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02 agosto 2010

Afghanistan, la guerra delle donne Zarmina sogna giustizia
di Cristiana Cella

Zarmina è ancora bella, una bellezza resistente, come le montagne, solenne. Vestita di raso bianco. La protesi della sua gamba destra è appoggiata al bracciolo, accanto a lei. I suoi ricordi sereni confinati lontano. Un buon marito, cinque figli e una casa grande, vivono tutti insieme con i genitori e i fratelli, ad Afshar, il quartiere hazara di Kabul. Con le vicine, hazara, pashtun, tagike, sono sorelle. 

Arrivano notizie tristi, la guerra dei russi devasta il Paese, ma Kabul rimane fuori dai combattimenti. Il marito lavora sodo e non le manca niente. È il 1993 quando la sua vita va in pezzi. L’inferno è cominciato un anno prima, quando i mujaheddin, vittoriosi sui russi, carichi di armi, hanno iniziato a spararsi tra loro per la conquista del potere. I quartieri della città sono come Stati nemici in guerra. Le linee dei fronti si spostano. Difficile orizzontarsi. La ferocia e la follia incomprensibile di pochi sono padrone della città. L’odio etnico è la legge. Uscire per lavorare, per procurarsi acqua e cibo è un rischio mortale. È il padre a farsene carico. Tocca a lui, dice, ha già vissuto molto. Ma, un giorno, non rientra dalla missione, sparisce. Impossibile andarlo a cercare. I razzi piovono ovunque, senza sosta. Hekmatyar, uno dei più potenti jihadi, ne spara 1000 in un solo giorno. Il respiro è corto, strappato, dove cadrà il prossimo? Il sollievo, breve, solo lo stupore di essere vivi. La città brucia e esplode. L’abitudine al terrore cambia i volti, le voci. L’imperativo, sopravvivere. Nient’altro. La famiglia è asserragliata dietro le finestre chiuse, quando tocca a loro. 

Il razzo colpisce in pieno la casa di Zarmina. Le porta via una gamba e metà della famiglia, la madre, il marito, il figlio di due anni, sepolto dal crollo di un muro. Non si può uscire, morti e feriti restano lì. Ma Zarmina è grave. Il fratello decide di portarla all’ospedale, non ce la fa ad aspettare che muoia senza fare niente. Viaggiano per ore nella pioggia di fuoco. Al Wasir Khan Hospital, i medici rimasti sono pochissimi e non hanno niente. Anche l’ospedale è stato colpito. Le medicine mancano. Sopravvive chissà come, per due mesi, senza cure. Intervengono le associazioni umanitarie tedesche e i feriti più gravi sono trasferiti in Germania. Zarmina ci rimane sette mesi, recupera la salute, una protesi per la sua gamba e viene rimandata a casa. Quel che resta della famiglia si è trasferita dalla sorella sposata. La casa è ancora in piedi e soprattutto, ha una cantina, la salvezza. I figli ci sono ancora. Ma il sollievo dura poco. Zarmina capisce subito che non è cambiato niente a Kabul. Quel suono spaventoso che non le uscirà mai dalla testa, è sempre uguale. Alla prima esplosione scappano in cantina. Uno attaccato all’altro, dividendosi il poco cibo. In silenzio. Nessuno ha più voglia di parlare. Anche i bambini piangono senza suono. Per tre giorni non escono dal rifugio, dal buio, come topi spaventati. 

Gli spari si diradano, si sentono di nuovo le voci, le grida, i lamenti e i comandi delle truppe che scappano. Poi niente. Escono piano, uno a uno, si scambiano sguardi, col fiato sospeso. Si fanno coraggio, aprono la finestra. L’odore portato dal vento, anche quello non se ne va. Anche a quello ci si abitua. Si preparano il tè, mangiano perfino qualcosa. Ma del silenzio non ci si può fidare. Qualcosa ci si muove dentro. Le voci, gli ordini sono violenti come gli spari, i passi concitati, tanti. Chi sono adesso? Di che gruppo, di che etnia? Non hanno il tempo di chiederselo. La porta è abbattuta con un calcio. I fucili entrano per primi. Sono le truppe di Sayyaf (oggi Deputato al Parlamento), uno dei comandanti più feroci. Pashtun. Hanno conquistato il quartiere. Hazara. Due fratelli e il cognato sono portati fuori, in fila, insieme agli altri uomini. Una sola domanda: siete sciti? Lo sono, sì. Partono i colpi, regolari. Li uccidono tutti, in fretta, non hanno tempo. Non c’è tempo nemmeno per il dolore, ci sono i bambini. Zarmina cerca di spingere i figli in cantina. La fermano e si prendono anche loro, hanno sette e dieci anni. Zarmina urla, quelli puntano il fucile. Ahmed entra di corsa, è un vicino, di razza pashtun, per fortuna. Grida agli uomini armati di lasciarli stare, Allah non vuole che si uccidano i bambini. Ahmed e Allah li salvano. Fuori il fratello è ancora vivo, chiama, chiede aiuto. Zarmina cerca di raggiungerlo, la spingono in casa con i fucili. Non sa cosa fare, sono rimaste sole, lei e la sorella. Zarmina ha due figlie adolescenti, ha paura. Sa che quegli uomini là fuori rapiscono le ragazzine. È peggio della morte. Non c’è tempo, devono decidere in fretta, prima che tornino. C’è un’altra porta nella casa, la sorella è già lì e le fa segno. Scappano, lasciano tutto, la casa, tutto quello che hanno e i loro morti. Il vicolo è stretto, coperto. Nessuno le vede. Raggiungono la moschea e si rifugiano lì. C’è tanta gente, qualcuno si lamenta, prega, nessuno parla. Zarmina non smette di guardare i suoi figli, come se li potesse proteggere con lo sguardo. Quando un uomo sconosciuto le rivolge la parola, Zarmina urla. Ma l’uomo ha la voce dolce, è gentile, non lo dimenticherà mai. Le accoglie nella sua casa, in una zona più sicura. Dà rifugio e cibo a tutti. Rimangono lì per qualche settimana. Zarmina lo sta ancora cercando per poterlo ringraziare. Ma non lo ha mai trovato. 

Ritrovano il padre invece. Era prigioniero di Sayyaf ma è riuscito a scappare. È stato torturato e drogato. Vanno a vivere con lui ma la sua mente è altrove. Ogni giorno le manda via di casa, non c’è da mangiare, dice. E su questo ha ragione, sorride Zarmina, per la prima volta. Ma si arrangiano. Durante il periodo dei talebani sono i ragazzini a mantenere la famiglia, hanno 13 e 10 anni. E continuano a farlo anche adesso. Ogni tanto lavorano, non sempre. Sono bravi figli. Non è mai tornata ad Afshar, non può. È ancora distrutto, come allora, vai a vedere, mi dice. Abita altrove adesso. Non è una buona vita la sua. Ieri, al mercato, mentre comprava lady fingers, una verdura che costa poco, è svenuta. Le succede spesso, ultimamente. Se pensa al passato, però, adesso sta bene. Si accontenta. 

Ma dimenticare no, non ce la fa. Non vuole niente, solo un po’ di giustizia. Soltanto che gli uomini che hanno distrutto la sua vita e quella di migliaia di abitanti di Kabul, non debbano decidere le sorti del suo Paese e il destino delle donne. Sono tutte d’accordo. Sono venute da lontano per raccontare la loro storia. I volti e le etnie sono diversi ma i racconti orribilmente simili, quasi speculari. Rahima è pashtun e sono state le truppe hazara di Karim Khalili (oggi vicepresidente dell’Afghanistan) a portarsi via la vita dei suoi figli. Nessuna differenza, solo i tratti somatici dei macellai. Le donne devono andare, adesso. Ci abbracciano strette come fossimo di famiglia. Tra poco sarà buio e le vie della città sono pericolose per le donne sole. Ancora.


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