Angela Dogliotti Marasso:
Educare alla Nonviolenza Oggi. Uno Sguardo D'insieme

Tratto da la Nonviolenza e' in Cammino
[Ringraziamo Angela Dogliotti per averci messo a disposizione questo testo predisposto per il recente congresso del Movimento Nonviolento. Angela Dogliotti Marasso, rappresentante autorevolissima del Movimento Internazionale della Riconciliazione e del Movimento Nonviolento, svolge attivita' di ricerca e formazione presso il Centro studi "Sereno Regis" di Torino e fa parte della Commissione di educazione alla pace dell'International peace research association; studiosa e testimone, educatrice e formatrice, e' una delle figure piu' nitide della nonviolenza in Italia. Tra le sue opere segnaliamo particolarmente Aggressivita' e violenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino; il
saggio su Domenico Sereno Regis, in AA. VV., Le periferie della memoria, Anppia - Movimento Nonviolento, Torino - Verona 1999; e il recente volume in collaborazione con Maria Chiara Tropea, La mia storia, la tua storia, il nostro futuro, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2003]


In questi ultimi anni l'educazione alla pace si e' sempre piu' frequentemente identificata con l'educazione al conflitto e alla sua trasformazione nonviolenta.
E' certamente, questo, un processo molto positivo; sembra tuttavia giunto il momento di ampliare ulteriormente lo sguardo, per arricchire di nuovi percorsi la strada che porta alla costruzione di una cultura di pace e nonviolenza, nel decennio a cio' preposto anche dalle Nazioni Unite. Oggi, infatti, il conflitto a livello macro ha assunto due dimensioni sempre piu' evidenti e ineludibili, dalle quali non si puo' prescindere perche' comportano rilevanti conseguenze, anche in ambito educativo. Potremmo chiamare queste due dimensioni quelle della sostenibilita' economico-sociale e della sostenibilita' ambientale della globalizzazione neoliberista nel sistema-mondo.
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La sostenibilita' economico-sociale
Conosciamo tutti la situazione di grave disuguaglianza esistente tra i 4/5 degli abitanti del globo che consumano 1/5 delle risorse e il restante quinto che ne consuma i 4/5. Non e' questa la sede per fornire i dettagli, ma sappiamo che tale divario e' andato crescendo negli ultimi decenni, al punto che l'indice di sviluppo umano (Isu), indicatore utilizzato dal programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, calcolato in funzione di tre variabili (speranza di vita, livello di istruzione, reddito per abitante a parita' di potere d'acquisto), nel 2000 vedeva buona parte del continente africano tra lo 0,26 e lo 0,50, mentre Europa, Usa e Australia erano oltre lo 0,90 (ma bisogna ricordare che anche all'interno delle aree ricche e delle aree povere esistono grandi disuguaglianze, tra un "centro" privilegiato e "periferie" diseredate. Nei paesi ricchi, dove piu' ampia e' la fascia dei ceti medio-alti, e' in costante crescita l'area delle nuove poverta', mentre nei paesi poveri, a fronte di una ristretta elite privilegiata, la precarieta' delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione induce forti e inarrestabili movimenti migratori, cui assistiamo ormai da alcuni decenni).

Basterebbe un solo dato per evidenziare l'assurdita' e l'insostenibilita' di tale situazione: in un mondo che vede ogni anno "da 40 a 60 milioni di esseri umani morire di fame o di patologie legate alla malnutrizione" (1), circa la meta' delle risorse alimentari prodotte nei paesi ricchi viene
distrutta per i meccanismi protezionistici del "libero" mercato.
Il modello sudafricano dell'apartheid serviva per difendere i privilegi della minoranza bianca dalla maggioranza nera, costretta a vivere al di sotto del livello di sussistenza: la situazione internazionale puo' essere rappresentata oggi come una estensione a livello mondiale del sistema dell'apartheid. La minoranza privilegiata del globo puo' garantirsi la possibilita' di mantenere il proprio livello di vita e di consumo attraverso la guerra. La guerra e' oggi rilegittimata, dunque, perche' appare come un mezzo per imporre la globalizzazione neoliberista al resto del mondo e per allontanare la resa dei conti.
Dire no alla guerra significa percio' non solo affermare che essa e' in ogni caso un mezzo miope e illusorio per affrontare i conflitti, ma significa in primo luogo dire no anche a questo modello di sviluppo insostenibile e ingiusto.
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La sostenibilita' ambientale
Questo stesso modello di sviluppo e' caratterizzato dal mito della crescita illimitata. Gia' il Club di Roma aveva evidenziato nell'ormai storico testo "I limiti dello sviluppo" (1972) l'insostenibilita' di una economia fondata sulla crescita illimitata in un mondo finito. Ma il paradigma economico prevalente e' rimasto quello, e con la crescita quantitativa della produzione e dei consumi sono cresciuti a vista d'occhio i problemi ad essa collegati (smaltimento dei rifiuti, rarefazione delle risorse primarie come l'acqua, effetto serra, cambiamenti climatici...). Oggi alcuni grandi paesi come la Cina si affacciano a questo modello di sviluppo. Sul mercato cinese si prevede un forte aumento del tasso di vendita delle automobili private. Secondo il paradigma della crescita illimitata questa potrebbe essere una buona occasione per il rilancio di aziende in crisi come la Fiat, ad esempio, che si potrebbe assicurare una
fetta cospicua di mercato, o trovare manodopera a basso prezzo delocalizzando la produzione. Ma se i cinesi nei prossimi anni avranno in proporzione il nostro stesso consumo di automobili non vi e' chi non veda quale disastrose conseguenza cio' potrebbe avere a livello ambientale. Un modello di sviluppo energivoro e a forte impatto ambientale come il nostro non sarebbe sostenibile a livello planetario. Bisogna allora impedire ai cinesi di avere anche loro la loro utilitaria e al resto del mondo di raggiungere il livello di vita dei paesi ricchi?
Chi vuole difendere il nostro livello di vita contro la concorrenza delle maggioranze "in via di sviluppo" lo deve fare armi in pugno e comunque non puo' consentire che tutto il mondo abbia gli stessi standard di consumo dei paesi ricchi, pena l'invivibilita' del pianeta. Se si rifiutano simili prospettive non c'e' che una strada: quella del radicale cambiamento del nostro tipo di vita, di produzione e di consumo.
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Scegliere la semplicita' volontaria e un modello di economia eco-compatibile Essere per la pace oggi sempre piu' significa per noi, abitanti dei paesi ricchi, scegliere la strada della semplicita' volontaria e un modello di economia eco-compatibile, se vogliamo che condizioni di vita dignitose siano accessibili a tutti. Anche il terrorismo, presentato e vissuto con paura come la maggiore fonte di insicurezza in ogni parte del mondo, non puo' essere contrastato senza averne comprese le radici profonde, che trovano alimento nell'humus di questi squilibri globali, in questo fertile terreno si propagano rapidamente e non potranno essere disseccate fintanto che esso non sara' stato bonificato da profonde trasformazioni.
Ecco allora che da questi due cruciali processi del mondo contemporaneo scaturiscono chiare indicazioni su cio' che puo' voler dire oggi educare alla pace.
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Educare alla pace e alla nonviolenza
Per passare dal paradigma della crescita illimitata a quello della sostenibilita' ambientale e sociale, che non ha bisogno della guerra per la difesa di privilegi, disparita' e disuguaglianze e la rapina legalizzata di risorse, occorre agire a piu' livelli e coinvolgere attori e processi diversi.
Ci sono importanti trasformazioni strutturali che devono essere realizzate sia a livello locale, sia in ambito internazionale (comprese le riforme delle istituzioni internazionali come l'Onu). Ma c'e' un livello piu' profondo, quello culturale, che agisce anche attraverso i modelli di socializzazione e l'educazione dei giovani a nuove prospettive di futuro, ad essere sfidato da questi problemi, da tempo sul tappeto, ma oggi particolarmente rilevanti.
- La delegittimazione della guerra, la sua denuncia come prodotto del sistema militare-industriale, parte essenziale del modello di sviluppo che ha portato alla globalizzazione neoliberista, e' il primo passo di un percorso culturale orientato alla pace, passo che potremmo chiamare di
"educazione al disarmo". Cio' deve tradursi anche in un radicale rifiuto della cultura della violenza in tutte le sue forme, e mettere in discussione i miti e i presupposti del "pensiero armato" come l'idea di "nemico", la sindrome Dma (dualismo, manicheismo, armageddon) e la tendenza alla polarizzazione "noi" (buoni), "loro" (cattivi).
- La nonviolenza come scienza del conflitto offre poi le riflessioni e gli strumenti per trovare alternative alla violenza negli inevitabili conflitti che attraversano tutti i livelli della convivenza umana, da quelli micro, a quelli macro (educazione alla trasformazione nonviolenta dei conflitti).
- Il programma costruttivo ci puo' aiutare, infine, a immaginare, qui e ora, scelte di vita fondate sulla responsabilita' personale nei consumi, nel modo di vivere, nella vita civile e nella partecipazione politica, a partire dalla consapevolezza di queste grandi sfide che il mondo contemporaneo ci pone (educazione alla sostenibilita' e alla sobrieta').
Come tradurre tutto cio' in concreti ed efficaci percorsi di lavoro formativo e' il compito che ci attende.
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Note
1. Jeremy Rifkin, Ecocidio, Mondadori, Milano 2001.

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