"Siamo Indigene, Siamo Povere e Siamo Donne. Dobbiamo Lottare Tre Volte. Scegliendo la Nonviolenza, che é Femminile"
di Giulia Allegrini

[Da "Azione nonviolenta" di gennaio-febbraio 2005 (per contatti: e-mail:azionenonviolenta@sis.it, sito: www.nonviolenti.org). Giulia Allegrini e' impegnata in esperienze di pace, per i diritti, per la nonviolenza]


Diviene sempre piu' urgente la necessita' di dare voce ad un punto di vista specifico delle donne, rispetto alla nonviolenza. Nelle interviste che seguono si sono affrontati diversi aspetti e problematiche relative ai diritti dei popoli indigeni. Quello che e' emerso e' che la lotta da loro portata avanti e' una lotta che deve saper rispondere allo stesso tempo a tante questioni. Si devono infatti confrontare non solo con l'affermazione di diritti civili, politici ed economici, ma devono anche saper conservare la loro identita', contro tentativi di assimilazione, integrazione o ghettizzazione, per non perdere la loro cultura, le loro tradizioni, per conservare intatta anche la loro memoria storica. Devono lottare contro grandi multinazionali oltre che contro i loro stessi stati, e a volte, come per le donne, devono riuscire a confrontarsi con le loro stesse comunita' di appartenenza. La comunita' internazionale non ha ancora dato vita ad un sistema di tutela e garanzia efficace dei diritti dei popoli indigeni. Inoltre, si deve constatare che e' spesso assente nel dibatto accademico, all'interno delle associazioni e dei movimenti in generale, un approccio alla nonviolenza che sia piu' attento alle esperienze, vissuti, punti di vista delle donne rispetto alla violenza, in tutte le sue forme e dimensioni, sia essa culturale, fisica e strutturale, e quindi anche alle specifiche pratiche di nonviolenza portate avanti. Ma quello che queste interviste dicono e dimostrano e' che comunque e sempre e' nella quotidianita', e' nelle comunita' del mondo che sono lontane troppo spesso dai grandi centri di decisone e di gestione del potere, che soprattutto si possono produrre dei cambiamenti, delle trasformazioni.
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Kenya, Maasai:
intervista a Mary Simat, direttrice esecutiva di Maasai Women for Education and Economic Development (Maweed)
- Giulia Allegrini: Quali sono le attivita' e gli ambiti di intervento dell'associazione in cui e' attiva?
- Mary Simat: Sono una donna indigena del Kenya, un'attivista per i diritti umani dei Maasai. Vengo dal sud-ovest del Kenya, da Narok. Sono presidente del comitato di coordinamento dell'Aipac. L'associazione fa parte del Cbo, un organo di coordinamento di 14 gruppi di donne Maasai del distretto di Narok. Le donne Maasai partecipano alla designazione e implementazione delle attivita' dei progetti attraverso il nostro approccio partecipativo "Rural Appraisal", ossia un'indagine condotta nelle zone rurali che viene usata per raccogliere le questioni conflittuali che emergono come risultato della disuguaglianza di genere. Ma a causa della nostra cultura e' molto difficile riconciliare le divisioni di genere all'interno della comunita' Maasai. Il principale obiettivo dell'associazione e' quindi quello di lottare per i diritti delle donne maasai, in quanto le donne maasai sono le piu' oppresse dal punto di vista socio-economico e politico. Gli ambiti in cui lavora soprattutto l'associazione sono pertanto quelli della violenza contro le donne, che si manifesta in differenti modi anche in termini di esclusione delle donne alla successione della terra, la presa di coscienza delle donne dei loro diritti. La cultura maasai infatti vede le donne, soprattutto le giovani, come proprieta' o risorsa che genera guadagno, pertanto sono spesso escluse dall'educazione. Questo anche a causa della poverta' che fa si' che non tutti i figli possono andare a scuola, e tra loro, a causa della cultura tradizionale, quelli che a scuola ci vanno sono sempre maschi. Le figlie che riescono ad iniziare la scuola, non riescono a completarla, sempre a causa della cultura e delle pratiche tradizionali, quali il matrimonio concordato in giovane eta' o l'infibulazione e le mutilazioni genitali. La sensibilizzazione diviene quindi fondamentale: quando educhi una ragazza educhi tutta la comunita'.
- Giulia Allegrini: L'ultimo premio Nobel per la pace e' stato dato ad una donna africana del Kenya, che per la sua lotta e' stata piu' volte picchiata e imprigionata, questo fa riflettere come sia spesso molto piu' difficile per le donne lavorare nell'ambito dei diritti delle donne e della pace. Quali ostacoli ha incontrato la vostra associazione?
- Mary Simat: Per noi l'ostacolo non e' tanto la polizia, quanto la resistenza della comunita'. Gli uomini non vogliono che le donne possiedano terra, ricevano educazione. A volte non ci permettono di andare in alcuni villaggi. La comunita' maasai e' conosciuta per essere molto resistente. Ad esempio una volta mi si e' presentata una donna che per adulterio era stata picchiata fortemente, e non dal marito, ma dal fratello, mentre l'uomo non ricevette nessuna punizione, stava in piedi la' mentre lei veniva picchiata. Cosi' ho deciso nel 2001 di provare ad ottenere la posizione di Capo all'interno della comunita', per poter garantire maggior giustizia alle donne. Gli ostacoli derivano poi dal conflitto stesso. Le donne infatti si polarizzano a causa dell'impatto del conflitto ed esitano ad abbracciare la lotta per emancipare se stesse, in un contesto di violazioni gravi dei diritti umani e di poverta' endemica tra le donne maasai. Discriminazioni e violenza contro le donne, come parte del conflitto, conducono ad una mancanza di partecipazione pubblica delle donne indigene. La stessa struttura del governo, la costituzione, le leggi elettorali e le politiche governative causano una generale diminuzione del potere politico.
- Giulia Allegrini: Ha accennato prima alla difficolta' di accesso all'eredita' di terra per le donne. Questo credo sia un punto centrale su cui molte donne in Africa nel suo complesso si trovano a lottare.
- Mary Simat: Credo che in Africa le questioni riguardanti le donne siano piu' o meno simili. Le donne lavorano duramente nelle farms (fattorie), sono loro che si ritrovano a portare avanti il piu' duro lavoro. Le donne Maasai lavorano 18 ore al giorno. Sono nei campi dalle 4 del mattino. Nonostante questo non hanno alcun diritto ad ereditare la terra. Non ci sono leggi che lo prevedono e la pratiche culturali lo impediscono. Hanno il compito di mantenere una comunita' attraverso questo lavoro ma dipendono da altri per potere accedere, possedere terra. Nei casi poi di donne rimaste vedove con figli in assenza di leggi che garantiscono il diritto di accesso alla terra la situazione che si ritrovano a vivere e' spesso drammatica. Quindi e' proprio la cultura, che sta alla base di una societa', con le leggi che la regolano, che porta ad una doppia discriminazione delle donne, cioe' come indigene e come donne.
- Giulia Allegrini: Da tempo ormai attraverso numerose convenzioni e conferenze delle donne, penso soprattutto a quella di Nairobi del 1985, si e' definito cosa vuol dire pace per le donne. Cosa vuol dire pace e nonviolenza per le donne in Kenya?
- Mary Simat: Credo che ogni modo di fermare la violenza o usare la nonviolenza dipenda molto dal luogo da cui si proviene. Culture differenti determinano approcci differenti. Creare pace in una comunita' vuol dire riuscire a mettere tutti insieme, donne, bambini, anziani. Agire in modo nonviolento in una comunita' vuol dire capire la cultura e quindi vedere come approcciarsi a parlare agli anziani o alle donne. La pace in una comunita' e tutto cio' che ad essa e' legato, lo sviluppo, quindi l'educazione, sono tutte cose che devono venire dalla gente indigena, non da fuori. E' la gente che parla la stessa lingua della comunita', che capisce profondamente il suo funzionamento che deve intervenire. E' comunque un processo lento. Bisogna avere coscienza dei tempi necessari. Ci vuole pazienza. Per le donne poi la violenza ha varie forme, si manifeste in diversi tipi di ingiustizia e di discriminazione. Rispetto a questo comunque e' importante tenere conto dell'approccio che si usa in base alla diversita' culturale.
- Giulia Allegrini: Pensa che a livello internazionale il movimento delle donne ponga attenzione alla necessita' di legare differenti approcci?
- Mary Simat: I trattati internazionali che riguardano le donne sono fatti ad un alto livello istituzionale, non di base, "grassroot". Sappiamo che non significano nulla se non sappiamo come implementarli in concreto. Credo anche che le donne educate che lottano per i diritti non tengano tanto conto di quelle che non lo sono. Credo anche che le donne africane abbiano bisogno delle loro proprie convenzioni che tengano conto dei propri valori culturali. Bisogna si' trovare degli standard condivisi comuni a livello internazionale, ma bisogna anche fare attenzione al rispetto della diversita'.
- Giulia Allegrini: Questo divario tra alti livelli istituzionali e quello di base grass root, che fa si' che le convenzioni per le donne non abbiano anche una "appartenenza" locale, si riproduce per qualsiasi convenzione, soprattutto per gli accordi di pace... non crede?
- Mary Simat: Sono completamente d'accordo. Anche perche' i diplomatici che si vanno a sedere ad un tavolo e decidono che cosa e' la pace non sanno assolutamente poi come implementare concretamente l'accordo. Non sono per
nulla dentro il problema. I diplomatici esistono anche a livello grass root, nelle comunita' di tutto il mondo.
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Ecuador
Il movimento indigeno ecuadoriano: un esempio di resistenza e lotta politica nonviolenta per l'affermazione di diritti collettivi, dell'interculturalita', di uno stato multinazionale e per la preservazione della propria terra. L'Ecuador, come la maggior parte dei paesi latinoamericani, soffre le conseguenze del colonialismo. La poverta', la discriminazione, lo sfruttamento della popolazione indigena non sono scomparsi, sono sorretti da un "colonialismo interno" portato avanti da sistemi di stampo dittatoriale, segnati spesso da una forte corruzione. L'esproprio di terre da parte di multinazionali petrolifere e minerarie completa il quadro. Il presidente Gutierrez eletto nel 2002, dopo avere goduto dell'appoggio del movimento indigeno attraverso un'alleanza tra questo e l'attuale partito di governo, ha poi disconosciuto tale alleanza e ha iniziato una politica economica in sintonia con il Fondo monetario internazionale (Fmi), con Bush, ma soprattutto ha instaurato un regime ed ha iniziato una politica di repressione e di persecuzione nei confronti del movimento indigeno, attraverso minacce alle stazioni radio loro sostenitrici, la predisposizione di una "lista nera" che include leaders indigeni, l'assassinio di un membro di Protoecuador che aveva denunciato atti di corruzione, l'imprigionamento del presidente del Movimento Indigeno della regione della Sierra, l'attentato al presidente della Confederazione delle Nazioni Indigene dell'Ecuador. Tuttavia il movimento indigeno ecuadoriano rimane un esempio, un riferimento nell'intero continente per la sua forza e capacita' organizzativa nel portare avanti una lotta politica con mezzi nonviolenti e pacifici a difesa dei propri diritti, della propria cultura e della propria terra.

[come e' ovvio, questo articolo e l'intervista seguente risalendo alla fine del 2004 (ed essendo stati pubblicati alcuni mesi fa), sono stati realizzati prima dei recenti sviluppi della situazione in Ecuador - ndr -].
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Ecuador, Conaie: intervista a Ninfa Patino
- Giulia Allegrini: Potrebbe parlarmi un po' del suo lavoro in Ecuador, dell'associazione in cui e' attiva?
- Ninfa Patino: Sto lavorando nella Confedaracion de Nacionalidades Indigenas del Ecuador (Conaie), l'organizzazione piu' importante dell'Ecuador, creata nel 1986, con il fine di far rispettare i diritti indigeni, l'educazione interculturale, l'autonomia, il diritto alla terra e per fare ratificare la convenzione Oit (Organizzazione internazionale del lavoro, nota anche con l'acronimo inglese Ilo) sui diritti degli indigeni. Attualmente il movimento indigeno e' la terza forza politica piu' importante. Nel congresso ecuadoriano ci sono rappresentanti degli indigeni.
E' un momento decisivo nella storia politica dell'Ecuador. Si viene a conoscere il movimento indigeno nel 1990, con il primo "levantamento". Da quel momento si hanno prese di posizione e successi del movimento indigeno, tanto che e' riuscito a fare cadere due presidenti. Nell'anno 2000 il movimento fece cadere il presidente Bucaram prima e Mahuad poi, che con il suo governo porto' nel paese una forte crisi bancaria e cambio' la moneta dell'Ecuador in dollaro.
- Giulia Allegrini: In che momento della storia politica dell'Ecuador e' nato il Conaie?
- Ninfa Patino: Il Conaie nacque nel 1986 per far rispettare i diritti degli indigeni, perche' prima di quel momento i governi non tenevano in considerazione alcuna l'identita' degli indigeni. Nel 1996 il Conaie e' riconosciuto come la massima rappresentanza degli indigeni della costa, della terra e della foresta amazzonica. Nel 1998 si ratifica la convenzione 169 per il rispetto dei diritti indigeni, si riforma la Costituzione dello Stato e si riconosce l'esistenza del popolo di nazionalita' indigena. Si riconosce il territorio, soprattutto l'Amazzonia, le lingue. Quindi a partire da questa data si riconosce che ci sono 27 popoli e nazionalita': 13 nell'Amazzonia e nella zona delle coste e 14 nella terra. Questo e' importante perche' a partire da questa data cambia la denominazione. E' anche un momento importante perche' si riconoscono i diritti delle donne indigene, e nel contesto della rappresentanza le donne cercano di far parte di una rete internazionale continentale che si chiama "Enlace continental de las mujeres indigenas" e il coordinamento si concentra nell'Ecuador. Questo significa che il coordinamento delle donne indigene a livello sudamericano e' rappresentato dall'Ecuador. Io attualmente lavoro nella direzione della rete. Attraverso questa direzione si ottengono importanti risultati: c'e' piu' educazione e partecipazione politica delle donne.
- Giulia Allegrini: Quindi il movimento indigeno in Ecuador e' riuscito ad avere anche importanti risultati a livello istituzionale...
- Ninfa Patino: Esattamente. La cosa piu' importante e' che gli indigeni riescono ad avere una partecipazione non solo nel congresso, ma riescono anche a raggiungere istituzioni importanti per lo sviluppo dei popoli indigeni. Per esempio c'e' un'istituzione che si chiama Coreinte incaricata specificatamente per lo sviluppo dei popoli indigeni, c'e' l'istituzione per l'educazione bilingue interculturale, gestita da indigeni, un'altra e' la Direzione dell'educazione tradizionale, molto importante perche' solo cosi' si riconoscono e si rispettano le nostre visioni e la nostra medicina tradizionale, che devono essere gestite e portate avanti dagli indigeni. Quindi le istituzioni per lo sviluppo, l'educazione e la salute sono tre spazi che corrispondono ai risultati che il movimento indigeno ha ottenuto. Inoltre si e' riusciti a costituirsi come popoli di nazionalita' indigena e si e' anche riusciti a recuperare il territorio dei popoli dell'Amazzonia. Tutto questo e' cio' che si e' ottenuto in seguito alla creazione del Conaie, dal 1986, poi con la ratifica della covnenzione nel 1998 e nel 2000 con una partecipazione politica sempre piu' forte: piu' sindaci indigeni, piu' deputati, piu' partecipazione nelle istituzioni e organizzazioni internazionali. La partecipazione politica ha infatti avuto importanza non solo a livello nazionale, ma anche internazionale. Il movimento ecuadoriano e' considerato il piu' forte e organizzato politicamente a livello anche continentale. Dal 1996-'98 il movimento indigeno crea un movimento politico che si chiama Pchakuti, che significa nuovo popolo/nuovo potere. Questo ha significato poter partecipare politicamente alle elezioni e quindi avere accesso a spazi importanti nel congresso e nello stato, tanto che nelle elezioni del 2002-2003 si costitui' un'alleanza tra il partito che sta attualmente al governo che si chiama Sociedad Patriotica, con il partito pachakuti. L'alleanza vince alle elezioni e porta al governo l'attuale presidente. Il presidente pero' tradisce il movimento, si dichiara dittatore, il movimento pachakuti viene escluso dal governo e ora esso e il movimento indigeno si sono convertiti nella forza di opposizione piu' importante. Il governo ha iniziato una politica di repressione contro gli indigeni, sta disconoscendo le istituzioni di cui ho parlato prima, gestite dagli indigeni, quella per la salute, lo sviluppo e l'educazione, sostituendole
con sue autorita'. Ora si sta attraversando un momento critico per il movimento indigeno, dato che il presidente ha disconosciuto e non ha rispettato l'alleanza. Tuttavia da poco, dal 18 ottobre, ci sono state le elezioni, e il movimento ha ottenuto piu' sindaci e piu' cariche istituzionali che lo stesso partito di governo. In questo momento quindi il governo si trova debilitato, mentre il movimento indigeno si sta rafforzando.
- Giulia Allegrini: Ma dove trova il suo appoggio il presidente?
- Ninfa Patino: Non ce l'ha, in realta'. La cosa piu' importante e' che il movimento indigeno non e' solo una forza guidata da indigeni, ma trova consenso e appoggio nella societa' civile, nelle organizzazioni, le donne, gli intellettuali, tutta la societa' civile, tutti i partiti di sinistra stanno sostenendo il movimento indigeno.
- Giulia Allegrini: Qual e' quindi la forza del movimento indigeno?
- Ninfa Patino: Il movimento e' molto giovane quindi e' difficile dire che cosa accadra'. In questo momento poi si stanno verificando molti cambiamenti e ci sono anche divisioni interne, in quanto da un punto di vista politico e' cosi' che normalmente accade: Tra gli indigeni ci sono diverse tendenze politiche. C'e' un elemento importante da prendere in considerazione nell'Ecuador: il regionalismo. Tra indigeni della costa, della terra e dell'Amazzonia, c'e' una divisione regionale. Al di la' del fatto che sono tutti indigeni ci sono divisioni che si esprimono politicamente a livello regionale. Quindi ci sono tendenze politiche. Il momento attuale e' un momento di crescita, perche' in ogni regione si sta crescendo politicamente. Per dire qual e' la forza del movimento potrei dire come vedo io la forza di questo movimento e quale dovrebbe essere la sua forza per continuare, che e' poi il mio grande desiderio: che diventi e sia sempre piu' una forza capace di riconoscersi in un'identita' ma che allo stesso tempo rispetti le diversita'. C'e' uno slogan nell'Ecuador e nel continente che dice: "Unita' nella diversita'". Che sia una forza compatta a livello nazionale, ma che rispetti le specificita' che ci sono al suo interno. Che questa stessa forza non li divida, ma li rafforzi e li unifichi perche' solo cosi' si puo' condividere il potere e confrontarsi con l'establishment, che e' molto forte. Io credo che si siano ottenute molte cose, come gia' ho sottolineato. Una di queste e' anche il riconoscimento da parte delle forze di destra tradizionali. Queste non vedono il movimento indigeno come un piccolo ed insignificante movimento sociale ma come una forza politica. Non possono fare politiche che non tengano conto degli indigeni perche' non avrebbero alcun risultato. Si e' anche riusciti ad eliminare in parte il razzismo contro gli indigeni. Abbiamo anche avuto una donna indigena dentro il Ministero per gli Affari Esteri.
- Giulia Allegrini: Ha sottolineato spesso líimportanza della partecipazione politica delle donne indigene. Potrebbe definire il quadro discriminatorio in cui vivono?
- Ninfa Patino: Ci sono discriminazioni contro le donne in generale; contro quelle indigene c'e' una tripla discriminazione, in quanto donne, in quanto povere e in quanto indigene. Devono quindi lavorare tre volte di piu' per
poter ottenere equita' e uguaglianza. Pero' qualcosa si e' ottenuto, una certa partecipazione. C'e' pero' una forte resistenza culturale. L'educazione non ha raggiunto completamente le donne indigene, ossia la cultura indigena ecuadoriana delle donne e' orale e necessitano quindi di una formazione e di una capacitazione. E' un processo lento. Ci sono donne che stanno ricevendo educazione, ma quelle indigene sono sempre di meno. A livello locale, nelle comunita' c'e' pero' una grande partecipazione e accettazione del coinvolgimento delle donne, ma non nella societa' in generale. Ma la cosa piu' importante e' ottenere risultati a livello locale, che sia riconosciuta la donna, perche' e' sempre stato l'uomo indigeno quello cha ha dominato, colui cha ha tenuto le riunioni, che prende le decisioni. Pero' ora e' diverso, ora le donne partecipano. E' importante che le donne abbiano accesso a spazi di potere, per questo e' importante che si riconosca l'educazione interculturale, ossia si riconoscano tutte e tre le lingue che si parlano in Ecuador, cosi' che anche le donne abbiano accesso a questa educazione.
- Giulia Allegrini: Come si colloca il movimento indigeno all'interno dell'agire nonviolento?
- Ninfa Patino: Il movimento indigeno e' totalmente pacifista. Qual e' lo strumento del movimento? Il "levantamento" (la sollevazione, l'alzarsi in piedi). Cosi' si chiama, ed e' il simbolo dell'azione nonviolenta degli indigeni. Che cosa significa levantamento: l'occupazione delle strade, degli spazi, ma pacificamente. Significa camminare, andare per il "chakinan" (cammino). Lo strumento sacro e politico del movimento indigeno e' il levantamento. Quando si ha un levantamento vuol dire che tutti e tutte devono uscire per strada. E' il modo di esprimere la mobilitazione nonviolenta. Cio' significa che non e' un gruppo guerrillero, e' un movimento pacifico con un progetto politico, con presupposti e fini politici.
- Giulia Allegrini: Tutto questo ha una relazione con una specifica spiritualita' e cosmovisione indigena?
- Ninfa Patino: La cosmovisione si ritrova ed e' presente in tutto. Ogni volta che c'e' un levantamento, una riunione, si fanno celebrazione per chiedere permesso alla Pacha Mama, per chiedere permesso alle montagne, alla natura, perche' tutto abbia un buon esito, perche' si sia illuminati e che la mente si apra. C'e' un motto politico che e' in relazione con la cosmovisione: "Ama killa, ama shua, ama llulla" (non rubare, non mentire, non essere ozioso). Questi sono i principi del movimento indigeno che fanno parte del progetto politico del movimento e della sua protesta.

Nuova Zelanda, Maori:
colonizzazione, globalizzazione ed azioni nonviolente I maori sono una popolazione polinesiana giunta in Nuova Zelanda intorno al 900 d. C. che grazie ad un'intensa attivita' bellica ed una forte organizzazione militare riusci' a conquistare gran parte dell'arcipelago e costruire villaggi fortificati. Il primo contatto con gli europei risale al 1642 quando l'olandese Abel Tasman tento' il suo primo approdo sulla coste "nuove". La vera colonizzazione europea inizio' alla fine del XVIII secolo, grazie all'utilizzo delle armi da fuoco. Fu nel 1769 che James Cook avvisto' l'isola del Nord della Nuova Zelanda iniziando a rivendicarne subito il possesso della Corona Britannica. Ma fu poi solo nel 1830 che gli inglesi si dichiararono interessati a questa zona del mondo. Nel 1840 con la stipula del trattato di Waintagi gli inglesi sancirono definitivamente l'intento di sottomettere i maori. La politica coloniale si fondo' sull'invio di una
grossa comunita' borghese che voleva investire in fattorie e sfruttare quindi le terre. Il trattato del 1840 viene considerato il momento centrale nella fine della sovranita' maori aprendo la strada ad una vera "colonizzazione etnogiuridica e culturale". Il trattato si fondava su tre principi fondamentali: i capi maori riconoscevano la sovranita' inglese; i maori avrebbero goduto degli stessi diritti dei cittadini britannici; si garantiva il totale possesso terriero ai maori, ma con diritto di prelazione in caso di vendita per la corona inglese, mentre per i maori non era previsto alcun diritto di prelazione. Il trattato e' fondamentale nella comprensione del sistema di colonizzazione usato, in quanto basato su un'interpretazione del trattato completamente differente da quella dei maori. Per gli inglesi esso significava controllo e possesso totale delle terre maori, per questi alla base del trattato vi era invece un'idea di reciprocita' e scambio. Lo hau, lo spirito del dono, e' la forza magica del donatore che potrebbe ritorcersi contro chi viene meno all'obbligo di reciprocita'. Lo scambio di doni ha una funzione culturale e non utilitaristica e il concetto di proprieta' e' inteso non come esclusivo controllo delle risorse o di controllo privato, ma di ampia distribuzione del prodotto: la terra appartiene agli antenati e quindi non si puo' possedere alcun diritto di vendita. I maori si resero ben presto conto che il trattato non garantiva alcuna sovranita' come loro avevano inteso. Inizio' infatti un periodo di confische di terre e di vendita forzata ai coloni. La Nuova Zelanda e' indipendente dal 1931, ma gli effetti della colonizzazione, intrecciati a quelli della globalizzazione sono una forte minaccia alla conservazione della cultura, della lingua, della terra dei loro antenati.
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Intervista a Moana Sinclair, Maori indigenous people
- Giulia Allegrini: Potrebbe spiegare a grandi linee il suo lavoro e in quale contesto si colloca?
- Moana Sinclair: Il mio lavoro come avvocato e' quello di rispondere agli errori commessi negli ultimi secoli dal processo di colonizzazione, portato avanti dagli inglesi. Nel 1931 abbiamo una dichiarazione di indipendenza, riconosciuta anche dagli inglesi. Nel 1840 c'e' il trattato di Waitangi, in cui si parla di sovranita'. Nel 1845 gia' si comprese che era un nonsenso, un imbroglio. Quando gli inglesi giunsero ci furono molti processi legali che incominciarono, tra inglesi e maori. Gli inglesi forzarono i maori a vendere ai coloni le terre. Nel 1865 tutta la terra comune fini' all'interno del sistema inglese basato sul titolo individuale. Quindi noi consideriamo che per cento anni il trattato e' stato ignorato. Nel 1997 il governo privatizza molti luoghi pubblici. I maori protestarono dicendo "che ne e' della nostra terra?". Furono messe delle targhe sulle terre che i maori avrebbero potuto reclamare. In seguito furono fatte delle leggi che stabilivano che nessun atto di privatizzazione poteva essere in conflitto con il trattato. Questo e' un piccolo ma significativo passo. Di 66 milioni di ettari 3 sono stati lasciati fuori dalla privatizzazione. Significa anche che abbiamo un argomento legale per il ritorno della terra ai maori, basato sul trattato. Il problema di fondo che ha anche permesso agli inglesi di appropriarsi delle terre e di cambiare il sistema di possesso di queste terre, e' che la sovranita' di cui si parla nel trattato e' intesa in modo differente: secondo gli inglesi questa e' concessa ai maori, secondo i maori la sovranita' e' dei maori, noi la possediamo, come possediamo il diritto alle nostre foreste, al nostro mare, ai pesci, agli alberi, e tutto cio' che la natura rende disponibile per noi. Attualmente abbiamo ottenuto qualche successo. Il mio lavoro e' quello di vedere come gli atti possono essere interpretati. C'e' infatti un tribunale, istituito nel 1975, e il mio lavoro e' quello di rappresentare i maori nei processi e di portare al tribunale reclami e denunce.
- Giulia Allegrini: So che lei produce anche documentari. Sono parte di questa "battaglia legale"?
- Moana Sinclair: Io ho una laurea in legge e un master in diritto internazionale. Ma quando ero studente facevo anche reportage e lavoravo in televisione. Cosi' ho poi iniziato ad usare le mie conoscenze legali per fare anche dei documentari. Mi divenne infatti sempre piu' evidente che era necessario ridurre tutto il linguaggio legale in un linguaggio piu' semplice, ordinario, per far si' che la gente potesse comprendere. Quando lavoravo alla "Tv New Zeland" ho lavorato per un programma che mi ha permesso di creare una "consulenza legale", dieci minuti di tempo ogni volta per rendere comprensibili questioni complesse. Era una vera e propria educazione legale che e' andata avanti per un po' di anni. Continuo a documentare molte questioni che affligono i maori "riscrivendole" e rendendole piu' comprensibili. Cosi' ho anche fatto un documentario sull'impatto della globalizzazione sui maori e la popolazione indigena.
- Giulia Allegrini: Parlare di globalizzazione e' sempre difficile, e' un argomento vasto, ma potrebbe fare qualche esempio concreto dell'impatto che ha avuto sui maori?
- Moana Sinclair: Si', e' un argomento vasto. Io ho un amico che e' un attivista accanto a Vandana Shiva. Quando venne in Nuova Zelanda l'ho intervistato e sono riuscita a fare un documentario sulla globalizzazione. Abbiamo ormai compreso che i maori sono completamente coinvolti nel processo di globalizzazione. A livello nazionale il nostro stato e' entrato in numerosi accordi internazionali, multilaterali, ha invitato compagnie internazionali, multinazionali, per essere parte di scambi commerciali. In tutto questo i maori sono sempre la forza piu' debole. Il processo di privatizzazione messo in atto, l'apertura delle frontiere per il libero scambio, ha significato che molta della nostra gente ha perso il lavoro. L'impatto della globalizzazione ha portato a molti svantaggi e discriminazioni verso gruppi e minoranze (noi non usiamo quel termine per definirci, noi siamo "indigenous people", ci hanno fatto diventare minoranza nel nostro paese). L'impatto e' stato sostanziale, nella quotidianita', nella comprensione stessa di cosa una legge puo' significare. Per esempio io ho una laurea in legge e quando io ho iniziato il mio master hanno cambiato il sistema di pagamento dell'educazione e io ho dovuto abbandonare il mio master, una cosa triste... questa riforma ha colpito tutti gli studenti, ma di piu' i maori perche' noi non abbiamo una "storia" fatta di genitori che possiedono terra o tre o quattro generazioni di persone alle spalle con una solida educazione a cui fare riferimento. Abbiamo iniziato a provare da soli ad educarci senza un sostegno familiare. Io sono cosi' triste, i miei genitori sono morti, c'e' una statistica che e' comune tra i maori, si muore molto giovani. Io non ho possedimenti e se non posso pagare devo tornare a lavorare. E' come un circolo vizioso, non ho un parente ricco da cui posso andare e dire "ehi, e' molto dura per me, potresti darmi un po' di soldi?".
- Giulia Allegrini: Nella situazione in cui vivi quale spazio vedi per l'azione nonviolenta, in tutte le possibili forme di cui si e' discusso in questi giorni?
- Moana Sinclair: Noi abbiamo una storia. Uno dei nostri profeti, cresciuto nei tempi della guerre per la terra, porto' avanti una lotta pacifista. Non e' comunemente conosciuto.
L'idea di nonviolenza tra i maori e' un'idea forse un po' estranea; se si guarda a molte danze tradizionali sono molto aggressive, sono danze per la guerra. Ora nel 2004 siamo ormai colonizzati, modernizzati, parliamo un perfetto inglese come me e stiamo cercando di reclamare e ricostruire cio' che noi siamo, e in termini di azione nonviolenta; ci sono sempre stati gruppi impegnati che hanno cercato di ottenere il diritto alla terra, e molte persone sono morte, gente molto attiva per portare ad un cambiamento. Oggi nel 2004 abbiamo una situazione che vede un partito maori candidarsi alle elezioni. Gran parte del loro lavoro e' stato quello di portare avanti azioni nonviolente, cercano di imprimere un cambiamento, si sono stabiliti all'interno di un parlamento che e' sempre stato un luogo vietato ai maori,
lavorano all'interno del sistema. Per come la vedo io l'azione nonviolenta e' dentro il sistema ed e' fuori dal sistema, e' ogni possibile strada finalizzata a creare un cambiamento. Un'azione nonviolenta importante e' quella di reclamare valori educativi per i nostri figli. Molta della frustrazione che avevamo l'abbiamo canalizzata nell'insegnare la lingua ai nostri figli, ai bambini. Ci sono anche state numerose marce per la terra, quella piu' grande nel '75; questo ha portato a risultati come il processo di Waitani che ha portato alla creazione del tribunale presso cui presentare reclami. Il mio coinvolgimento e' stato quello di testimoniare le lotte, le azioni nonviolente. Noi chiamiamo tutto questo tinarangatnataga, che vuol dire "sovranita'" e non e' la sovranita' nel senso legale delle stato nazione, sovranita' e' liberta', e' parlare la propria lingua. Sappiamo che cosa vuol dire, la reclamiamo, chiamandola sovranita' anche se non e' il vostro significato internazionale legale, la reclamiamo e la ridefiniamo. Probabilmente in termini legali internazionali equivale ad autodeterminazione interna. Noi di certo non vogliamo la violenza, quei tempi di guerre sono passati, e abbiamo anche perso persone valide. Ci siamo ricompattati e ora siamo un movimento di coscientizzazione, soprattutto per i nostri figli.
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India: la lotta nonviolenta contro le dighe
L'India e' certo uno dei riferimenti essenziali per le lotte nonviolente che nel mondo vengono portate avanti. Oggi una delle lotte nonviolente piu' forti in India e' quella portata avanti dal movimento contro le dighe, che simboleggia una lotta per una societa' piu' giusta ed equa. Una delle dighe piu' grandi che lo stato vuole costruire e' quella del fiume Narmada, in nome dell'aumento della disponibilita' di acqua ed elettricita' per la popolazione della valle. Cio' che il movimento rileva e' la profonda ingiustizia che sta alla base del piano di costruzione delle dighe: un ampio numero di comunita' povere spogliate del loro mezzi di sussistenza e costrette ad abbandonare le loro abitudini di vita in nome di un dubbio comune beneficio ed interesse nazionale. Molte ricerche hanno dimostrato che la costruzione di una diga molto spesso si traduce solo in un enorme fallimento con una piccola frazione dei benefici previsti ed un impatto devastante sull'ecosistema e quindi su tutte le comunita' dell'area, oltre agli spostamenti forzati di moltissime persone. Lo stato si difende spesso garantendo risarcimenti (resettlement and rehabilitation) che il piu' delle volte non sono sufficienti. La lotta contro la costruzione di dighe simboleggia anche la lotta contro il modello di sviluppo dominante fondato sull'idea della crescita materiale per mezzo della modernizzazione e che invece produce una distribuzione iniqua delle risorse, un disastro ambientale e sociale.
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Intervista a Ratnaker Ghenga, della comunita' munda
- Giulia Allegrini: Al seminario si e' parlato molto del ruolo dello stato come monopolizzatore di violenza, e di come e di quali possibilite' di resistenza alla violenza statuale si possono trovare. Cosa pensa rispetto a questo in base alla sua esperienza?
- Ratnaker Ghenga: Nel contesto in cui vivo, come parte della comunita' indigena munda, posso dire che c'e' uno stato e una societa' che replicano un sistema di dominio. Questo e' frutto della stessa colonizzazione che abbiamo subito, che aveva prodotto un'estensione delle leggi britanniche nell'amministrazione civile, criminale, giudiziaria. Dopo l'indipendenza la situazione e' continuata, e nell'euforia della liberta' dal dominio europeo, la questione indigena non e' stata piu' una preoccupazione della comunita' internazionale e del paese stesso. Le questioni relative ai diritti degli indigeni si pensava fossero gia' tutelate dalla Costituzione indiana e dalla legge, in un quadro paternalistico di protezioni. Furono previste si' azioni positive (affirmative action) e furono definite delle aree di demarcazione. Ma queste in retrospettiva si sono manifestate come modo per assorbire la classe della popolazione colta all'interno del governo, un modo per farli stare in silenzio, mentre le stesse aree di demarcazione non hanno impedito ai non indigeni di entrare nelle sfere e territori che non erano di loro competenza. Le istituzioni tradizionali di autogoverno sono state marginalizzate a livello di villaggio dall'imposizione del sistema governativo. Relegate a funzioni cerimoniali, sociali e culturali, sono ancora mantenute in piedi dai mundas, mankis e parhas. Sono parte di una coscienza collettiva. Infatti uno dei piu' grandi "anti dam movement" (movimenti contro le dighe) che hanno avuto successo avevano come leader un capo tradizionale dell'area. Per cui quello che cerchiamo di fare e' di organizzarci a livello di munda, ossia di organizzarci a livello di territorialita' e nazionalita', perche' sentiamo che per confrontarsi con uno stato e una societa' dominanti si deve spingere verso una decentralizzazione del potere.
- Giulia Allegrini: Quindi quali sono in particolare gli ambiti in cui lavora l'organizzazione in cui e' attivo e quale spazio realmente trova?
- Ratnaker Ghenga: Per rispondere alla seconda parte della domanda, io lavoro in un'organizzazione che e' la piu' forte tra quelle che ci sono, ma io trovo che sia molto debole. Quanto agli ambiti in particolare abbiamo progetti relativi alla questione della terra e dell'autogoverno. In relazione a queste questioni abbiamo portato avanti un movimento di opposizione alla costruzione di piccole e grandi dighe, su ispirazione di uno dei piu' vecchi movimenti non solo indiano ma mondiale, il Carol movement. Attualmente le dighe costruite in area munda hanno portato allo spostamento forzato di centomila persone. Cerchiamo fondi a sostegno del movimento, vi prendiamo parte, organizziamo conferenze stampa invitando i leaders per dare visibilita' al problema.
- Giulia Allegrini: Lei si definisce prima di tutto come munda. La questione dell'identita' e' strettamente connessa con quella della territorialita' e della nazionalita' e quindi anche con il movimento contro la diga e per i conseguenti forzati spostamenti di persone. Potrebbe spiegare meglio qual e' la sua percezione rispetto a tutto questo?
- Ratnaker Ghenga: Devo dire che c'e' una frammentazione, la colonizzazione ha portato per certi versi ad una distruzione dell'identita', ma la cosa affascinante e' che nonostante l'integrazione, i tentativi di assimilazione, abbiamo conservato il nostro senso di appartenenza ad un'identita'. Anche il fattore religioso nella definizione della nostra identita' e' da prendere in considerazione. A questo proposito credo che debba esserci una separazione tra stato e religione. Io come consulente legale laico opero sulla base di valori. Tutto cio' e' poi sicuramente legato alla questione della terra, quindi ai progetti di costruzione della diga e le conseguenze che questa ha e avrebbe nello spostamento delle persone costrette ad abbandonare la loro terra. Nel mio lavoro come legale questo e' evidente. Per esempio abbiamo portato avanti una lotta contro la costruzione di una diga con marcie di protesta, ma il governo disse che avrebbe comunque costruito la diga. Mi fu cosi' chiesto di cercare una linea d'azione legale che potesse sostenere la protesta. Solitamente questa viene trovata nel contesto del discorso del "reinsediamento e riabilitazione". Ma io ho sostenuto che se chiedi reisediamento e riabilitazione, quindi risarcimento per i danni derivanti dalla costruzione della diga, vuol dire che credi in partenza che questa verra' costruita. Cosi' cio' che ho sostenuto nel processo contro il governo e' che la diga non doveva essere costruita perche' la mia religione e quella munda si oppongono a quella costruzione. Io, anche se cristiano, e come cristiano, difendevo la religione munda. Ho perso il processo e mi sono rivolto alla Corte suprema, ma anch'essa ha respinto il mia difesa. Spiego meglio la logica della mia difesa: abbiamo una legge che dice che se il cuore, il nucleo centrale di una religione e' in contrasto con le conseguenze di uan decisione dello stato, lo stato deve ripensare quella decisione in modo differente. Se lo stato deve rispettare le religioni, deve rispettare il cuore delle differenti religioni. Sulla base quindi del cuore della religione munda lo stato non puo' costruire la diga. La stessa "Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni" delle Nazioni Unite afferma il legame speciale degli indigeni alla terra, un legame spirituale con la terra. E' un legame che le religioni tradizionali indigene hanno e che deve essere rispettato. Tutto questo la Corte e lo stato non lo riconoscono.
- Giulia Allegrini: Al seminario sulla nonviolenza si e' parlato di metodi e pratiche della nonviolenza. L'India in questo e' stata un riferimento, lo e' ancora oggi? Nella sua esperienza quale spazio trova l'azione nonviolenta?
- Ratnaker Ghenga: Stiamo facendo molte azioni nonviolente. In particolare il riferimento piu' rilevante e' l'anti-dam movement che ancora porta avanti mobilitazioni e proteste nei luoghi in cui ci si sono i piani di costruzione della diga e pratica la noncooperazione. Si', c'e' una storia di lotte in India ma anche altrove nel mondo, come ad esempio il Sud Africa, che dimostra che la nonviolenza funziona.
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Stati Uniti d'America, Laguna Pueblo e Navaho:
identita', autodeterminazione e nonviolenza
Parlare dei nativi americani vuol dire spesso cadere in luoghi comuni e stereotipi. Si conoscono alcuni celebri nomi, come Toro Seduto, si ha un'immagine di loro nella tenda con la pipa, si conosce qualcosa delle loro norme spirituali, che spesso vengono letteralmente vendute come gadgets new age. Dietro tutto questo c'e' invece, naturalmente, una realta' piu' complessa. I popoli che compongono la grande comunita' dei nativi americani sono numerosi, ed ognuno ha una sua lingua, le sue tradizioni, soprattutto una sua storia. Ed e' proprio la storia, come il piu' delle volte accade, ad essere cancellata, e con essa la cultura di un intero popolo. Parte di quella storia e' stata drammaticamente segnata dal contatto sanguinoso con i colonizzatori. Un contatto che ha portato ad un vero e proprio sterminio di questi popoli, che si sono visti sottrarre le loro terre e si sono ritrovati inglobati in un sistema politico, giuridico, economico che ha cercato di eliminare le loro abitudini, i loro modi di vita comunitaria, la loro cultura. Un sistema che ha cercato allo stesso tempo di assimilarli, ghettizzarli e discriminarli. Oggi seppur molti atti legislativi hanno prodotto dei passi in avanti nella garanzia e protezione dei nativi americani, le discriminazioni in termini di diritti civili, politici, di accesso alla terra, sono la realta' con cui questi popoli si devono confrontare. La seguente intervista individua alcuni aspetti di queste discriminazioni, ma si concentra anche su cosa puo' voler dire nonviolenza in quel contesto.
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Intervista a June Lorenzo, Laguna Pueblo e Navaho
- Giulia Allegrini: Vorrei iniziare dal suo lavoro e dal percorso che vi e' dietro, che l'ha portata qui, oggi.
- June Lorenzo: Al momento potrei dire di essere affiliata, ma non di appartenere, ad un'associazione, fondata da una nativa americana, Tania Fictioner, che ha base a New York, che lavora in generale per l'empowerment degli indigeni americani, in particolare offrendo servizi ed assistenza legale ai nativi che vivono a New York o fuori dalle loro comunita' di origine. Sono in contatto con loro dal 2002. Questa e' la seconda organizzazione con cui lavoro, precedentemente ho lavorato a Washington per quattro anni, e prima ancora anche per il Dipartimento della Giustizia americano. Nel 2000 ho deciso di ritornare nella mia comunita', perche' per
me aveva piu' senso lavorare nella e per la mia comunita'. L'esperienza al di fuori, con le organizzazioni non governative, che erano coinvolte anche a livello internazionale nell'ambito delle Nazioni Unite e' stato fondamentale, ma poi ho sentito che era arrivato il momento di ritornare. Il mio desiderio, come quello di Tania, la fondatrice dell'organizzazione, e' quello di promuovere consenso tra i nativi rispetto al loro coinvolgimento all'interno delle Nazioni Unite.
- Giulia Allegrini: Parlava della sua comunita', potrebbe spiegare meglio a quale si riferisce?
- June Lorenzo: La zona di riferimento e' il sud-ovest degli Stati Uniti. Mia madre e' Navaho, mio padre del Laguna Pueblo. Hanno lingue diverse, ed anche culture diverse. Il popolo di mio padre pratica ancora un modo di vita comunitario ed io sento che mi appartiene molto, molto piu' di quel sistema individualistico che trovato a Washington. Le due comunita' si sono comunque poi mischiate. Io appartengo quindi a questa mescolanza.
- Giulia Allegrini: L'empowerment degli indigeni americani e' al centro delle attivita' dell'organizzazione con cui e' in contatto e lavora. In che termini in particolare?
- June Lorenzo: Per quello che riguarda il lavoro che ho fatto e faccio con loro si tratta soprattutto di empowerment in termini di diritti dei popoli indigeni, quindi nel quadro del lavoro delle Nazioni Unite. Io ho preso parte agli incontri presso le Nazioni Unite e soprattutto in quelli relativi alla Dichiarazione universale dei popoli indigeni. Tutto cio' l'ho fatto su base volontaria. Nella mia comunita' il lavoro di empowerment che faccio e' sempre legato all'ambito giuridico. Sono stata giudice e sono consulente legale per cio' che concerne la stesura di leggi. Vi e' infatti sempre piu' un coinvolgimento economico con i non nativi, questo vuol dire che spesso nasce la necessita' di regolare queste relazioni commerciali, che spesso riguardano l'uso della terra stessa. Da qui nasce la necessita' di chiarire, rendere comprensibili numerose leggi ai nativi, che all'interno di queste relazioni economiche sono la parte piu' debole, svantaggiata, che si ritrova a doversi confrontare con un sistema estraneo.
- Giulia Allegrini: Quali sono le discriminazioni piu' forti oggi nei confronti dei nativi americani?
- June Lorenzo: Credo che una delle piu' forte discriminazioni sia a livello di sistema elettorale. Io ho lavorato come procuratore al Dipartimento della Giustizia, nella sua divisione per i diritti civili, nella sezione chiamata "sezione votazioni". Il mio lavoro principale era quello di sostenere e garantire l'applicazione sia del Voting Rights Act, che riguarda l'accesso al voto negli Usa, che del Minority Languages Act, passato come emendamento al Voting Rights Act nei primi anni '80. La legge prevede che dove il censimento del 1980 ha registrato che una certa percentuale della contea parla una lingua minoritaria, le informazioni elettorali devono essere date anche in quella lingua. La zona sud-ovest dell'America, da dove io provengo, e' una delle zone con una piu' alta concentrazione di indigeni che hanno nel tempo conservato la propria lingua. Io quindi ho lavorato come procuratore al dipartimento per garantire che le informazioni elettorali fossero date in lingua Dine, Tewa e Keres. L'accesso al sistema elettorale per molti popoli indigeni americani e' stato considerato un importante diritto civile e diritto umano. Le discriminazioni si sono poi manifestate negli anni anche nel modo di individuazione dei distretti elettorali, in modo tale da impedire ai nativi di eleggere canditati delle loro comunita', questo viene definito come pratica del gerrymandering. Tuttavia le difficolta' ancora esistono, se non si controlla che le informazioni elettorali non vengono date nella lingua minoritaria molte persone vengono escluse. Infatti in molte comunita' non si parla inglese. C'e' sempre bisogno di monitorare. Vi e' poi da dire che i luoghi in cui si vota vengono sempre posti in zone lontane dalle zone in cui vivono le comunita' indigene. Tutto questo per fare alcuni esempi soltanto. In generale potrei dire che la discriminazione si manifesta a livello istituzionale, e' una discriminazione sistematica.
- Giulia Allegrini: All'interno delle Nazioni Unite, per quanto riguarda soprattutto il progetto di stesura della Dichiarazione, il dibattito sul diritto all'autodeterminazione dei popoli indigeni e' centrale. Secondo lei per i nativi americani che cosa significa e cosa implica?
- June Lorenzo: Credo che significhi soprattutto self government (autogoverno). Questo vuol dire anche avere proprie corti, proprie scuole, vuole dire soprattutto poter decidere del proprio sviluppo economico, perche' questo non si traduca in distruzione della nostra terra. Io non penso che uno stato-nazione indiano negli Usa sia un successo. Non credo sia sensato parlare infatti di autodeterminazione in senso "europeo", cioe' in termini di indipendenza. La lotta per i diritti sulla terra e' poi al centro dell'autogoverno. Ancora oggi sono molti i casi di reclami da parte dei nativi contro il governo. Si pensi poi a quante tribu' sono state divise con la nascita di molti stati negli Usa, molte si sono ritrovate divise anche tra Canada e Usa, e per loro viaggiare, passare da uno stato all'altro, non e' certo facile.
- Giulia Allegrini: Volevo sapere se e in che termini il processo di globalizzazione ha influenzato le comunita' dei nativi, anche in termini di perdita di tradizioni culturali o spirituali?
- June Lorenzo: Sicuramente la globalizzazione ha avuto i suoi effetti e li continua ad avere. Li ha generando ingiustizie e disuguaglianze. Si e' inevitabilmente entrati a fare parte del processo di globalizzazione, ma senza poterne godere i frutti; in questo senso, ad esempio il problema del "digital divide" e' molto forte. Molta gente delle comunita' non ha ne' elettricita' ne' linea telefonica, e il divario tra chi ha accesso alla televisione o altre tecnologie e' sempre piu' grande. La televisione, che comunque e' entrata in molte comunita', influenza poi la cultura, passa messaggi ai nostri figli, soprattutto messaggi di consumismo, e questo influenza il pensiero e il modo di vivere di una comunita' intera a sua volta. E la storia, la storia degli antenati che e' sempre stata fondamentale per noi nativi come parte della nostra identita' e cultura ne risente.
- Giulia Allegrini: Crede che la nonviolenza sia uno strumento, uno principio, una filosofia che trova o puo' trovare spazio tra le popolazioni native americane? O c'e' un'idea piu' vicina alle loro tradizioni e culture che gli corrisponde?
- June Lorenzo: Credo che l'idea di nonviolenza, all'interno del Laguna Pueblo e dei Navaho, si possa tradurre con l'idea di vivere in armonia, in equilibrio. Ci sono forze opposte che regolano il mondo, la vita umana nel suo complesso. La violenza, la guerra sono una manifestazione in questo senso di disequilibrio tra queste forze. Quindi la domanda da porsi sempre e': "come vivere in modo che le mantenga in equilibrio?".
- Giulia Allegrini: Lei ha scritto un saggio molto interessante che conduce ad un nuovo modo di pensare all'autodeterminazione. Mi riferisco alla decisione presa da parte da alcuni popoli nativi di non partecipare alle elezioni e alla vita politica degli Stati Uniti. Questo potrebbe essere vista come una resistenza nonviolenta?
- June Lorenzo: Si', proprio cosi'. Rimanendo all'interno del "vostro" framework culturale e concettuale posso bene accettare questa definizione. La Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni afferma il diritto a partecipare alla vita politica delle Stato: "I popoli indigeni hanno il diritto a mantenere e rafforzare le loro caratteristiche economiche, sociali, culturali, politiche, cosi' come il sistema legale, hanno il diritto a partecipare pienamente, se cosi' scelgono, nella vita economica, politica, sociale e culturale dello Stato".
Quel "se cosi' scelgono" non aveva avuto mai un senso per me fino a quando, mentre lavoravo per i reclami di terra delle nazioni Mohawk e Tonawanda Seneca, che fanno parte della Confederazione Haudenosaunee o Confederazione delle Sei Nazioni, contro lo Stato di New York, venni a conoscenza della loro posizione contraria alla partecipazione nella vita politica del governo degli Usa. Questa loro posizione si fonda su di un trattato tra la Confederazione Haudenosaunee e gli Stati Uniti. Il trattato fu fatto per rispettare cio' che un profeta aveva ordinato ai popoli Haudenosaunee, ossia che loro e gli Usa dovevano vivere parallelamente, con un mutuo rispetto delle loro vite politiche, ma senza mai combinare o partecipare ai rispettivi affari politici. Per questo motivo questi popoli non hanno partecipato al censimento, non partecipano alle elezioni e rifiutano anche fondi per progetti e programmi da parte del governo statunitense. La lotta per ottenere il diritto di voto cosi' come il rifiuto invece di entrare nel sistema politico americano sono entrambi da considerare un esercizio del diritto all'autodeterminazione. Il rifiuto rimanda ad un concetto importante: quello dei diritti collettivi. Il diritto di voto per le minoranze si e' affermato negli Usa come diritto degli individui, non come diritto di un popolo. Questi popoli che hanno deciso di non partecipare alla vita politica degli Usa hanno deciso di portare avanti quel patto che i loro antenati avevano fatto. Voglio anche ricordare altre azioni di resistenza. Molti popoli del sud-ovest hanno delle cerimonie, parte di queste sono dei pellegrinaggi ai loro luoghi sacri. Molte delle terre sono state pero' perse e sono diventate dei range, terre da pascolo per bestiame. Negli anni non hanno pero' mai rinunciato a queste loro cerimonie e continuano a fare in questi luoghi i loro pellegrinaggio. Quello che fanno e' qualcosa di strettamente religioso, qualcosa di intimo, non vanno la' facendo una manifestazione, una marcia, non chiamano la televisione o la stampa. Credo che questo sia una forma di azione di resistenza spirituale nonviolenta.
(Fine)

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