» dice Munz. «Portiamo il fardello degli errori, delle gelosie, delle rivalità, esattamente come tutti gli altri. Ci sforziamo solo di compiere il nostro dovere. E la fatica è così dura che, alla fine, c’è posto soltanto per la gioia di averla compiuta. Non c’è molto tempo per pensare a noi stessi».

La nostra giornata a Lambaréné avanza veloce.

A tavola, siedo alla destra di Munz. Siamo venticinque. Il posto del dottor Schweitzer è rimasto. È l’unica sedia vuota. Sono le dodici e trenta. Il tempo è stato scandito dal suono del martello sulle rotaie. Vicino a noi siede un urologo dell’Università di Harvard, in visita di studio all’ospedale. È americano con l’accento di Bo- ston. Sorride a un’infermiera pari- gina, bionda, avvenente, le braccia nude, che ha scelto Lambaréné come soluzione a un matrimonio difficile. Si chiama Nicole. Nicole sorride a sua volta (Schweitzer non ha mai commentato i flirts del suo ospedale. Li ha tollerati, in silen- zio). La tovaglia è bianca, a piccole foglie. Le stoviglie in ceramica bianca, il coltello e la forchetta appoggiati a una barretta di mogano. Ci sono i due pianoforti del dottore, accanto all’ingresso. Uno è nero, consunto. L’altro bruno, lucido. Su quello nero, Schweitzer accompagnava i canti luterani; sul pianoforte bruno si esercitava in Bach.

Dice Munz: «Non era un virtuoso delle dita ma, quando improvvisava, riusciva sempre a comunicare ciò che sentiva». Prima che i gabonesi servano il pasto passandosi i piatti dalla cucina comunicante, Munz posa i gomiti sulla tavola, si chiude gli occhi con le palme e recita la preghiera in tedesco, la stessa che Schweitzer ripeté dal 1913: «Ringraziate Iddio perché è amichevole e la sua bontà dura eternamente». Tutti si sono coperti il volto.

ALBERT SCHWEITZER

1875 nasce a Kaisersberg (Alsazia, allora terra tedesca); la famiglia si trasferisce a Gunsbach, dove il padre è pastore evangelico.

1883 inizia lezioni di organo.

1890 scopre J. S. Bach, che ispirerà tutta la sua vita.

1893 inizia gli studi universitari di teologia e filosofia a Strasburgo.

1894 presta servizio militare e inizia gli studi sulla vita e il pensiero di Gesù Cristo.

1899 dottorato in filosofia; vicario della chiesa di San Nicola a Strasburgo.

1900 dottorato in teologia. 1902 insegna alla facoltà di teologia dell’Università di Strasburgo.

1904 si iscrive alla facoltà di medicina in vista dell’Africa equatoriale.

1905 si dimette da incarichi universitari; pubblica il primo libro su Bach.

1911 termina gli studi di medicina.

1912 sposa Hélène Bresslau.

1913 è con la sposa a Lambaréné (Gabon).

1917 Albert e Hélène deportati in Francia come prigionieri di guerra.

1919 a Gunsbach è di nuovo vicario di San Nicola; inizia la predicazione sul “rispetto della vita”, tema che lo accompagnerà per tutta l’esistenza.

1920 tournée trionfale in Svezia per conferenze e concerti d’organo; scrive Ai bordi della foresta vergine.

1923 conferenze all’Università di Praga; pubblica Declino e restaurazione della civiltà, Civiltà e etica, Le religio­ ni mondiali e il cristianesimo.

1924 riparte per Lambaréné.

1925 inizia un ospedale più grande.

1928-29 tiene conferenze e concerti d’organo in Svezia, Da­ nimarca, Olanda, Svizzera e Cecoslovacchia; registra i dischi dei suoi concerti d’organo a Londra.

1931 pubblica l’autobiografia La mia vita e il mio pensiero.

1935 pubblica I grandi pensatori indiani.

1939 alla vigilia della Seconda Guerra mondiale, raccoglie provviste e medicamenti urgenti e torna in Africa dove rimarrà 10 anni.

1940 scontro fra le truppe del Governo di Vichy e di De Gaulle a Lambaréné: è rispettata la neutralità dell’ospedale.

1949 viaggio negli Usa, acclamato come «il più grande uomo del secolo XX».

1950 tiene numerosi concerti d’organo in Europa; pubblica Storia del mio pellicano.

1953 riceve il Premio Nobel per la pace; con la somma, rea­ lizza il villaggio dei lebbrosi.

1955 compie 80 anni, osannato da tutto il mondo; riceve il premio Order of merit dalla regina Elisabetta II.

1957 da Radio Oslo, allocuzione in varie lingue sul problema della bomba atomica; a Zurigo, muore la mo- glie Hélène, sepolta a Lambaréné.

1965 compie 90 anni; muore il 4 settembre a Lambaréné.

Non usò mai l’aeroplano. Le diciannove volte che tornò in Europa col bastimento, viaggiò in terza classe, «solo perché non c’era la quarta».

He never took aeroplanes. The nineteen times he returned to Europe by ship, he travelled third­ class, «only because there was no fourth class».

Si mangia mezza papaia, che è come un melone molto dolce. Poi un potage di verdura, purea, umido di carne, piselli, carote, patate e una macedonia di frutta tropicale: banane, mango, papaia e nocciole. Si beve acqua. Tutta l’acqua è bollita. Spesso è acqua piovana, talvolta viene da una picco- la fonte. Ci sono sempre fuochi accesi a Lambaréné, dove tutto bolle; l’acqua, i panni chirurgici dopo l’intervento, le bende, le pentole per il cibo delle famiglie dei pazienti, allineate lungo le capanne.

La razione per gli ammalati è di sette banane, una scatoletta di sardine o carne e una larga fetta di pane bianco al giorno. Il pane si cuoce ogni mattina con la farina inviata dalla Svizzera. Tutto arriva dall’Europa: la carne dai Cantoni elvetici, il burro dall’Olanda, molto scatolame dalla Germania. I mercantili scaricano le merci alla foce dell’Ogowé, poi le piroghe cariche risalgono il fiume fino all’ospedale. Ci sono altrettante specialità medicinali, le stesse di un qualsiasi ospedale europeo bene organizzato. Ma bisogna prevederne l’approvvigionamento con sei mesi di anticipo. Gli antibiotici e il glucosio sulfonato per i centosessanta lebbrosi vengono da Inghilterra, Stati Uniti, Svizzera e Alsa- zia; anche da tutti i Paesi dove esiste una Associazione degli Amici di Albert Schweitzer.

L’area su cui sono poste le settantacinque baracche in legno duro (antitermiti) dell’Ospedale, appartiene alla Associazione A. S. dell’Alsazia, la più importante. I letti sono cinquecento. Oltre ai sei medici e alle tredici infermiere bianche (svizzere, tedesche, svedesi, francesi, nessuna italiana), ci sono ventisette infermieri gabonesi, uomini e donne, tutti di buona esperienza. Il Gabon non dà niente per l’ospedale. Il suo mantenimento, che costa molte centinaia di milioni l’anno (passano da Lambaréné seimila pazienti ogni dodici mesi e si compiono milleduecento interventi l’an- no), è affidato alla beneficenza de- gli amici.

Medici e infermiere sono stipendiati. «Un medico – sono parole di Munz - guadagna quello che potrebbe guadagnare, con una buona reputazione, in Europa. L’associazione degli Amici mette per noi in banca un mensile. Qui non abbiamo bisogno di niente. Solo qualche paio di calzoni, sandali, camicie e grembiuli». Nel villaggio di là del fiume fanno un film ogni due settimane. Le infermiere guadagnano meno di ottantamila lire al mese. Tutti hanno un contratto di due anni, due anni e mezzo. Munz riceve spesso domande di medici e infermieri che vogliono compiere nella vita l’esperienza di Lambaréné. Ma non ci sono più posti disponibili. Il personale basta. Si risponde solo per ringraziare.

All’ospedale giungono ogni giorno lettere da tutto il mondo. Schweitzer teneva da parte i francobolli per la vicina chiesa dei missionari cattolici, un edificio in mattoni rossi, a un quarto d’ora di piroga. Da quando il grande dottore non è più, chi amministra l’ospedale (di cui Walter è solo direttore) è la figlia di Schweitzer, Rhena, di quarantasei anni. Ha sposato il costruttore di organi Jan Eckert e ha quattro figli: Monique di ventidue anni, Philippe di venti, Christiane di diciannove e Catherine di diciassette. Solo Christiane studia medicina come il nonno e frequenta il secondo anno a Zurigo.

Adesso Rhena Eckert è in Europa per riposarsi. Anche l’organo di Schweitzer è stato inviato in Europa. Probabilmente Jan Eckert tenterà di sistemarlo. Rimase nell’umidità di Lambaréné, coperto di zinco, dal 1913. Il dottore faceva sedere sulla panchetta accanto a lui i suoi amici, poi suonava Bach. Suonava anche per le antilopi e per il pellicano Parsifal II.

Quando il pasto finisce, la pendola della salle à manger segna le tredici. Ora c’è siesta fino alle quattordici. Gli orari di Lambaréné sono precisi; la disciplina è tedesca, temperata dall’amabilità di tutti, qualunque sia lo sco- po che li ha condotti nell’isolamento dell’Africa nera. A tavola i discepoli di Schweitzer parlano quattro lingue, si colmano di so- brie gentilezze. Sono una perfetta comunità religiosa senza esserlo. «Siete l’Onu della foresta» abbiamo detto all’ungherese Friedman. E lui: «Ma noi compiamo i nostri doveri».

Tutti lasciano la tavola con la scorza della papaia colma di avanzi di cibo. È tradizione che ciascuno porti cibo a un animale, a imitazione di Schweitzer che predicò il rispetto per la vita e impose ai suoi ospiti di non uccidere neppure le zanzare ma di accompagnarle, come faceva lui stesso, fino alla finestra perché potessero tornare in grembo alla natura. Munz aveva una scimmietta, ma l’ha liberata. Schweitzer portava speciali sacchette di riso per distribuire il pasto alle sue bestiole. Passava per i sentieri di Lambaréné come un seminatore. In tutto l’ospedale non c’è un fucile anche se la foresta circostante è popolata di elefanti, leopardi, bufali, gorilla, cinghiali e se le acque del fiume nascondono l’insidia di coccodrilli e ippopotami. Munz ha operato dei contadini caricati dall’elefante o addentati dai caimani. L’elefante del Gabon è bizzoso, attacca subito.

Usciamo nel sole che abbacina. Le vecchie infermiere, e anche qualcuna delle giovani, portano il casco coloniale. Non c’è più quasi nessuno in Africa che lo porti. Si è capito da tempo che serve un copricapo solo per chi resti lunghe ore al sole. Ma basta una paglia qualsiasi, non un grande casco da esploratore. Munz è a testa scoperta. I caschi scompari- ranno uno alla volta insieme alle vecchie infermiere del primo dopoguerra. Munz riorganizzerà la vita di Lambaréné, sia pure con lentezza: le antiche abitudini patriar- cali finiranno per attenuarsi insieme alla vecchiaia dei primi collaboratori di Schweitzer e l’ospedale potrà crescere man mano che l’Africa crescerà.

Intorno ci sono ananas, molte specie di banane, palme da olio, eucalyptus, qualche sicomoro, il capok, la manioca, il corosol che dà un frutto roseo. Le caprette, presenti perfino sulla lamiera dei tetti, appartengono all’ospedale. La notte vengono rinchiuse. Il loro concime serve a fertilizzare l’orto lungo il fiume dove Schweitzer volle coltivare piselli, melanzane, pomodori, carote, zucchini e insalata. L’orto è fiorente. Lo dirige Berta, un’infermiera tedesca bruna, ridente, con grandi occhi neri e un cappello di paglia intrecciato da lei stessa. All’ingresso dell’ospedale dalla parte di terra, dove si può giungere lungo la via maestra Libreville Brazzaville, si alza un cartello triangolare. Raccomanda il limite di velocità di dieci chilometri per non investire le nidiate di anatroccoli.

Passiamo l’ora della siesta nella camera che fu di Schweitzer. È una camera di dieci metri quadrati cui si accede da una veranda. Tutto appare, per la luce filtrata dalle vetrate, in dorata penombra. Accanto alle due finestre, luccica il tavolo da lavoro, lasciato com’era. È uno scrittoio verniciato, le gambe sono tenute ferme da grosse viti. È coperto da una vecchia tovaglia. Il dottore scriveva usando come supporto una cartella che si era preparato da solo. È composta da un articolo di David W. Hinshaw sul Preludio Corale prima di Bach e da uno studio di Arthur Bryant sull’arcangelo san Michele. I due fogli cartonati sono tenuti insieme da strisce gommate e stanno al centro del tavolo. Per evitare di essere impacciato dagli avambracci sudati, il dottore usava mezzemaniche di filo bianco. Ci sono colla, elastici, inchiostro, occhiali, lente d’ingrandimento e penne stilografiche made in Usa. Le mandavano al dottore gli amici americani. Lui spezzava a metà la cannuccia della penna troppo lunga e, dopo aver scritto, metteva al riparo il pennino dentro un tubetto di gom- ma, ricavato da vecchi stetoscopi.

Il dottor Albert assiste un paziente bantu (illustrazione popolare). Da giovane, il Premio Nobel Rita Levi Montalcini provò viva ammirazione per Schweitzer. Avrebbe voluto partire e imitarlo.

Sotto: nella notte equatoriale, Albert corrisponde con l’Europa e il mondo al lume fioco della lucerna.

Dr. Albert treats a Bantu patient (popular illustration). When young, the Nobel Prize winner Rita Levi Montalcini was a great admirer of Schweitzer. She would have liked to have set off and imitated him. Below: in the equatorial night, Albert corresponds with Europe and the world in the weak light of an oil-lamp.

Il “Grand Docteur“ e la devota, instancabile, dolcissima infermiera Àli Silver, decana de l’Hôpital. Schweitzer giustificava il suo criticato casco bianco di stile coloniale col dire: «Ci troviamo 20 chilometri a Sud dell’Equatore».

The “Grand Docteur” and the devoted, tireless and very gentle nurse Àli Silver, doyenne of the Hôpital. Schweitzer justified his criticised white pith­ helmet saying: «We are 20 kilometres south of the Equator».

Il calendario è rimasto al foglietto del 4 settembre 1965, l’ultimo giorno di vita del dottore. Sul letto in ferro, a pomoli dorati, tre fiori di plastica. Tutto sfiorisce, qui. Tutto si infradicia e guasta. Sotto il letto, un vecchio baule. Dietro il tavolo, tre sgabelli. Gli alienati dell’ospedale, che il dottore volle ricoverare come gli altri, li hanno intrecciati in collaborazione. Alcuni hanno preparato il fondo sfilando dai sacchi di iuta i fili e facendone trecce; altri hanno sagomato lo scheletro. Gli sgabelli sono tre, e Schweitzer li ha ricevuti in dono quando ha compiuto ottantasette, ottantotto, ottantanove anni. I ricoverati sono venuti nella sua ca- mera per donarglieli e battevano le mani dalla gioia. Sulla parete op- posta al letto, due casse dipinte di bianco e sovrapposte. Una parete delle casse si apre a cerniera. Sono il guardaroba del dottore. Quando Àli Silver le schiude, si vedono allineati tanti dottor Schweitzer senza volto: camicie bianche, cravattini neri, calzoni bianchi, cinture nere, la sua celebre tenuta. È la stanza di un nonagenario, piena di piccoli oggetti: dal barattolo di bicarbonato con i chiodi usati e la scritta ripetuta tre volte a penna Petits clous, alle illustrazioni dei velieri ritagliate dai calendari. Il dottore amava i velieri. Non si vedono molti libri, ma quasi tutti su di lui: le biografie che il mondo gli dedicò. Il segnalibro della Bibbia glielo aveva inviato una monaca italiana. È lo stesso che si usa ancora per segnare le pagine evangeliche prima del culto di ogni sera. La monaca era Madre Maria, dell’Eremo Francescano di Campello sul Clitunno. Il segnalibro non è stato completato, la Madre è morta prima. È di saio e reca le parole: Filé par Mère... Manca il nome. Sono state le consorelle a inviarlo a Schweitzer, precisando come Madre Maria pregasse tan- to per l’opera evangelica del cristiano Albert. “Protestante”, per Madre Maria, non significava niente. Collaborava dal suo eremo con un uomo giusto, questo era il principio. Schweitzer le scrisse molto spesso. Scriveva per ore dopo aver compiuto settantadue anni. Fu allora che smise di operare.

Riuniva gli appunti forando tanti fogli e legandoli con corde ricavate dalla fibra dell’ananasso. Il suo casco e il bastone sono ancora appesi. Le poche cose per la toeletta restano su tre scaffali. Dalla finestra si vedono quattro croci: quella recente del dottore, quella della moglie Hélène morta a settantanove anni nel giugno del 1957, quella di un pastore che visse a Lambaréné, e l’ultima di un fedele servitore. Dietro, ci sono piccole palme. Sono le palme di ogni Natale. Il dottore ne faceva svellere una per sole ventiquattr’ore. Veniva portata nella salle à manger e adornata di candeline. Poi, per Santo Stefano, era rimessa a dimora. Sulla croce di Schweitzer si disegnano le ombre delle palme di Natale.

Rivediamo Munz nel pomeriggio. Abbiamo un dono per lui: un microscopio Zeiss che il mio giornale gli invia per il Natale. Ne è felice come un ragazzo. Lo appresta subito, prova l’ottica. Deve dargli la certezza che la popolarità di Lambaréné non si spegnerà senza il grande nome di Schweitzer e ciò lo rallegra. Visitiamo insieme le corsie degli ammalati. Tutto è africano nell’architettura e nelle abitudini. Ma ogni cosa, anche quando è povera, appare linda. I neri vengono a curarsi solo se possono continuare a vivere come nei loro villaggi. Ce ne sono cinquecento ricoverati, e cinquecento all’ambulatorio ogni mattino. Portano moglie, figli e talvolta i vecchi. La notte, i congiunti possono dormire sul pavimento accanto al letto di legno dei loro malati. È una terapia morale, che Schweitzer comprese e che molti medici illustri venuti a Lambaréné hanno condiviso. Sull’altra sponda del fiume c’è un ospedale del governo. Dispone di centocinquanta letti, corsie severe, finestre coi vetri, architettura europea. I neri ci vanno malvolentieri quando non trovano posto a Lambaréné. E il francese dottor Audoynaud, l’unico medico bianco dell’ospedale governativo, spedisce a Lambaréné i suoi casi più difficili perché i sei dottori di- scepoli di Schweitzer dispongono di esperienze molto più valide. Il Gabon ha soltanto due medici indigeni.

A Lambaréné i malati arriva- no dal fiume, dalla foresta e anche dall’aeroporto con i voli della compagnia aerea gabonese. Vengono per cacciare lo Nsong. Chiamano così il male. C’è anche un reparto per ammalati bianchi. Qualcuno giunge da cinquecento chilometri di distanza. Per un’operazione e la degenza, i neri offrono qualcosa: spesso non più di duemila lire. La moglie del vicepresidente della Repubblica non è andata all’ospedale di Libreville, la capitale, ma si è fatta operare da Munz, che i bantu chiamano Mouche.

Trascorriamo la sera di piog- gia nella stanza di Mouche. Modesta come quella del suo mae- stro, è ornata con stampe di Gauguin e lunghi fiori di papiro; la illumina la lampada collegata con un accumulatore. Munz, per ora, riserva l’energia elettrica alle instal- lazioni. Poi, quando potrà aumentare i gruppi elettrogeni, darà la luce a tutti. Lui sarà l’ultimo. Gli offriamo cognac francese, portato dall’Europa. Si mette comodo sulla poltrona di vimini. Non fuma. Sul tavolino c’è un volume di Schweitzer, Cultura ed etica, in tedesco. La pioggia fa il tam-tam sulla lamiera del tetto. Il buio è profondo.

A tavola Munz ha letto il Vangelo di Matteo al capo 13, il passo del lievito dedicato al popolo cristiano. Si susseguono domande e risposte. Sul letto c’è un’immagine di Lutero.

«Dottore: Schweitzer era un santo?».

Sorride. È un bel ragazzo. «Seguiva Cristo integralmente. Era un uomo universale, tanto caro e aperto verso ogni creatura che si avvicinasse al suo cerchio di vita».

«Può dirmi qualche suo pro- ponimento per il futuro?». Li enu- mera: «Voglio educare questi africani alla responsabilità; mettere l’accento sulla medicina preventiva e le vaccinazioni sistematiche; installare acqua corrente e canalizzare. E, sopra ogni altro punto, voglio mantenere lo spirito che fu di Schweitzer: la devozione verso ogni uomo che cerchi aiuto a Lambaréné». Carezza il microscopio che gli abbiamo portato. Poi dice: «Lo chiameremo Zir Mintang, che in lingua fang, una delle principali di qui insieme al galoa, significa l’occhio dei bianchi». Va al giradischi a pile e mette un Adagio di Bach. È Schweitzer che suona, co- me suonava ogni sera cinquanta metri lontano da qui. Munz è assorto.

«Dottor Munz, cosa l’ha richiamato a Lambaréné? Ci rattrista domandarlo, ma in Europa qualche giornale ha scritto che lei è qui perché innamorato, senza speranze, della principessa Gabriella di Savoia». L’abbiamo detto con imbarazzo. Ma Munz ne ride di cuore: «Mai conosciuta» dice con allegria. «Sono stato a Ginevra solo una volta, da ragazzo, e in bici- cletta. Hanno scritto che sono un ex playboy. Ebbene sono stato un playboy ciclista». Poi, con occhi trasparenti e un accento di mali- zia: «Ma almeno è bella, questa principessa?».

Munz vuole sposarsi presto, avere una moglie che accetti di seguirlo a Lambaréné, dove il suo impegno di “Primo dopo il dottor Schweitzer” lo mobiliterà per l’intera vita. Ha un fuoribordo Le Vagabond, che pilota la domenica sull’Ogowé. Tiene un diario. Suona il flauto, che ha dentro una custodia nera tra i libri. E naturalmente suona Bach. Ogni sabato sera c’è concerto in refettorio. Noi abbiamo dormito nella stanza accanto alla sua. Alle sette del mattino suonava già, sul giradischi, un concerto per flauto e orchestra di Mozart. E lo accompagnava cantando. Canta bene. A tavola, la sera, quando si intona un cantico lute- rano, lui fa il basso. La domenica predica il culto, secondo la spe- ciale liturgia voluta da Schweitzer. Va nel fitto della foresta, verso il villaggio dei lebbrosi, dove le palme da olio, alte cinquanta metri, hanno formato «la cattedrale gotica della natura». Non c’è chiesa a Lambaréné.

Il grand docteur diceva: «Predico dove predicava Cristo: al- l’aperto».

«Qualche volta la prende la nostalgia, dottore?».

Risponde: «È naturale. Allora vado da un vicino e chiedo: avete una buona birra fresca?».

Si vedono lumi alla vetrata. Infermieri neri con un ombrello da donna e le lanterne che oscillano, vengono a chiamare Munz. Un operato sta male. Esce con un sorriso. Restano il disco di Schweitzer all’organo e il tam-tam della pioggia sul tetto. Posdomani è Natale.           

1965. Il chirurgo Walter Munz, primo successore di Schweitzer, riceve un microscopio senza eguali a Lambaréné. L’ha appena portato in volo il giornalista Giorgio Torelli come dono natalizio del suo settimanale a grande diffusione.

1965. The surgeon Walter Munz, Schweitzer’s first successor, receives a microscope which has no match in Lambaréné. The journalist Giorgio Torelli has just brought it by plane as a Christmas gift from his high circulation weekly magazine.

Dopo anni di tenace servizio africano, il dottor Walter Munz si è sposato e ha ripreso il suo impegno medico in Svizzera, rimanendo fedele animatore europeo dell’opera di Schweitzer. Oggi come oggi – anno 2005 – il vecchio ospedale è considerato monumento nazionale. E il nuovo complesso ospedaliero, voluto dal governo del libero Gabon tra il 1976 e il 1981, ha inglobato – come in un abbraccio – «la zone historique, l’an- cien hopital du docteur Schweitzer construit en 1927, sa maison, la ci- metière et les maisons au bord du fleuve». La proprietà della Fondazio- ne Schweitzer comprende 180 ettari e duemila abitanti. Tutto spicca al sommo di una verdissima collina, «sur la rive droite de l’Ogowé». Il fiume è largo 800 metri e, all’altezza dell’ospedale, si divide in due assi per far luogo all’isola di Lambaréné. È bene dire anche questo: in una delle lingue indigene parlate nel Gabon, lambarene (minuscolo e senza accenti) vuol dire: «Proviamo». Il Grand Docteur ci provò da par suo.

Certe sere, discutendo di lui con Montanelli (che l’aveva intervistato per il Corriere), Indro affermava: «Il Vecchio s’era fatto un impero perso­ nale. Agiva bene, ma secondo i dettami del dovere. Solo del dovere». E io a ribattere: «Agiva secondo i dettami dell’amore, solo dell’amore, senza il quale anche le risoluzioni del dovere sarebbero naufragate». Aggiungevo per provocazione: «Certo. Gente come Schweitzer disturba, insidia. Turba. Tormenta. Pungola. Insomma: se ne avverte il fastidio. Bisogna ad ogni costo difendersene». E Indro: «Ah, questo non l’accetto! Questo lo respin­ go!». E si andava avanti così, sino alla soglia di una bettola toscana di stretta osservanza. Erano le notti milanesi degli anni Settanta.

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