I Miei Trenta Giorni di Prigionia
di Giuliana Sgrena
tratto da: La Nonviolenza e' in Cammino 889 887

[Dal quotidiano "Il manifesto" del 31 marzo 2005.
Giuliana Sgrena, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu' prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza (tra cui: a cura di, La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma 1995, 1999; Kahina contro i califfi, Datanews, Roma 1997; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq, Manifestolibri, Roma 2004); e' stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata rapita il 4 febbraio 2005; e' stata liberata il 4 marzo. Dal sito del quotidiano "Il manifesto" riprendiamo, con minime modifiche, la seguente scheda: "Nata a
Masera, in provincia di Verbania, il 20 dicembre del 1948, Giuliana ha studiato a Milano. Nei primi anni '80 lavora a 'Pace e guerra', la rivista diretta da Michelangelo Notarianni. Al 'Manifesto' dal 1988, ha sempre lavorato nella redazione esteri: appassionata del mondo arabo, conosce bene il Corno d'Africa, il Medioriente e il Maghreb. Ha raccontato la guerra in Afghanistan, e poi le tappe del conflitto in Iraq: era a Baghdad durante i bombardamenti (per questo e' tra le giornaliste nominate 'cavaliere del lavoro'), e ci e' tornata piu' volte dopo, cercando prima di tutto di raccontare la vita quotidiana degli iracheni e documentando con professionalita' le violenze causate dall'occupazione di quel paese. Continua ad affiancare al giornalismo un impegno anche politico: e' tra le fondatrici del movimento per la pace negli anni '80: c'era anche lei a parlare dal palco della prima manifestazione del movimento pacifista"]



Aveva piovuto molto - cosa rara per Baghdad - quella mattina del 4 febbraio, il giorno del mio rapimento. Ricordo il fango che circondava la moschea di al-Mustafa, all'interno dell'universita' di An-Nahrein. Ci ero andata per raccogliere le testimonianze dei rifugiati di Falluja. Moltissimi di loro sono ancora raccolti la', alcuni vivono in tenda, altri dentro la moschea. Appena sono arrivata sono stata subito affrontata in modo ostile. "Chi ci assicura che non sei una spia?", mi ha detto un uomo, "cosa vieni a fare?". Gli ho risposto che ero una giornalista: "Vorrei raccontare la sofferenza del vostro popolo, se volete raccontatemi le vostre storie. E siccome non
posso fare niente per dimostrarvi che non sono una spia, chi non si fida di me non mi dica niente". Invece sono stata subito circondata da tante donne che mi narravano le loro sofferenze e quasi non volevano piu' lasciarmi andare. Questo mi ha un po' rincuorato. Ho ascoltato tanti racconti, vicende drammatiche di povera gente, che insieme alla casa aveva perso tutto. Prima di andare via pero' dovevo incontrare l'Imam, sheik Hussein, grazie al quale avevo potuto parlare con i profughi. Quando ero arrivata alla moschea, lo sheikh stava preparando il sermone e mi aveva detto di aspettarlo dopo la preghiera. Ho perso altro tempo. Insomma, la cosa e' andata per le lunghe. E quando ho finito mi sono accorta di essere in ritardo all'appuntamento che avevo con altri colleghi.
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Il rapimento
Sono entrata in macchina, ho chiamato il giornale e ho detto di richiamarmi. Poi ho telefonato, per avvisare del mio ritardo, alla collega Barbara Schiavulli che era in albergo a Baghdad, e mentre il suo telefono stava squillando, esattamente in quel momento, ho sentito la sparatoria e ho capito che mi stavano sequestrando. Per telefonare mi ero distratta, all'improvviso mi sono accorta che il mio
autista stava scappando, che l'interprete stava cercando di bloccare lo sportello dell'auto, senza successo, qualcuno mi stava tirando fuori dall'auto. E' stato allora che il telefono mi e' caduto e uno dei quattro rapitori l'ha raccolto mentre mi costringevano a salire su un'altra macchina. Mi avrebbero poi raccontato che sulle prime quella mia ultima telefonata era stata interpretata come un segnale, una richiesta di aiuto, ma non e' stato cosi'. Semplicemente stavo telefonando quando mi hanno preso e chi ha risposto ha potuto seguire i primi passi dei miei sequestratori. Nella macchina mi hanno fatto sedere dietro, in mezzo a due di loro. E sono partiti. Io ho cominciato a urlare: "Cosa volete? Dove mi portate?", e quello che era seduto alla mia destra mi ha detto: "Stai tranquilla, vogliamo solo fare un video per chiedere il ritiro delle truppe a Berlusconi e poi ti rimandiamo a casa". Il che per me era tutt'altro che tranquillizzante. Ero terrorizzata, ma allo stesso tempo furiosa, forse avevo sbagliato a restare troppo tempo la', a "sfidare" quei profughi che si erano dimostrati ostili: qualcuno di loro doveva, o almeno poteva, avermi tradito. Baghdad e' enorme, molte zone non le conosco bene quindi non so dire dove mi hanno portato. Abbiamo girato per mezz'ora, forse di piu'. Loro intanto telefonavano, comunicavano. Io guardavo dal finestrino nell'impossibile ricerca di
qualcuno che mi aiutasse, ma oltretutto era venerdi', giorno di preghiera, alcune strade erano praticamente deserte, e le macchine che incrociavamo si allontanavano indifferenti. Poi siamo arrivati alla casa e la macchina si e' fermata esattamente davanti alla porta d'ingresso. Mi hanno fatto abbassare la testa perche' non vedessi bene dove mi trovavo. Mi hanno portato in una stanza, qualcuno e' arrivato con le provviste. Volevano farmi mangiare, ma il mio stomaco era bloccato. Avevo freddo, invece. Mi sono sdraiata su un divano e mi hanno dato una coperta. Era una giornata bruttissima, faceva un freddo cane. A pensarci adesso, lo stesso clima freddo e piovoso del giorno in cui mi hanno liberata.
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La notizia in tv
Dei quattro che mi hanno rapito due sono andati subito via e sono rimasti i due che mi hanno tenuta prigioniera durante tutte le quattro settimane. Per prima cosa hanno acceso la televisione, ma il satellite non funzionava. Dopo un po' la tv irachena, al Iraqia, che di solito da' poche notizie sulla guerra e per questo nessuno la guarda, ha mandato in onda una mia foto, ha parlato del rapimento e ha fatto pure vedere una prima pagina del "Manifesto". Meno di un'ora dopo il sequestro i rapitori gia' sapevano chi era e per chi lavorava quella che avevano sequestrata. Io ero terrorizzata. Uno di loro parlava un po' d'inglese, un altro riusciva a dire due parole in francese, io utilizzavo quel po' di arabo che conosco, il resto a gesti. Ci capivamo, non sempre e non su tutto, ma abbastanza. Mi hanno chiuso in una stanza in un'ala di quella che mi sembrava una casa piuttosto grande, anche bella direi. Un po' trasandata, ma parlando con altri ex ostaggi credo di essere stata fortunata. Accanto alla mia stanza c'era quella dei miei due guardiani. Il bagno era in comune. Se dovevo andarci bussavo alla porta e mi venivano ad aprire. I primi giorni non volevo nulla da mangiare. Avevo lo stomaco legato. Bevevo solo te' e succo d'arancia e rifiutavo tutto il resto: pollo, zuppe, eccetera. "Perche' non mangi? Che cosa vuoi mangiare?", sembravano dispiaciuti per il mio digiuno. Poi ho cominciato ad assaggiare le zuppe, erano buone, con un sapore strano, non sembravano zuppe arabe. E servivano a riscaldarmi. Io chiedevo soprattutto frutta, che mi portavano abbondante,
banane, mele e persino kiwi. Quando chiedevo che cosa mi sarebbe successo, ripetevano: adesso facciamo il video per chiedere a Berlusconi il ritiro delle truppe e poi te ne vai. Ma il tempo passava. Io continuavo a dirgli: perche' avete preso proprio me che sono sempre stata contraria alla guerra? Volevo spiegargli chi ero, ma volevo anche capire con chi avevo a che fare. La mia prima preoccupazione era capire se ero finita nelle mani dei terroristi di al Zarqawi. Sono arrivata a escluderlo abbastanza presto. La domenica sera, due giorni dopo il sequestro, sono riuscita a sbirciare per qualche minuto la televisione. Passavo davanti alla loro camera e ho
chiesto: "Mi fate vedere qualche notizia?". Mi hanno fatto entrare nel loro stanzone e con il telecomando sono capitati su Euronews. Ho visto il Campidoglio con la mia foto e le fiaccole, ho visto inquadrate le due Simone, ma poi subito dopo hanno dato la notizia della rivendicazione del Jihad: se entro lunedi' sera Berlusconi non annunciava il ritiro delle truppe mi avrebbero ammazzata. Mi si e' gelato il sangue, ma anche loro erano sconcertati, quasi quanto me. Mi hanno detto "non credere, non credere, non siamo noi", ripetevano. "Voi mi volete uccidere", urlavo. E loro, passandosi il dito sotto al collo, dicevano che non erano cosi', non erano tagliagole, non erano del Jihad. Ma io ero assolutamente terrorizzata. Il lunedi' sera quando sarebbe dovuto scadere quell'ultimatum ero isterica. A un certo punto ho battuto violentemente contro la porta e loro sono venuti subito: "Cosa c'e'?"; "So che volete uccidermi, voi mi volete uccidere", dicevo io. "No, non e' vero", hanno detto loro. "Vuoi vedere un po' di televisione cosi' ti calmi?". Mi hanno fatto vedere un pezzo di film americano. Sarebbe stata l'ultima concessione per quanto riguarda la tv. E in generale poi sarebbero diventati piu' rigidi.
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"Dovete andarvene tutti"
Non mi sembravano molto esperti di sequestri, almeno i due che stavano con me e che erano giovani. Uno dei due mi diceva che aveva interrotto l'universita' a causa della guerra. Non li definirei terroristi e nemmeno delinquenza comune perche' avevano una certa consapevolezza politica. Da quello che ho capito si collocavano nell'area della resistenza irachena composta anche da settori che usano metodi assolutamente non condivisibili, come appunto i sequestri, e che sono condannati anche dalla resistenza che usa le armi contro gli occupanti senza prendersela con i civili. "Noi vogliamo liberare il nostro paese", mi dicevano. E io: "E va bene, io l'ho sempre detto, ma perche' avete rapito proprio me? E' troppo facile uccidere una donna indifesa, andate in strada a combattere gli americani", li provocavo. "Noi usiamo tutti i mezzi a disposizione, questa e' guerra, la guerra e' cosi'" mi rispondevano. E io ancora: "Io sono venuta in Iraq per testimoniare quanto soffre questo paese". E loro: "Voi potete essere tutte spie. Tu sei stata a Nassyria con gli italiani. Noi non facciamo piu' differenza tra militari, giornalisti, contractor, italiani e francesi, eccetera. Dovete andarvene tutti". Ogni tanto, ogni tre o quattro giorni, riuscivo anche a fare una doccia, dovevo aspettare che l'erogazione di energia elettrica durasse almeno due ore, il tempo necessario per riscaldare l'acqua. Il che avveniva abbastanza raramente e a volte succedeva solo di notte. Stavo quasi sempre al buio, la finestra della mia stanza era stata coperta con un armadio. E la luce dipendeva dall'erogazione saltuaria della corrente elettrica e da un generatore spesso senza benzina. All'inizio mi davano una lampada a petrolio, ma la stanza era chiusa e l'odore era insopportabile. Cosi' hanno deciso di darmela solo per mangiare. Passavo intere giornate al buio, mentre la notte, quando, a volte, improvvisamente riprendeva la distribuzione di elettricita', si accendeva una luce violenta che non potevo spegnere. Stavo quasi sempre a letto, sotto le coperte perche' faceva freddo. E non c'era riscaldamento. Di notte le ore erano interminabili. Praticamente non dormivo piu', quando cercavo di appisolarmi la luce si accendeva improvvisamente e mi teneva sveglia. Era terribile non sapere nemmeno che ora fosse. Di giorno cercavo di regolarmi attraverso il richiamo delle preghiere. Doveva esserci una moschea vicino, non vicinissimo perche' la voce del muezzin a volte arrivava debole, evidentemente dipendeva dal vento. A volte per distrarmi facevo degli esercizi di memoria, cercavo di ricordarmi i nomi, le date. Altre volte avevo dei momenti di depressione. Pensavo ai miei genitori, a mia madre che mi aveva detto di non partire. Avevo dei sensi di colpa. Allo loro eta' anche questa dovevo fargli! Poi quando sono tornata ho saputo che mamma e papa' sono stati bravissimi.
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Islam e comunismo
I miei due guardiani alcuni giorni erano piu' tranquilli e disponibili,
altre volte erano nervosi e anche arroganti nei miei confronti. A volte passando davanti alla loro camera mentre andavo in bagno mi intimavano di non guardare la loro stanza. Altre volte erano loro che venivano nella mia stanza a parlare. Erano incuriositi da me e ogni tanto mi sentivo come la scimmietta dello zoo. Si mostravano molto religiosi, a volte persino in modo eccessivo. In questo momento in Iraq l'Islam e' un elemento unificante anche per quei gruppi della resistenza che magari hanno al loro interno delle componenti laiche o saddamiste. Forse per questo i miei sequestratori cercavano di accreditarsi una grande religiosita'. Soprattutto uno di loro che ascoltava versetti del Corano per tutto il pomeriggio. Una sera sono venuti in camera mia e hanno cominciato a chiacchierare e a scherzare. Si parlava anche di Islam e mi dicevano "tu sei sporca". "Perche'?", "Perche' non sei musulmana". Non sapevo cosa rispondere. Allora mi chiedevano: "Perche' non ti converti all'Islam?", e iniziavano una specie di sceneggiata. Uno diceva: "ma non puo' convertirsi all'Islam, e' comunista". Lo ripeteva piu' volte, fin dall'inizio mi avevano chiesto se io ero "shuyuk", ma io facevo finta di non capire perche' non sapevo se per loro era peggio essere cristiana o essere comunista. Ma lo scrivevano tutti i giornali e lo dicevano tutte le tv che "Il manifesto" e' un quotidiano comunista. Io gli dicevo che si puo' essere comunista cristiano, comunista musulmano. "No, no - rispondevano - comunista e' senza dio, e' impossibile". Allora insistevano sulla mia conversione all'Islam, giocando molto su questa cosa. Ma io rispondevo: "No, con la religione non si scherza".

"Facciamo un video per chiedere a Berlusconi il ritiro delle truppe italiane dall'Iraq e poi ti lasciamo andare a casa". I miei sequestratori me l'avevano detto da subito, appena rapita all'uscita dall'universita' di An-Nahrein. Invece ho dovuto aspettare piu' di una settimana prima che si presentassero i "responsabili" del video promesso. Avevo paura, ma ero quasi contenta che succedesse qualcosa e soprattutto di incontrare qualcuno del gruppo dei sequestratori a un livello piu' alto: finalmente avrei potuto cercare di far valere le mie ragioni. E in effetti una discussione c'e' stata. Si e' presentato uno col volto coperto da una kefiah a scacchi rossi e bianchi. Aveva in mano un biglietto e ha cominciato a leggere: "Noi abbiamo il diritto di liberare il nostro paese. Come il Vietnam, l'Algeria...", a questo punto l'ho interrotto. "Certo che ne avete il diritto, ma lo venite a dire a me che mi sono sempre battuta contro la guerra e contro l'occupazione?". Allora, quello a volto coperto ha risposto: "sappiamo benissimo chi sei pero' ci devi aiutare, devi fare un appello per il ritiro delle truppe a Berlusconi". La mia rabbia aumentava: "Se il ricatto e' la mia vita in cambio del ritiro delle truppe potete uccidermi subito, perche' non otterrete nulla. Berlusconi e' un alleato di Bush, non vuole il ritiro e poi non accettera' mai questi condizionamenti. Al contrario, l'opinione pubblica in Italia e' molto sensibile alla situazione irachena e la contrarieta' alla presenza italiana in Iraq e' molto diffusa, quindi dovete contare sul popolo italiano piu' che su Berlusconi. Altrimenti, uccidetemi subito: e' piu' facile uccidere una povera donna indifesa che andare a combattere i soldati Usa per strada", ho azzardato. Mi hanno detto che non mi avrebbero uccisa, ma senza convincermi: "Aiutaci solo a fare questo appello". Abbiamo discusso molto prima di girare questo video sulla necessita' di rivolgersi al governo, al popolo italiano e alla famiglia. Insistevano molto sulla famiglia. Quando mi avevano presa mi avevano chiesto quanti anni avevo - 56 - se ero sposata - avevo risposto di si' anche se non sono sposata legalmente (ma il distinguo poteva risultare difficile da spiegare) e quanti anni aveva mio marito - 53. "Come, hai un marito piu' giovane? E quanti figli hai?", "Nessuno". "Nessuno!". Troppe incongruenze (per loro), forse volevano mettermi alla prova chiedendomi di rivolgermi a mio marito. Avevano una piccola videocamera che non sapevano usare bene. Il tutto mi sembrava molto improvvisato. Eravamo nella stanza dove mi hanno tenuto per tutti i trenta giorni. Mi hanno fatto indossare i miei vestiti, quelli che avevo al momento del sequestro. Avevo una maglia nera, non so perche' nel video trasmesso dalle televisioni risultava verde. Mi hanno raccontato che in Italia sul colore dei miei abiti si e' molto discusso, ci si voleva leggere chissa' quale segnale. Ma era la mia vecchia felpa nera. Forse il cambiamento di colore e' stato causato dal neon usato quando e' saltata la luce.
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Il primo video
Nessuno di loro sapeva l'italiano quindi mi hanno fatto scegliere tra
francese o inglese. Ho scelto il francese. Nel momento in cui dovevo
rivolgermi al mio compagno ho invocato Pier: mi hanno interrotto subito. "Devi dire mio marito!". "Ma si chiama Pier", ho cercato di ribattere. "Non importa". Ma dopo il per me insolito "mio marito", ho aggiunto Pier. A quel punto, quando ho iniziato a rivolgermi a lui, senza rendermene conto sono passata all'italiano. E in quello stesso momento mi ha assalito una grande emozione. L'emozione di parlare direttamente a lui. Ovviamente io contavo molto su Pier, noi due abbiamo passato una vita insieme, una storia d'amore ma anche di politica, sapevo che avrebbe fatto di tutto per salvarmi. Ma temevo di responsabilizzarlo troppo. "Salvami tu", gli dicevo. E se poi finiva male? Capivo che gli stavo buttando addosso un peso enorme. Eppure non potevo fare altro in quel momento. Poi quando ho chiesto a uno dei miei guardiani se avesse visto il video trasmesso da al Jazeera mi ha risposto di no: "Il satellite non funziona e poi il video deve essere riuscito cosi' male che penso non sia stato utilizzato", mi ha detto. "Meno male", mi sono consolata. Pensavo proprio di aver sovraccaricato Pier di responsabilita'. Non sapevo quale livello di drammaticita' potesse avere il video, io non sapevo nemmeno che faccia avessi. Sono stata venti giorni senza potermi guardare allo specchio. Durante la registrazione, i sequestratori volevamo che io caricassi ancora di piu' i toni, che mi mostrassi terrorizzata, piu' di quanto lo fossi.
A parte le forzature che mi imponevano, nel testo e nell'atteggiamento, le cose che ho detto nel video sono le cose che ho sempre sostenuto. Penso che chi lo ha visto e mi conosce abbia capito che ero molto presente, ero in qualche modo razionale. Non ero completamente nelle loro mani, manipolata fino in fondo. In genere non sono mai molto razionale e calcolatrice, invece in quel frangente mi sono scoperta meno emotiva del solito. L'emozione stava tutta in quelle lacrime.
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La maglietta di Totti
Qualche giorno dopo, uno dei miei due guardiani, quello che era solitamente piu' "duro", e' venuto a dirmi che era rimasto stupefatto di aver visto il mio nome sulla maglietta di Totti. Mentre l'altro passava pomeriggi interi ad ascoltare i versetti del Corano, questo preferiva le partite di calcio alla televisione e fin dai primi giorni del sequestro mi parlava dei giocatori italiani, mi faceva domande sulle squadre di calcio. Lui era un tifoso della Roma, Francesco Totti era il suo idolo e vedere Totti con il mio nome sulla maglia per lui era il massimo. Allora io scherzando gli ho detto: "Sai, io sono della Juve". E lui ha cominciato a sbeffeggiare Del Piero. Eppure questa storia e' servita a far capire ai miei sequestratori quanto fosse ampia la solidarieta' nei miei confronti in Italia. Quando stavo la' io non avevo capito fino a che punto fosse stata alta la mobilitazione per la mia liberazione. Della manifestazione di Roma organizzata dal "Manifesto" avevo avuto solo una mezza idea. Ancora oggi, ogni giorno scopro chi e come si e' dato da fare per salvarmi la vita. E alla fine, prima di liberarmi, anche i miei rapitori mi hanno detto: "Abbiamo capito che tu sei molto apprezzata nel tuo paese. Scusaci per quello che ti abbiamo fatto".
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Una doccia
I rapporti con i miei guardiani subivano alti e bassi, a volte erano piu' disponibili, in altre occasioni erano tesi e arroganti. A volte si impuntavano sulle cose piu' stupide, come quante volte andare in bagno. Se mi rivolgevo a uno di loro mentre ero nel corridoio mi sgridavano: "Una donna non deve parlare nel corridoio", dicevano. A volte invece, quando vedevano che stavo male, si davano da fare per trovare la medicina giusta. Se non mangiavo provavano a portarmi qualcos'altro. Devo confessare che a volte giocavo sul fatto che ero un povera donna, una donna debole. Era l'unico tasto sul quale potevo battere con loro. Affermazioni contro le quali ho lottato tutta la vita... ma non potevo fare altro. C'e' stato un momento in cui ho avuto bisogno dell'assistenza di una donna. L'ho detto loro ed effettivamente hanno fatto venire una donna che mi ha
portato tutto quello di cui avevo bisogno. Negli stessi giorni ho spiegato che avevo molti dolori articolari e mi hanno fatto avere delle medicine. Per quattro, cinque giorni sono rimasta sempre a letto. Mi alzavo solo per andare in bagno, faceva freddo e quindi mi mettevo sempre la sciarpa in testa. Loro mi portavano da mangiare e andavano via. Alla fine della settimana mi sentivo lercia, dovevo assolutamente fare una doccia. Non era una cosa semplice. Con l'acqua fredda non l'avrei mai fatta, quindi bisognava aspettare che ci fosse l'energia elettrica almeno per due ore in modo da poter riscaldare l'acqua e che questo avvenisse a un'ora decente, non in piena notte. Avere i capelli bagnati, la cervicale, insomma i malanni
che capitano a una certa eta', non era il caso. Loro non capivano molto ma a volte cercavano di aiutarmi. Alla fine sono riuscita a fare la doccia. Poi sarebbe diventato un mio obiettivo realizzabile ogni quattro o cinque giorni.
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Aria di trattativa
Quando mi hanno fatto consegnare l'orologio e mi hanno detto che doveva andare a Roma perche' mio marito doveva riconoscerlo ho capito che la trattativa stava cominciando. Loro mi dicevano: "Tornerai a Roma". E io dicevo si', ma quando? Rispondevano sempre: "Domani, inshallah!". Poi una mattina mi hanno regalato una catena d'oro: "Tieni, il nostro capo ti regala questa". Io ho pensato che era un buon segnale, mica mi regaleranno una collana se vogliono uccidermi, mi consolavo. Il pomeriggio dello stesso giorno mi hanno detto: per noi la tua vicenda e' conclusa, realizziamo il video della liberazione e te ne vai a Roma. Naturalmente mi hanno detto cosa dovevo dire: dovevo ringraziare per essere stata trattata bene e l'esibizione della collana sarebbe stato il segno. "Sorridi", mi dicevano. Ma io ero nervosa, accanto a me vi erano due mujahidin armati, uno di loro prima del mio "ringraziamento" aveva letto un proclama, io non avevo capito nulla, nemmeno le parole arabe che conosco, avevo paura che quella
fosse una rivendicazione, oppure che fossero le condizioni per la mia liberazione. Allora ho guardato negli occhi il mujahidin che aveva letto il proclama: "Ma e' vero che mi libererete?". E lui mi ha risposto, sempre fissandomi negli occhi: "Muslims no lies", i musulmani non mentono. Inshallah! Ma invece i giorni passavano, e non succedeva nulla, fino a venerdi' 4 marzo.
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Venerdi' 4 marzo
Come al solito avevo chiesto se era il giorno buono per la mia partenza. E loro mi avevano detto che c'erano ancora dei problemi da risolvere. Improvvisamente, dopo alcune ore, sono arrivati i miei due carcerieri vestiti in maniera insolita, con i pantaloni e la camicia all'occidentale: "Complimenti, parti per Roma", mi hanno detto stringendomi la mano. Mi hanno restituito cio' che avevo nella borsa, documenti e soldi, tranne il telefono satellitare, il cellulare, la macchina fotografica digitale e un blocchetto di appunti.
Il momento era estremamente delicato, me ne rendevo conto: "Se hai paura, prima di uscire devi tranquillizzarti - mi hanno detto -. Se usciamo e ci intercetta una pattuglia americana o irachena e tu fai qualche segnale noi siamo pronti a rispondere al fuoco e saltiamo tutti in aria. Non si salva nessuno". Avevo capito e avevo una paura folle. Avrei voluto indossare un vestito come quelli delle donne wahabite, come quelli che ricordavo indosso alle due Simone nel video della loro liberazione, mi sarei sentita piu' tranquilla. Invece non hanno voluto, mi hanno fatto mettere i miei occhiali da sole, li hanno imbottiti di cotone e poi mi hanno fatto calare sugli occhi la mia sciarpa nera e siamo usciti.
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L'ultima ora
Da quel momento io non ho visto piu' niente, mi hanno messa in macchina e siamo partiti. Non so quanto tempo ci abbiamo messo per arrivare nel posto dove ci siamo fermati, ma non molto. Forse una ventina di minuti, anche se avevo la percezione del tempo molto dilatata per la paura. Oltre ai due sequestratori c'era, mi pare di aver capito, anche un autista. Quel giorno a Baghdad pioveva, proprio come il giorno del sequestro. La macchina a un certo punto si e' fermata su una pozzanghera, ho sentito lo splash e ho pensato: proprio adesso dovevamo impantanarci... Invece eravamo arrivati. Da quel momento e' iniziato un conto alla rovescia interminabile. Mi hanno detto: "Adesso ti verranno a prendere" e mi hanno lasciata sola. Sentivo intorno a me altre macchine, voci in lontananza, qualche sirena della polizia, e soprattutto un elicottero americano che volteggiava sopra di me, si allontanava e poi tornava. Ero veramente terrorizzata perche' mi rendevo conto che bastava un nonnulla per far saltare tutto. A un tratto uno dei sequestratori e' tornato e mi ha detto: "Ancora dieci minuti". "Dieci minuti - ho pensato - come posso resistere". Non sapevo che fare e ho deciso di contare fino a 600, ma lentissimamente in modo che i dieci minuti finissero prima della conta e forse nel frattempo qualcuno sarebbe arrivato. Invece no. "Continuo fino a 700", mi sono detta. E' stato allora che mi sono resa conto che una macchina mi stava illuminando con i fari. Istintivamente mi sono rincantucciata. Poi avrei saputo che era la macchina dei miei liberatori. Stavo li' in questo angolo buio senza muovermi, vestita tutta di nero. E pensavo: se adesso si apre la porta cosa faccio?
Poi la porta si e' aperta davvero e ho sentito quella voce: "Giuliana,
Giuliana sono Nicola, non avere paura, sono amico di Gabriele e di Pier, sono venuto a prenderti, sei libera, libera". Pensavo fosse finita, invece era finito solo il sequestro.

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