C'e' Solo Una Via: La Nonviolenza
di Tiziano Terzani

Tratto da La Nonviolenza e’ in Cammino

(Da "Athenet on line. Notizie e approfondimenti dall'Universita' di Pisa", n. 6, maggio 2002 (sito: www.unipi.it) riprendiamo questo intervento di Tiziano Terzani li' pubblicate col titolo "Prima che sia troppo tardi. Riflessioni sulla guerra in corso"; dalla stessa fonte riprendiamo anche la seguente presentazione redazionale dell'autore: "Tiziano Terzani e' uno dei giornalisti italiani che gode di maggior prestigio a livello internazionale. Laureatosi in giurisprudenza a Pisa nel 1962, e' stato sino allo scorso anno corrispondente per l'Asia del settimanale tedesco 'Der Spiegel'. E' uno dei pochi giornalisti rimasti a Saigon dopo la rotta dell'esercito statunitense. Ha vissuto a Singapore, Hong Kong, Pechino, Tokio, Bangkok e New Delhi. Lo scorso marzo Terzani e' tornato a Pisa per presentare il suo ultimo libro: Lettere contro la guerra". )

Dopo trentacinque anni di giornalismo sono andato in pensione, ma la mia idea non era quella di smettere di lavorare, volevo fare un altro viaggio. Siccome tutta la vita avevo viaggiato... fuori, volevo fare un viaggio... dentro. Cosi', mi sono trasferito sull'Himalaya, in una capanna senza acqua, luce, telefono, senza umani per chilometri. Ci vogliono due ore di cammino attraverso una foresta di rododendri e due ore con una jeep per arrivare dove c'e' qualcuno che vende della frutta, del riso, dove c'e' un cyber-caffe' dal quale mando i messaggi a mia moglie, al mondo... E dinnanzi alle piu' grandi montagne del mondo, godevo del silenzio. Passavo ore seduto sull'erba sotto i deodar, gli alberi di Dio, dei cedri altissimi pieni di corvi con i quali ho fatto amicizia; vengono a mangiare con me al mattino lo yogurt che faccio con delle bacche. Ero pronto a passare cosi' il resto della mia vita, quando nel settembre scorso sono venuto in Italia per il mio sessantatreesimo compleanno - mia moglie sta a Firenze e ogni tanto, ogni due o tre mesi, ci incontriamo, lei viene a trovarmi, io vado a trovarla - cosi' mi sono ritrovato, come tutti voi, come tutto il mondo, davanti alle torri che cadevano. Un amico mi ha telefonato: "vai subito alla televisione", sono arrivato in tempo per vedere il secondo aereo che impattava.
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Forse perche' vivo in Asia da tanto tempo, forse perche' sono convinto che la vita e' una e che il piu' bel simbolo di questa unita' e armonia e' il simbolo dello yin e dello yang, del tao, in cui all'interno della luce c'e' una radice di tenebra, e all'interno della tenebra c'e' un punto di luce, ma in questo sgomento orribile ho visto il punto di luce e mi sono detto: "bah! Questa e' una buona occasione!". L'ho sentito forte: "questa e' una buona occasione!". Certo, una buona occasione perche' il mondo e' cambiato, le torri hanno cambiato il nostro mondo, l'hanno cambiato profondamente; e' il momento che cambiamo anche noi. Per la prima volta l'orrore del nostro rapporto col mondo era dinnanzi a tutti noi. L'atomica e' stata una grande e orribile svolta nella storia dell'umanita', tant'e' vero che tutti quelli che vi avevano partecipato e avevano un cuore hanno dovuto riflettere sulla moralita', sulla giustificazione di quella bomba... Una bomba sganciata su due citta', uccidendo trecentomila persone, tutte civili. Percio' non facciamoci raccontare che le torri sono qualcosa di nuovo, qualcosa di orribilmente nuovo. Le guerre ormai uccidono solo i civili, di soldati ne uccidono sempre di meno; questa guerra poi ne e' la dimostrazione. Ma la bomba atomica in verita' non l'abbiamo vissuta, abbiamo visto delle foto, l'abbiamo letta nei libri, ma era qualcosa di lontano. Erano giapponesi, erano cattivi, si erano comportati orribilmente nel corso della guerra; e il fatto che poi per trentacinque anni la guerra fredda avesse congelato la capacita' atomica delle due potenze, ci ha allontanato dall'orrore del nostro suicidio. L'11 settembre invece ce l'ha messo davanti, e abbiamo visto tutti, tutto il mondo ha visto l'orrore di questo crimine. Allora, come dicevo, ho pensato che l'11 settembre fosse una grande occasione per riflettere, per fermarsi, per stare in silenzio e chiedersi: "ma che ci facciamo su questa terra? Cosa vogliamo fare delle nostre vite?". Non scrivevo piu' da tempo, lavoravo a un'altra cosa. Tutto quel che avevo da dire sul giornalismo l'avevo detto nel libro In Asia. Col giornalismo percio' avevo chiuso, ma davanti alla tragedia ho sentito il dovere di dire le due o tre cose che in trent'anni mi pare di aver capito. E' cosi' che ho scritto la prima lettera per raccontare dei fondamentalisti che si preparano alla jihad, essendo uno dei pochi che aveva avuto modo di conoscerli per puro caso.
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Io non sono molto intelligente, ne' molto colto, ne' molto brillante, pero' sono fortunatissimo. La prima volta al fronte fischia una pallottola e colpisce quello accanto. Sono catturato dai kmer rossi, vengo messo al muro, riesco a ridere e non mi ammazzano. Incontro una donna a diciassette anni e ci vivo insieme fino a sessantatre e spero anche per il tempo che mi rimane. A volte la fortuna e' anche qualcosa a cui bisogna tirare dei calci, ma io ce ne ho sempre avuta molta. Poi ho un po' d'istinto. Nel 1996 sapevo che quell'uomo che aveva messo la bomba al Wtc era passato da un luogo che si chiamava l'universita' della jihad, che poi era un campo di addestramento. Ci sono andato e per due giorni sono rimasto in mezzo a quella gente sentendomi un appestato, perche' ero un occidentale, portatore di questa cultura depravata, ma ho imparato tante cose. Da giornalista ho sempre sentito che se volevo capire i conflitti non potevo stare da una parte sola, dovevo anche capire gli altri. Nel '73 in Vietnam passai il fronte per andare a trovare i vietcong. Quando andavo in pattuglia con gli americani, ci sparavano addosso e anche per me quelli diventavano il nemico, ma questa identificazione con un fronte mi pesava. Me ne rendo conto solo ora, ma mi sono sempre interessato, magari istintivamente, all'altro: chi e', cosa pensa, cosa fa, perche'? E cosi', come ho passato le linee con i vietcong, nel '96 ho passato le linee del terrorismo e ho scritto le mie riflessioni in una lettera che ho mandato al "Corriere della Sera". Lasciatemi subito dire che io non ho uno stipendio dal "Corriere", ma sono grato al "Corriere" e al suo direttore, Ferruccio De Bortoli, per aver pubblicato, con coraggio, devo dire, tutto quello che gli ho mandato. Perche' la mia voce era stonata in quei giorni; era come tirare un sasso contro un castello di vetro, fatto di ipocrisie, di banalita', di reazioni automatiche, di politici e commentatori che senza fantasia ricorrevano a quello che si sa dire, al tornaconto del momento, al dire "spalla a spalla con gli americani". Allora, ho scritto questa lettera che si concludeva con un appello al cuore, per il quale sono stato preso per i fondelli da tutti: "Terzani gli e' rincoglionito, gli e' diventato induista, gli e' diventato buddista", un "sognatore dell'Oriente". Perche' avevo detto che la violenza genera solo violenza, l'odio genera solo odio, l'odio si combatte solo con l'amore. "L'amore? Oh, gli e' proprio grullo quello li'!". Sapete, gli indiani si salutano cosi', dicendosi namaskar, che vuol dire: "saluto la divinita' che e' in te". Se noi procediamo per la strada di definire il nemico, come ha fatto Rumsfeld, "a wonder animal", non riusciremo mai ad evitare il confronto di civilta' e con questo la fine di ogni civilta'.
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Noi dobbiamo aprire un dialogo di civilta', non dobbiamo disumanizzare il nemico, ma capirne le ragioni per evitare che lui faccia quell'atto, il piu' innaturale della vita, che e' quello di uccidersi uccidendo. Secondo me il terrorismo non si combatte uccidendo i terroristi, anzi in una forma perversa noi creiamo terroristi con quello che stiamo facendo. Il terrorismo si combatte eliminando le ragioni che fanno di un uomo un terrorista; perche' quelli sono uomini come noi, sono nati, son cresciuti, hanno amato, alcuni hanno famiglia, bambini. Guardate le storie di questi giorni della Palestina, storie di ragazzi che si suicidano. Sono nati per
vivere, l'uomo nasce per vivere, non per suicidarsi. E allora, cos'e' che porta un uomo a fare quest'atto cosi' innaturale? Capiamolo, e potremo eliminare il terrorismo rimuovendone le cause. Questa era la mia posizione il 14 settembre 2001. Apriti cielo... parte la Fallaci con il suo urlo di rabbia meschina, secondo me, di orgoglio mal riposto, che era poi un grido di vendetta. Intendiamoci, sul piano personale io rispetto la Fallaci: e' una signora anziana; ha avuto una vita molto movimentata, e' una persona che vive sola, in una scatola di una scatola, di una scatola in quella scatola che e' New York. Non risponde al telefono, si sente perseguitata. E' una persona che affronta a suo modo la vecchiaia e la morte, quella cosa che ognuno di noi ha diritto di affrontare a suo modo. E questo lo rispetto, anzi ho compassione. Pero' mi pare che affrontarla con le passioni piu' basse, violente e meschine, non giovi ne' a lei - e le ho augurato pace dentro, cosi' che la trovi anche fuori - ne' agli altri. Quando poi ho saputo che la sua lettera veniva letta nelle scuole mi sono proprio preoccupato, ne ho sentito il pericolo e ho voluto levare la mia voce per la pace, la comprensione, la nonviolenza. Cosi' ho scritto una lettera aperta che il "Corriere", molto generosamente, ha pubblicato.
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A questo punto avevo tirato due sassi. Non potevo tornare in cima all'Himalaya a guardarmi l'ombelico. Ho ripreso il mio sacco, ci ho messo dentro il computer, con i miei soldi, senza l'accreditamento di nessuno, con una carta da giornalista falsa, si' avete capito bene, falsa. Questo fatto lo trovo divertentissimo. Tutta la vita... "sono Terzani di 'Der Spiegel'"; e improvvisamente sono... un pensionato. Adesso quando arrivo in aeroporto sulla scheda, sapete, alla voce "professione", scrivo "pensionato", mi piace, e' bellissimo... pero' quando vai a un ministero degli esteri, anche da quei tagliagole che ora gestiscono Kabul, vogliono sapere chi sei, e non potevo presentarmi cosi' "un pensionato? Mbe'?". E allora mi sono fatto fare una carta da giornalista a Bangkok. Chi di voi ha conosciuto Bangkok sa che c'e' una strada, Kaosang road, dove per 250 pat, per cinque dollari, ti fanno una carta di Presidente della Repubblica, di chirurgo, di quello che vuoi. Io me ne sono fatta fare una da giornalista e mi sono rimesso in viaggio. Ho passato due mesi in Pakistan, lungo la frontiera afghana, evitando gli altri giornalisti, perche' c'e' un inseminamento di bugie spaventoso. Ad Islamabad c'e' un solo grande albergo a cinque stelle, elegantissimo, pieno di giornalisti, quelli che appaiono in mezzo busto. Stanno tutti su una terrazza con una bella vista sulle montagne, e ci sono tante gabbiette, Bbc, Cnn, Rai1, Tv2, Cbs. Insomma, sono tutti li', tutti hanno la loro gabbietta e la cosa bellissima e' questa: stanno in questo albergo tutti assieme e basta che qualcuno metta in giro una voce, che dia un'imbeccata in maniera opportuna, che subito viene rilanciata da tutti i media del mondo. Il Pentagono lo sa perfettamente e ne approfitta. The Office of Strategic Influence, si chiama l'ufficio racconta-bugie. In questi giorni ci hanno detto di averlo chiuso, ma raccontano tante di quelle bugie... E certo c'erano decine di funzionari dell'ufficio in quell'albergo. La mattina incontravano un giornalista spagnolo a colazione e gli dicevano: "ma hai sentito? I talebani... ne hanno ammazzate oltre quarantamila di quelle donne... e il burqa... Madonna! Pare - per dirne una - che i talebani incatenino le donne sotto il burqa...". Allora il giornalista spagnolo incontrava un collega: "oh, ma hai sentito?" e quello, che nel frattempo era stato avvicinato da un altro funzionario dell'ufficio: "che incatenano le donne?" "Si'... ma allora e' vero!". Dopo cinque minuti erano tutti lassu' sul tetto: "i talebani hanno messo anche le catene ora...". Allora, per evitare di essere inseminato me ne stavo in certe pensioncine vicino all'universita' e come al solito ho avuto una fortuna cane. Ho
trovato due giovani che parlano il pashtun, una delle due grandi lingue dell'Afghanistan. Erano studenti di medicina e adoravano parlare inglese, l'unica lingua con cui ci si poteva intendere, perche' con tutte le lingue che parlo non parlo quelle dell'Afghanistan. Me li sono presi tutti e due come guide e interpreti, ho vissuto con loro, ho viaggiato con loro. Con loro sono andato a vedere i jihadi, quei giovani che partivano con le organizzazioni fondamentaliste, con il loro kalashnikov. Ce n'era uno senza scarpe, gli ho detto: "ma come? vai in guerra scalzo?" "eeeeh" mi ha detto "appeno arrivo taglio i piedi a un americano e gli piglio le scarpe". Interessante. E' cosi' che loro vedevano la loro jihad... interessante. Un mese dopo sono tornato a vedere cosa ne era di un gruppo che avevo visto partire, entusiasta di combattere. Di quarantatre, ne erano tornati appena tre. Quaranta fatti a pezzi dai B-52. Ho parlato con uno di questi: "e ora?" gli ho chiesto; "Io sono gazi" mi ha risposto, come dire: sono un veterano, per cui godo di grande prestigio nel villaggio "e sono agli ordini della mia organizzazione", un'organizzazione fondamentalista che ora Musharaff ha messo all'indice. "Agli ordini dell'organizzazione? Ma se l'organizzazione ti ordina di andare a mettere una bomba a New York?" "ah! Ci vado subito", mi ha detto.
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Ecco il terrorismo. Il terrorismo nasce dall'asimmetria con cui tutto si sta svolgendo nel mondo. Se tu vedi i tuoi quaranta colleghi fatti a pezzi dalle bombe sganciate da quindici chilometri di distanza da un irraggiungibile pilota, che beve la coca cola e schiaccia dei bottoni, come puoi, in quella logica perversa della violenza, che io prego, chiedo, imploro di evitare, come puoi vendicarti? Perche' parliamoci chiaro: tutta questa vicenda e' all'insegna della vendetta. Anche l'operazione americana, la nostra operazione, ha un fondo di vendetta, e' evidente. Avete visto la fotografia del talebano a Guantanamo Bay in ginocchio ai piedi del marine? Era incatenato, tutto rasato, aveva una maschera, gli orecchi tappati. E quella foto non l'ha rubata un paparazzo per mostrare gli orrori della guerra, l'ha consegnata il Pentagono alla stampa. Perche'? Dopo si sono accorti di aver sbagliato, ma il Pentagono l'ha consegnata perche' l'opinione pubblica americana aveva bisogno di vedere che finalmente si erano vendicati e che avevano messo in ginocchio il terrorista. Il problema e' che quella stessa foto nel resto del mondo ha fatto un'altra impressione, e ora l'America paga per questo: deve rifare i suoi conti, deve riconquistare la simpatia del mondo, deve chiudere l'ufficio delle bugie, perche' quella foto probabilmente era vera, ma veniva dall'ufficio delle bugie. Insomma e' la vendetta, e non cercano nemmeno di nasconderlo. E gli altri? Come si possono vendicare gli altri? Come si puo' vendicare uno che non riesce a vedere il suo nemico, perche' gli vola sulla testa a chilometri di altezza? L'unica vendetta possibile e' il terrorismo. Per questo bisogna evitare il circolo vizioso della violenza se vogliamo evitare il suicidio dell'umanita', perche' ormai le armi di distruzione di massa sono tali che non c'e' scelta. La guerra e' in corso. In questo momento i B52 sorvolano l'Afghanistan pronti a bombardare qualcuno, forse Al Qaeda, forse no. In questo momento da qualche parte un giovane di quelli di cui dicevo sta preparando una bomba, che puo' mettere a Londra, a Mogadiscio, a New York... chissa' dove? La guerra e' in corso, e non illudiamoci: non possiamo continuare a vivere come se non fosse successo niente.
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E allora ripeto: l'unico modo e' capire, l'unico modo e' fermarsi, in silenzio, riflettere e trovare un modo per dialogare. C'e' solo una via: la nonviolenza. Non c'e' stata mai una guerra che abbia messo fine a tutte le guerre.


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