La Trasformazione Nonviolenta dei Conflitti Interculturali
di Pasquale Pugliese

Tratto da La Nonviolenza e’ in Cammino

[Ringraziamo Pasquale Pugliese (per contatti: puglipas@interfree.it) per averci messo a disposizione questo suo articolo apparso su "Azione nonviolenta" di ottobre 2005 (per contatti con la redazione della bella rivista fondata da Aldo Capitini e diretta da Mao Valpiana:
e-mail:azionenonviolenta@sis.it, sito: www.nonviolenti.org).
Per esigenze legate alla grafica particolarmente semplificata e "povera" del nostro foglio abbiamo dovuto, come d'abitudine, rinunciare a riprodurre qui tout court le tabelle, le figure e gli schemi che integravano e arricchivano l'articolo, dando di esse ed essi una mera descrizione in forma di discorso continuo, per l'adeguata riproduzione rinviamo naturalmente all'edizione originale in rivista. Pasquale Pugliese, educatore presso i Gruppi educativi territoriali del Comune di Reggio Emilia, dove risiede, laureato in filosofia con una tesi su Aldo Capitini, e' impegnato nel Movimento Nonviolento, nella Rete di Lilliput ed in numerose iniziative di pace; e' stato il principale promotore dell'iniziativa delle "biciclettate nonviolente"]


Un tragico luglio
Ho scritto le righe che seguono nel tragico luglio del 2005 segnato dai 56
morti degli attentati di Londra e dagli oltre 80 di Sharm El Sheikh (oltre alle centina di civili iracheni che nessuno ormai conteggia piu'), dall'evocazione (o sarebbe meglio dire l'invocazione?) sui media dello "scontro di civilta'" e dalla messa a punto, in un parlamento mai tanto bipartisan, del giro di vite repressivo ed espulsivo nei confronti degli immigrati (in specie clandestini) come misura di sicurezza. E dire che il mese si era aperto con il decennale dell"eccidio di Srebrenica, in cui la tragedia (7.000 musulmani bosniaci uccisi in cinque giorni dai serbi cristiani) si era svolta a ruoli invertiti... Le ho scritte perche' credo che sia un terribile errore lasciarsi chiudere nella spirale di paura e violenza che tanti cattivi maestri, da una parte e dall'altra, stanno irresponsabilmente alimentando, in un macabro gioco globale in cui guerra, terrorismo e repressione si alimentano a vicenda. Mi pare invece importante fermarsi a riflettere su un elemento decisivo, quanto trascurato: i quattro attentatori suicidi di Londra erano figli di pakistani immigrati in Inghilterra all'inizio degli anni '90, gente che ha lavorato sodo, ha fatto di tutto per integrarsi e si e' costruita una famiglia e una posizione attraverso una vita dedicata al sacrificio per affermarsi socialmente. "Gli attentatori suicidi di Londra", come ha scritto a caldo Khaled Fouad Allam, "sono l'espressione estrema di una generazione euro-musulmana che e' 'borderline', che non si riconosce ne' nella cultura dei genitori ne' in quella occidentale. Essendo priva di riferimenti, e' alla ricerca di un'identita' che rischia di essere offerta solo dai cattivi maestri del jihadismo" (1). Ossia giovani invischiati nell'escalation di un personale conflitto interculturale che l'ideologia terrorista ha infine reso armi viventi. Insieme all'impegno per il ritiro dall'Iraq delle truppe occupanti - le cui atrocita' fanno parte dei video di propaganda dell'internazionale del terrore per il reclutamento dei nuovi "martiri" -, capire che cosa accade quando persone appartenenti a culture differenti con-vivono sullo stesso territorio, quali sono i conflitti profondi (anche in senso personale e temporale) che si aprono, e fare un investimento di idee e di risorse sulla loro mediazione e trasformazione nonviolenta, penso sia oggi il piu' importante passo politico e culturale verso la sicurezza di tutti. Questi appunti vogliono essere un piccolo contributo.
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Culture e conflitti
Se, come sostiene J. Galtung, gli stadi evolutivi nelle relazioni interculturali sono quattro - intolleranza, tolleranza o multiculturalismo passivo (societa' multiculturale), dialogo o multiculturalismo attivo (societa' interculturale), transculturalismo (societa' transculturale) (2) - il passaggio dall'uno all'altro non e' lineare ne' indolore. La societa' italiana negli ultimi quindici-venti anni sta attraversando un'accelerazione di complessita' dovuta al crescente ingresso di popolazione immigrata, proveniente dai diversi meridioni ed orienti del mondo, e l'incontro con persone portatrici di culture altre ha visto diverse velocita' nel passaggio da uno stadio all'altro delle relazioni reciproche: in alcuni contesti e situazioni sembra di essere fermi allo stadio dell'intolleranza, in altri si aprono spazi di dialogo che anticipano la societa' inter e trans-culturale. Poiche' le dinamiche globali del sistema-mondo lasciano prevedere una crescita costante delle presenza di cittadini stranieri sul territorio italiano, dobbiamo prefigurarci - nonostante le miope legislazione nazionale e le rozze politiche pseudosecuritarie che incentivano la xenofobia – una societa' che diventera' nel futuro prossimo progressivamente trans-culturale, ossia trasformata culturalmente dagli innesti apportati dalle differenti culture che sempre piu' abiteranno i "nostri" luoghi. L'incontro tra le differenze e' naturalmente generatore di conflitti, anzi - come dice bene Giuseppe Bugio - "incontriamo un conflitto ogni volta che incontriamo una differenza. Conflitto e' un altro nome della differenza" (3). E poiche' la cultura, come ci ricorda ancora Galtung, rappresenta il profondo, "il subcosciente collettivo di significati condivisi: le norme che non passano per il cervello che abbiamo in testa, ma si ancorano piuttosto al cervello che abbiamo nello stomaco" (4), e' facile prevedere un inasprimento dei conflitti interculturali che, se lasciati a se stessi, non governati - ne' mediati ne' trasformati - possono innescare processi incontrollabili di escalation. Si tratta allora di non nascondere o sottovalutare o demonizzare i conflitti interculturali, ma di attrezzarsi per affrontarli e trasformarli affinche' da potenziale terreno di scontro diventino feconda occasione di incontro.
A questo scopo le culture e le pratiche della nonviolenza mi sembra siano dotate di strumenti concettuali e metodologici adeguati, sia perche' ormai affinati sui molteplici fronti dei conflitti (diretti, strutturali e, appunto, culturali), sia perche' molte delle piu' significative esperienze di nonviolenza del secolo scorso si sono confrontate proprio con queste questioni. Gandhi ha elaborato il nucleo fondamentale del satyagraha in Sudafrica attraverso il confronto con il segregazionismo e poi, una volta in India, si e' misurato ed e' stato infine sopraffatto dal conflitto tra islamici ed induisti, e Martin Luther King ha fatto della lotta contro le leggi segregazioniste negli Usa lo scopo di una vita - solo per citare i casi piu' noti e paradigmatici. Da noi, Alex Langer, e' stata la voce che piu' di altre si e' levata come monito a porre attenzione alle questioni interculturali, anche in relazione all'esplosione della guerra nei Balcani: "esplosioni di razzismo, sciovinismo, razzismo, fanatismo religioso, ecc. sono tra i fattori piu' dirompenti e distruttive della convivenza civile che si conoscano (piu' delle tensioni sociali, ecologiche o economiche), ed implicano praticamente tutte le dimensioni della vita collettiva: la cultura, l'economia, la vita quotidiana, i pregiudizi, le abitudini, oltre che la politica o la religione. Occorre quindi una grande capacita' di affrontare e dissolvere la conflittualita' etnica" (5). Percio' e' utile provare a mettere insieme qualche elemento che ci aiuti a tracciare dei segni nonviolenti di orientamento sul terreno dei conflitti interculturali, senza alcuna pretesa di organicita'.
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Le arene dei conflitti interculturali
I conflitti interculturali, proprio perche' rimandano alla dimensione piu' profonda delle relazioni umane, hanno la caratteristica di potersi sviluppare sui diversi piani della scala quantitativa e dell'intensita' qualitativa. Usando la griglia elaborata da Arielli e Scotto (6), possiamo esemplificare alcune arene dei conflitti interculturali che ci danno il senso di quanto sia ampio lo spettro delle situazioni che possono rientrare in questa definizione:
[Segue una tabella che incrocia i dati lungo l'asse verticale secondo le
rubriche:
a) Conflitti intra-unita' e b) conflitti inter-unita';
e lungo l'asse orizzontale secondo le rubriche:
1) Persona (micro),
2) Gruppo
(meso),
3) Societa'/stati (macro);
dando luogo a alla seguente disposizione nel quadrante:
a1: Senso di spaesamento e separatezza tra la cultura di riferimento familiare e quella di accoglienza che vivono, soprattutto, i bambini e gli adolescenti di famiglie immigrate.
b1: Forme di pregiudizio e atteggiamenti di discriminazione che attraversano molte relazioni inter-individuali nei diversi ambiti della vita sociale.
a2: Diffidenza all'interno di alcune comunita' rispetto ai membri del gruppo maggiormente integrati (o assimilati) alla cultura ospitante.
b2: Tensioni tra comunita' culturali differenti che abitano lo stesso territorio (es.: scontri tra bande giovanili composte per nazionalita' di riferimento).
a3: Rivendicazioni civili politiche e sociali da parte delle minoranze religiose, culturali e nazionali presenti sul territorio dello Stato.
b3: Guerre e terrorismo internazionale interpretate come Scontro di civilta' (Samuel Huntington), ossia la "profezia che si autoavvera" (come evidenziano efficacemente Arielli e Scotto, "gli interventi statunitensi e occidentali nel Medio Oriente vengono sempre piu' percepiti nei termini dello "scontro tra civilta'", e testi come quelli di Huntington non si limitano a "chiarire" il fenomeno, ma contribuiscono in parte a produrlo, perche'' incentivano una cultura dello scontro" (7))]
Apparentemente distinte, le diverse - realistiche – rappresentazioni proposte hanno un filo che le lega. Per esempio, credo che sarebbe molto interessante ricostruire la storia del processo di dis-integrazione degli attentatori suicidi nella metropolitana di Londra, cittadini britannici a tutti gli effetti. Che esito hanno avuto i diversi conflitti interculturali che hanno attraversato le loro storie di vita personali?
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Comunicazione e cornici culturali
"Non si puo' non comunicare" afferma il primo assioma di Watzlawick nella Pragmatica della comunicazione umana (8). Ossia anche quando la nostra bocca tace il nostro corpo parla, attraverso la postura, l'espressione del viso, la vicinanza, la gesticolazione ecc. Nel continuo flusso comunicativo coesistono, infatti, due livelli di espressione, quello esplicito del contenuto detto e quello implicito, simbolico, sulla relazione tra i comunicanti che fornisce le informazioni su come interpretare il contenuto. E' questa la meta-comunicazione, la cui interpretazione corretta e' la condizione indispensabile per lo svolgimento di qualsiasi comunicazione efficace. Al di la' delle diversita' di codici linguistici e' infatti proprio la diversita' dei codici simbolici che differenzia sostanzialmente la comunicazione intra-culturale da quella inter-culturale. Come spiega Graziella Favaro, "nella prima cio' che tutti diamo per scontato in quanto membri di uno stesso contesto culturale ci aiuta a comprenderci l'un l'altro; nel secondo caso cio' che diamo per scontato puo' ostacolare o rendere piu' difficile la comunicazione reciproca" (9). Infatti, ciascuno dei comunicanti di differente cultura utilizza competenze comunicative diverse, efficaci e pertinenti nei propri contesti di riferimento, ma probabilmente inefficaci - inopportuni o disorientanti o addirittura controproducenti - in altri contesti. E cio' e' spesso causa di piccoli e grandi "incidenti interculturali" che possono dare luogo all'avvio di conflitti su tutte le arene. "A Trinidad, dopo aver inutilmente tentato di chiamare gli indigeni presso la nave mostrando degli oggetti, Cristoforo Colombo cerca di attirarli
improvvisando una 'fiesta'. Cosi' scrive nel diario: - Feci salire sul castello di poppa un tamburino che suonava e alcuni ragazzi che ballavano, pensando che si sarebbero avvicinati a vedere la festa. La risposta degli indigeni non si fa attendere: - Appena ebbero sentito suonare e visto ballare, lasciarono i remi e posero mano agli archi e li incoccarono e ciascuno di essi imbraccio' il suo scudo e incominciarono a tirarci frecce" (10).
Lo stesso evento e' letto e interpretato attraverso le diverse "cornici culturali" di cui ciascuno e' parte, perche' assorbite fin da bambino all'interno della propria comunita': la danza e' segno di festa all'interno di una cornice e dichiarazione di guerra nell'altra. Le cornici sono percio' le "premesse implicite" attraverso le quali diamo senso, operiamo nel mondo e ci relazioniamo con gli altri, dandole per scontate. Al loro interno vi sono diversi piani di profondita' decrescente in cui ciascuno illumina e indirizza l'altro:
a) il piano ontologico dei valori;
b) il piano delle rappresentazioni e delle norme;
c) il piano dei comportamenti e delle pratiche culturali (11).
Ma nelle relazioni interculturali fermarsi al comportamento agito c), decodificandolo reciprocamente secondo i propri piani a) e b) significa condannarsi all'incomunicabilita' e poi all'ostilita'.
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Shock culturali ed empatia
Come per altre tipologie di conflitti, anche in quelli interculturali – sia che ci troviamo coinvolti direttamente sia che operiamo come terze parti (perche' insegnanti, educatori, operatori sociali o operatori di pace...) - per lavorare alla loro trasformazione costruttiva, e' necessario tenere presenti i tre elementi necessari della trasformazione dei conflitti: empatia, creativita' e nonviolenza (12).
Nel caso degli incidenti interculturali - eventi critici definiti anche shock culturali - particolarmente importante, e anzi indispensabile punto di partenza, e' l'empatia, non solo come elemento caratterizzante la "personalita' nonviolenta" (13), ma soprattutto come, diciamo cosi', approccio epistemologico alla relazione: ossia disposizione a mettersi dal punto di vista dell'altro, a provare a guardare le cose dalla sua angolazione culturale. Avere un approccio empatico all'altro, al differente da noi, ci consente infatti di avviare un processo di apertura e ampliamento della conoscenza che si sviluppa attraverso tre tappe:
- Prima tappa: prendere coscienza dalle nostre cornici
Le coordinate culturali nelle quali siamo immersi fin dalla nascita (e che condizionano e influenzano i comportamenti e le pratiche) ci appaiono come naturali fino a quando non veniamo a contatto (o in conflitto) con altre coordinate e cominciamo a capire che, queste come quelle, sono un prodotto complesso di elaborazione storica. Sono una cornice che da' senso agli avvenimenti del mondo, analogamente a quanto fanno le cornici di cui sono portatori gli altri. Percio' l'incontro con il differente da noi ci consente di conoscere meglio noi stessi.
- Seconda tappa: avviare il decentramento cognitivo
A questo punto comincia il superamento dell'egocentrismo - che Piaget indica come fase transitoria del bambino piccolo, che e' in grado per esempio di comprendere chi e' straniero per lui ma non che anche lui e' straniero ad altri, e che invece sul piano culturale si prolunga, a volte, per tutta la vita e puo' diventare ideologia (etnocentrismo) - e si da' l'avvio al decentramento cognitivo. Ossia alla capacita' di leggere gli eventi anche a partire da codici culturali differenti dai nostri, "uscendo" in qualche modo dalla nostra cornice.
Percio' l'incontro con il differente da noi aiuta ad aumentare il proprio campo visivo.
- Terza tappa: operare per "doppie visioni"
Infine siamo pronti, all'interno di un incidente culturale piccolo o grande che sia, ad operare non per semplice azione-reazione (aut-aut) ma per doppie visioni (et-et), cercando di dare all'evento critico diverse interpretazioni, senza giudizio di valore, per comprenderne le ragioni a partire dalle differenti cornici di riferimento. Due litiganti vengono portati davanti ad un giudice conosciuto da tutti per la grande saggezza. Il giudice, dopo aver ascoltato il primo litigante, commenta: "Hai ragione". Poi, sentito anche il secondo, anche a lui dichiara: "Hai ragione". Si alza uno dal pubblico che esclama: "Ma Eccellenza, non possono aver ragione entrambi". Il giudice ci pensa su un attimo e poi, serafico: "Hai ragione anche tu". A commento di questa storiella Marianella Sclavi scrive: "il senso comune e la logica classica ci dicono che se tutti hanno ragione non si e' piu' in grado di decidere niente, si rimane bloccati. Questo e' vero quando operiamo in 'sistemi semplici' entro i quali prevalgono le stesse premesse implicite. Invece nel dialogo interculturale e piu' in generale nella gestione creativa dei conflitti l'assumere che tutti hanno ragione e' la condizione per fare dei passi avanti" (14). Percio' l'incontro con il differente da noi e' un'indispensabile tappa verso la ricerca della verita'.
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Stereotipo, pregiudizio, discriminazione
Un ostacolo che puo' bloccare il processo di empatia cognitiva, impedendo cosi' di operare efficacemente alla trasformazione dei conflitti interculturali con creativita' e nonviolenza, e' il processo che dalla "categorizzazione" porta allo stereotipo e poi al pregiudizio e alla discriminazione. Vediamo velocemente di che si tratta. I manuali di psicologia sociale spiegano che classificare alcune persone come "stranieri" e' parte di quel processo di categorizzazione cognitiva in base al quale gli individui ordinano e semplificano l'insieme dei dati che proviene dal mondo esterno, al fine di dare senso alla multiforme realta' e poter agire al suo interno. Parte integrante di questo processo sono i meccanismi di "semplificazione" e "distorsione percettiva": vengono enfatizzati i dati che consentono di inserire un elemento in una determinata categoria (mentre sono depotenziati quelli che porrebbero difficolta' d'inserimento) in modo da realizzare per ciascun dato della realta' il
"miglior adattamento" possibile. Per l'inserimento nella categoria "straniero", per esempio, si enfatizza - tra le altre cose - la non conoscenza della lingua italiana, minimizzando le differenti competenze linguistiche di ogni singolo "straniero". Naturalmente la costruzione delle categorie non e' neutra ma avviene all'interno del processo di apprendimento sociale delle cornici culturali, per cui siamo portati a leggere il mondo attraverso le categorie proprie della nostra cultura di riferimento. Quando ad una categoria sociale si attribuiscono poi determinate caratteristiche - a partire dalla conoscenza diretta o indiretta di qualche membro di essa che e' portatore di quella caratteristica, estendendola quindi a tutti i membri della categoria e infine a ciascuno di essi – si schematizza e cristallizza una realta' in movimento, creando lo stereotipo. E' questa una forma di scorciatoia cognitiva, la generalizzazione, che ci induce a considerare ciascuno non in quanto persona singola ma solo come membro del gruppo di appartenenza. Si parla poi di pregiudizio quando allo stereotipo si aggiungono giudizi di valore accompagnati da emozioni, che rimangono inalterati anche di fronte a nuovi elementi di conoscenza. Come spiega Aluisi Tosolini: "se riteniamo, pregiudizialmente, che ad un dato gruppo di persone ben si attaglia l'etichetta di 'ladri' (per esempio i rom), ben difficilmente cambieremo opinione di fronte a persone che in tutta evidenza si comportano in modo difforme dal nostro pregiudizio. E se proprio non riusciamo a reggere la dissonanza cognitiva generata da un comportamento impensato (per esempio un ragazzo rom che ci insegue per restituirci il portafoglio perso o la borsa dimenticata) possiamo fare ricorso alla logica dell'eccezione. Che, al solito, conferma la regola" (15). Quando dallo stereotipo e dal pregiudizio si passa all'azione conseguente ecco che entriamo nel campo della discriminazione vera e propria, individuale, e/o sociale e/o politica. E gli esempi nella storia e nella
cronaca non mancano (16).
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Nonviolenza e mediazione culturale
Nel contesto italiano attuale non siamo ancora giunti a forme di discriminazione propriamente detta, almeno diffusa in dimensioni socialmente significative, percio' l'intervento nonviolento nei conflitti interculturali puo' ancora essere considerato di carattere preventivo. Se infatti utilizziamo come strumento di analisi il triangolo dei conflitti di Galtung (17),
[La figura qui inserita nel testo rappresenta un triangolo che ha come punto di vertice "B comportamento" e come punti angolari alla base "A atteggiamento" e "C contraddizione", ed e' tagliato a meta' da una linea orizzontale denominata "linea della latenza"] vediamo che i tre elementi che compongono tutti i conflitti (diversamente combinati a seconda che si tratti di conflitti semplici o complessi, con due o piu' attori ecc.), sono A) l'atteggiamento, ossia la disposizione e i presupposti anche individuali, C) la contraddizione, ossia il contenuto, il problema, e B) il comportamento (in inglese behavior), l'azione messa in pratica. Gli elementi A e C sono latenti, ossia spesso non emergono con evidenza, mentre l'elemento B e' manifesto. In questa delicata fase di trasformazione sociale e culturale del nostro paese, i conflitti interculturali sono caratterizzati da una forte presenza dei due elementi conflittuali latenti: gli atteggiamenti, per esempio sui piani della categorizzazione, dello stereotipo e del pregiudizio, e le contraddizioni, rappresentate dai molti incidenti/shock culturali. Sono dunque presenti, in maniera crescente, entrambi i presupposti di base necessari per far compiere ai conflitti il balzo - piu' spesso di quanto ancora non avvenga - dal piano della latenza a quello del comportamento, che potrebbe manifestarsi anche in forme di discriminazione e violenza. Se a queste condizioni infatti aggiungiamo il martellamento sempre piu' assordante sul pericolo islamico che svolgono parte degli intellettuali, della stampa e del mondo politico e specularmente la propaganda jihadista che si diffonde anche in alcune moschee italiane, che armano gli animi di sentimenti xenofobi e guerrafondai da un lato e violenti e fondamentalisti dall'altro, e' evidente che lo scenario della diffusione di comportamenti violenti sulle diverse scale - dalla discriminazione sui banchi di scuola, al razzismo culturale, al terrorismo suicida - puo' farsi sempre piu' concreto, anche in Italia. La partecipazione italiana alla guerra e le organizzazioni terroriste internazionali buttano intanto benzina sul fuoco... Per questo e' importante intervenire con la nonviolenza prima che cio' accada, e bisogna, come direbbe Danilo Dolci, fare presto (e bene). In questo senso un'esperienza che, a mio parere, andrebbe fortemente rilanciata, ri-motivata e sostenuta e' quella dei mediatori culturali. Attualmente si tratta di una incerta categoria professionale, poco numerosa, con una formazione insufficiente e spesso usata dai servizi sociali, educativi e sanitari come mera riserva di interpreti e traduttori. E invece l'investimento politico e sociale sulla mediazione per la trasformazione dei conflitti interculturali e' un terreno d'intervento cruciale, al fine di rendere meno traumatico, per quanto possibile, l'inevitabile passaggio alla societa' trans-culturale. Consentendo di operare inoltre sul serio in funzione della sicurezza di tutti, che e' data non dalle severe leggi repressive ma dalle buone pratiche relazionali. Si tratta di formare molti piu' mediatori proprio tra i giovani delle diverse comunita' culturali e nazionali presenti nelle nostre citta', e nei loro percorsi di studio bisognerebbe inserire specificamente la nonviolenza, come filosofia e metodo di lettura e trasformazione dei conflitti. Si tratterebbe di farne quei "costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera, veri e propri 'traditori della compattezza etnica' che pero' non si devono mai trasformare in transfughi", secondo il profilo "professionale" che tracciava Alex Langer (18). In questa direzione qualcosa si comincia a muovere a livello di master universitario (19), ma e' insufficiente. Cio' di cui c'e' bisogno e' una moltiplicazione delle persone e dei luoghi capaci di sostenere la mediazione interculturale nel basso; capaci di costruire ponti, tessere reti e ricostruire relazioni interrotte tra le persone e le comunita' negli interstizi sensibili dei molti territori locali segnati dai conflitti, dentro le nostre citta' e i nostri quartieri. Insomma l'"aggiunta nonviolenta" alla prevenzione e mediazione dei conflitti interculturali, nei livelli micro e meso-sociale, si prospetta come un contributo ideale e metodologico alla costituzione di un corpo civile interculturale di mediatori esperti in trasformazione nonviolenta dei conflitti.
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Schema n. 1
a) Piano ontologico e dei valori:
- appartenenza religiosa
- concezione della vita/della morte
- miti di fondazione
- sfera pubblica/privata
- autorita'/liberta' individuale
- solidarieta'
- tabu' e pudore
- concezione della natura
b) Piano delle rappresentazioni e delle norme
- modalita' di apprendimento e di comunicazione
- rapporto tra oralita' e scrittura
- diritti e doveri degli individui: leggi codificate e tradizioni
- concezione del tempo, spazio, corpo
- rappresentazione di malattia e salute
- concezione della famiglia
- relazioni interpersonali: uomo e donna, anziani e giovani, genitori e figli
- concezione del lavoro, dei beni e del denaro
c) Piano dei comportamenti e delle pratiche culturali
- messaggi verbali
- messaggi non verbali
- linguaggio del corpo
- modalita' di occupare lo spazio
- modalita' di gestire il tempo
- modalita' di stabilire relazioni interpersonali; saluto, contatto, distanza...
- elaborazione di progetti individuali
- strategie di apprendimento
- cibo, abbigliamento, segni esteriori...
[Da Graziella Favaro, Manuela Fumagalli, Capirsi diversi. Idee e pratiche di mediazione interculturale, Carocci, Roma 2004]
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Schema n. 2
Radiografia di un pregiudizio negativo
Quando vedi uno zingaro:
- penso: sporco e ignorante, mi vuole fregare (componente cognitiva)
- sento: paura (componente emotiva)
- attuo: cambio marciapiede, scappo (componente comportamentale)
Sequenza realizzata: stereotipo, pregiudizio, discriminazione
[Da Da Analisis y resolucion de conflictos interculturales, Assoc. Amani. Ed. Popular, Madrid 1995, in italiano in: Io non vinco tu non perdi, Unicef, Roma 2004]
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Note
1. "Il gazzettino on line", sabato 16 luglio 2005.
2. "Cem-Mondialita'", febbraio 2004, dossier: Pace nel pluriverso, pace e cultura profonda.
3. "Verso un'ecologia dei conflitti. Gregory Bateson e la gestione pedagogica delle differenze", pubblicato nel volume di Gian Luigi Brena (a cura di), Etica pubblica ed ecologia, Edizioni Messaggero, Padova 2005.
4. "Cem-Mondialita'", febbraio 2004, dossier: Pace nel pluriverso, pace e cultura profonda.
5. Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica, oggi si puo' leggere su "Azione nonviolenta", giugno 2005.
6. Emanuele Arielli, Giovanni Scotto, Conflitti e mediazione, Bruno Mondadori, Milano 2004.
7. Ivi.
8. Paul Watzlawick et alii, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1971.
9. Duccio Demetrio, Graziella Favaro, Didattica interculturale, Franco Angeli, Milano 2002.
10. Cit. in Giuseppe Mantovani, L'elefante invisibile. Alla scoperta delle differenze culturali, Giunti, Firenze2005.
11. Vedi nel dettaglio i diversi piani nello schema n.1.
12. Vedi Johan Galtung, La trasformazione nonviolenta dei conflitti, Ega, Torino 1998.
13. Vedi Giuliano Pontara, La personalita' nonviolenta, Ega, Torino 1996.
14. Marianella Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili, Bruno Mondadori, Milano 2002.
15. www.pavonerisorse.it/intercultura/pregiudizio.htm
16. Vedi schema n. 2.
17. Johan Galtung Pace con mezzi pacifici, Esperia, Milano 1996.
18. Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica, cit.
19. Per esempio il master in "gestione dei conflitti interculturali e interreligiosi" dell'Universita' di Pisa.

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