"Questa è un’economia genocida".
Intervista con Vandana Shiva by www.socialpress.it


Social Press ha incontrato Vandana Shiva, fondatrice dell’istituto indipendente Research Foundation for Science, Tecnology and Ecology di Nuova Delhi, a Milano per il convegno "Le nuove recinzioni della vita: brevetti, monopoli, multinazionali. Le alternative alla privatizzazione del mondo", svoltosi l’8 novembre scorso alla Camera del Lavoro. E ne ha approfittato per farle un’intervista collettiva, in un quarto d’ora d’intervallo tra le due sessioni di lavoro, in uno stretto e affollato corridoio. Insomma, un’intervista molto "a caldo".


Rispetto al percorso di Kyoto, quale risonanza hanno in India le conferenze delle parti ? Le proposte che ne sono uscite, secondo lei, sono conosciute dal pubblico e influiscono sulle scelte del governo?
Beh, l’India ha svolto un ruolo molto importante nei lavori che hanno portato alla Convenzione sui Cambiamenti Climatici [firmata, nel 1992, durante la Conferenza Mondiale sull’Ambiente di Rio de Janeiro ed entrata in vigore nel 1994]. E non è un caso: infatti, mentre l’inquinamento atmosferico è sempre stato al 90% responsabilità dei Paesi industrializzati, i suoi danni sono, per il 90%, a carico dei poveri del Sud del mondo, soprattutto contadini, che perdono i loro mezzi di sussistenza e spesso anche la vita. Qualche esempio? Quest’estate il caldo e la siccità hanno fatto 1.300 vittime e quattro anni fa, in Orissa, 30.000 persone sono morte per un uragano. Quindi, sono le popolazioni più deboli a subire le conseguenze peggiori. Noi Indiani in genere siamo molto consapevoli delle radici globali dei problemi, abbiamo sempre gettato il nostro sguardo anche sul resto del mondo. L’India ha avuto un ruolo leader nei negoziati per la Convenzione sulla Diversità biologica [firmata nel Vertice della Terra di Rio de Janeiro, nel 1992] e il Protocollo sulla Biosicurezza [negoziato ai sensi dell’articolo 19.3 di quella Convenzione]. Poi, ricordo d’aver scritto, all’inizio dei negoziati per la Convenzione sui Cambiamenti Climatici, una bozza di discorso per il nostro ministro dell’agricoltura da cui è stato tratto un protocollo [Protocollo di Kyoto] molto diluito: certo, non quello che desideravo, ma almeno qualcosa. Gli americani, invece, hanno tentato di risolvere il problema delle emissioni di CO2 con il sistema delle quote commerciabili [Emission Trading] e dell’accertamento delle compensazioni. Hanno anche presentato un documento in cui è scritto che "la vita di un americano equivale a quella di dieci Cinesi e di cinquanta abitanti del Bangladesh". Noi, allora, abbiamo replicato scrivendo: "Questa è un’economia genocida, e non è accettabile".

Qual è il livello attuale delle emissioni? Si stanno adottando delle misure per ridurre l’inquinamento nelle città indiane?
In India esiste un ente di controllo dell’inquinamento che si occupa di monitorarne il livello. Nei punti nevralgici delle metropoli si possono vedere grandi tabelloni digitali che ogni giorno indicano il livello delle varie sostanze inquinanti presenti nell’aria. E questo anche grazie alle lotte di importanti movimenti ambientalisti indiani. Come il Centre for Science and Environment, organizzazione ecologista che ha condotto una forte campagna contro l’inquinamento a Nuova Delhi [città di oltre 300mila abitanti, che col suo territorio, nel 2001, raggiungeva quasi i 14 milioni]. Ma c’è un problema fondamentale: molta gente, nel Sud del mondo, ritiene che l’eguaglianza tra Nord e Sud comporti lo stesso diritto a inquinare che ha il Nord. Secondo il mio punto di vista ecologico, invece, "eguaglianza" significa "senso di responsabilità" e quindi il dovere di non inquinare. Bisogna che il Nord si assuma questa responsabilità e non che il Sud cominci a imitarlo ospitando multinazionali pronte a vendere sempre più automobili e a installare sempre più centrali energetiche, come ha cercato di fare la Enron. L’India, in particolare, può svolgere un ruolo molto importante nella ricerca di modelli alternativi di sviluppo. Sia per il Nord che per il Sud del mondo. Un esempio di energia rinnovabile? Il biogas prodotto dal letame, fonte alternativa conosciuta da sempre e molto diffusa...

Quale giudizio dà sull’utilizzo dell’idrogeno?
Credo si tratti di una tecnologia praticabile e che sia stata l’economia del petrolio a impedirci di adottarla su larga scala. Comunque - ora parlo da indiana - visto che di idrogeno si discute soprattutto in riferimento ai trasporti, anche la nostra cultura della mobilità ci offre modelli abbastanza differenziati per non farci dipendere dall’auto, come voi occidentali, sperimentando sempre nuove tecnologie per farla "funzionare meglio". Piuttosto, dovremmo liberare tutti la nostra vita, cercando di capire quando l’automobile è davvero necessaria. Solo allora, forse, le poche auto rimaste dovranno essere convertite all’idrogeno, ma non dobbiamo partire dal presupposto che per esse si debba asfaltare e distruggere un intero Paese. In India, infatti, oggi la devastazione ecologica maggiore è prodotta dalla costruzione di grandi strade: stanno tagliando alberi millenari come i grandi banyan [ficus bengalensis], che hanno fatto ombra a tante generazioni di indiani, solo per consentire agli automobilisti di spostarsi più velocemente tra una città e l’altra. È un’aggressione criminale alla terra e alla gente.

Fin dove si è spinta, nel suo Paese, la privatizzazione delle risorse energetiche e dell’acqua?
Intanto, questo processo si fonda su due grandi miti: il primo è che vi siano società troppo povere per gestire in proprio i loro sistemi energetici; il secondo è che per avere la loro acqua o energia possano pagare più di quanto già fanno. Insomma, società economicamente impossibilitate a gestire le proprie risorse dovrebbero pagarle dieci volte di più. Allora, la privatizzazione si basa sulla menzogna, sulla contraddizione e sulla frode. Il progetto privato della Enron, per esempio, prevedeva la vendita forzata di energia all’Ente energetico del Maharashtra [stato di cui Mumbai è la capitale]: dopo che gli era stato impedito di produrre la propria energia, doveva acquistarla a sei volte tanto! Ma nessuno voleva comprarla a quel prezzo e così la Enron ha dovuto chiudere l’impianto. Ora fa causa a noi, chiedendoci un risarcimento di 1.200 miliardi di dollari per non averle creato un mercato. Sono "super avidi" e si aspettano che noi, poveri e dunque - secondo loro - non autosufficienti, soddisfiamo la loro "super avidità". Stessa cosa per l’acqua. La Suez, la più grande multinazionale in questo settore e uno dei cinque giganti che vogliono privatizzarla, sta cercando di creare un impianto nello stato di Delhi - ma abbiamo deciso che lo bloccheremo - per portare acqua del Gange fino alla capitale: 635 milioni di litri d’acqua gratuita, da rivendere all’Ente idrico statale. La prendono gratuitamente dall’Ente e gliela rivendono a dieci volte il prezzo pagato oggi da chi la consuma. Così, ci rimettono i contadini, il settore pubblico dei servizi e soprattutto i consumatori; solo la Suez ci guadagna, e senza dover investire nulla. Credo davvero che la privatizzazione di servizi essenziali, come l’acqua e l’energia, non sia necessaria, sia uno spreco, non sia sostenibile e non possa basarsi che sulla corruzione e la frode. Chissà che anche la Suez non cambi nome, come ha fatto la Vivendi. Queste multinazionali, ogni volta che vengono attaccate, cambiano nome. Multiformi come le dee indiane!

Ma voi le vostre risorse riuscite ancora a proteggerle...
Finora sì, perché abbiamo subìto un sistema coloniale basato sulla privatizzazione e, quando ce ne liberammo, portammo tutto sotto il controllo pubblico. Per noi, quindi, la privatizzazione non è una novità: ma ora, abbiamo di nuovo a che fare con questo processo che viviamo come una seconda colonizzazione. Per questo riusciamo ancora a contrastarlo energicamente. Nel caso della Suez, abbiamo lanciato campagne a fianco dei contadini, abbiamo presidiato la diga, da cui dovrebbe arrivare l’acqua, con i sindacati del settore idrico pubblico. E con la stessa forza stiamo difendendo, come beni di tutti, anche le risorse genetiche, la biodiversità, la conoscenza... Andando fino in fondo e con questa capacità di coordinamento, la febbre della privatizzazione - io la chiamo SAPS, Severe Acute Privatization Syndrome, un po’ come la SARS, Severe Acute Respiratory Syndrome - passerà e torneremo a gestire i sistemi pubblici per quello che sono. Appunto, pubblici.

A proposito di conoscenza come bene pubblico, quale ruolo può avere l’India riguardo all’open source e ai diritti digitali in genere?
Un ruolo simile a quello che ha nel settore farmaceutico, quando sostiene l’accesso ai medicinali generici come un diritto fondamentale. O in quello delle risorse genetiche, sostenendo il principio che l’accesso alle conoscenze tradizionali, ai nostri semi e alla biodiversità è un diritto fondamentale. Ma un piccolo rischio esiste, perché l’India, nel mercato informatico, è costretta a un ruolo satellite, in particolare nel campo dell’out-sourcing, guidato da quei centri di interesse che si accaparrano brevetti e diritti di proprietà. C’è il pericolo che il Paese, col suo formidabile serbatoio di forza lavoro in questo settore, non riesca a entrare nel grande movimento dell’open source ma, al contrario, venga risucchiato nella difesa del software di proprietà. Per questo, propongo che al prossimo Forum Sociale Mondiale si tenga un incontro come quello di oggi, rivolto agli informatici indiani, per coinvolgerli. Il movimento nel campo dei semi e dei medicinali, da noi, è molto forte, ma i nostri tecnici non sono ancora molto coinvolti nella difesa dei beni comuni elettronici.

Durante la conferenza, poco fa, ha accennato a ciò che ogni persona può fare per non collaborare con questo sistema economico, citando la non-cooperazione di Gandhi...
Abbiamo usato spesso questa pratica per difendere la nostra libertà. Quando qualcuno chiese a Gandhi come gli fosse venuta l’idea della non-cooperazione, come l’avesse "inventata", lui gli rispose: "Io non ho inventato niente: mi sono limitato a osservare come l’India sia rimasta democratica nel corso dei millenni". E l’India s’è mantenuta democratica proprio perché milioni di cittadini indiani dicevano: "No, io non coopero con l’ingiustizia". Questa libertà nessuno può togliertela: nessuno può dirti che non puoi opporti a qualcosa, se decidi di farlo.

venerdì 12 dicembre 2003.


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