Il Futuro della Nonviolenza
di Nanni Salio

Tratto da La nonviolenza e' in cammino

[Ringraziamo Nanni Salio (per contatti: regis@arpnet.it) per averci messo a disposizione questo suo saggio apparso - con qualche variante nelle note - nel Grande dizionario del XXI secolo, Utet, Torino 2005. Giovanni (Nanni) Salio, torinese, nato nel 1943, ricercatore nella facolta' di Fisica dell'Universita' di Torino, segretario dell'Ipri (Italian Peace Research Institute), si occupa da alcuni decenni di ricerca, educazione e azione per la pace, ed e' tra le voci piu' autorevoli della cultura nonviolenta in Italia; e' il fondatore e l'attuale presidente del Centro studi "Domenico Sereno Regis", dotato di ricca biblioteca ed emeroteca specializzate su pace, ambiente, sviluppo (sede: via Garibaldi 13, 10122 Torino, tel. 011532824 - 011549005, fax: 0115158000, e-mail: regis@arpnet.it, sito: www.cssr-pas.org).
Opere di Giovanni Salio: Difesa armata o difesa popolare nonviolenta?, Movimento Nonviolento, II edizione riveduta, Perugia 1983; Ipri (a cura di Giovanni Salio), Se vuoi la pace educa alla pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1983; con Antonino Drago, Scienza e guerra: i fisici contro la guerra nucleare, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984; Le centrali nucleari e la bomba, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984; Progetto di educazione alla pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1985-1991; Ipri (introduzione e cura di Giovanni Salio), I movimenti per la pace, vol. I. Le ragioni e il futuro, vol. II. Gli attori principali, vol. III. Una prospettiva mondiale, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1986-1989; Le guerre del Golfo e le ragioni della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1991; con altri, Domenico Sereno Regis, Satyagraha, Torino 1994; Il potere della nonviolenza: dal crollo del muro di Berlino al nuovo disordine mondiale, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995; Elementi di economia nonviolenta, Movimento Nonviolento, Verona 2001; con D. Filippone, G. Martignetti, S. Procopio, Internet per l'ambiente, Utet, Torino 2001]

Il futuro ha radici antiche
E' celebre l'affermazione di Gandhi, secondo cui i principi della nonviolenza sono "antichi come le colline": un'affermazione che trova testimonianza nel fatto che tutte le religioni sono portatrici di un messaggio di nonviolenza. In alcuni testi esso e' formulato in maniera esplicita, come nel Saman Suttam, il canone jainista che, nel capitolo sui "precetti della nonviolenza" recita: "Caratteristica essenziale di ogni saggio e' non uccidere nessun essere vivente. Senza dubbio, si devono comprendere i due principi della nonviolenza e dell'eguaglianza di tutti gli esseri viventi" (Saman Suttam, Mondatori, Milano 2001, p.67). E' vero d'altro canto che questi precetti debbono essere letti alla luce dell'ultima parte del canone, che tratta della "teoria jainista della relativita' conoscitiva" (un tema di grande attualita' e rilevanza epistemologica, che probabilmente ebbe una grande influenza sulla formazione del giovane Gandhi) e che, piu' in generale, in molti altri testi religiosi il messaggio appare ambiguo, commisto con affermazioni che giustificano la guerra e l'intolleranza. Resta indubitabile, in ogni caso, che e' solo nel Novecento che, a cominciare dal messaggio e dall'azione gandhiana, la nonviolenza "non rifiutando ogni forma di forza e di pressione", ma diventando essa stessa una concreta ed efficace forma di lotta e di pressione, acquista dimensione e valenza politica.
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Che cos'e' la nonviolenza
Si possono distinguere due principali concezioni della nonviolenza. La prima, l'ahimsa, indica letteralmente il non nuocere, il non uccidere, l'innnocentia. Essa induce un significato prevalentemente di astensione, di passivita', che riguarda la sfera personale, soggettiva. Dal punto di vista morale si richiama al principio del "non commettere" violenza. Ma la nonviolenza gandhiana introduce esplicitamente una seconda concezione, il satyagraha, intesa come "forza della verita'", nonviolenza attiva, intervento e lotta contro ogni ingiustizia. Essa si richiama al principio morale del "non omettere", non permettere che altri commettano violenza e ingiustizia. Come ci ricorda Aldo Capitini, la nonviolenza "e' fondamentalmente un principio etico, l'essenza del quale e' una tecnica sociale di azione... L'introduzione del metodo gandhiano in qualsiasi sistema sociale politico effettuerebbe necessariamente modificazioni di quel sistema. Altererebbe l'abituale esercizio del potere e produrrebbe una ridistribuzione e una nuova strutturazione dell'autorita'. Esso garantirebbe l'adattamento di un sistema sociale politico alle richieste dei cittadini e servirebbe come strumento di cambiamento sociale" (Aldo Capitini, Le tecniche della nonviolenza, Feltrinelli, Milano, p. 35). Ma l'intervento, l'interposizione e la lotta nonviolenta in situazioni conflittuali acute debbono essere attuati rispettando il principio generale dell'unita' tra mezzi e fini. Contro il realismo machiavellico del "fine che giustifica i mezzi", vale il principio, in ampia misura verificato pragmaticamente nel corso della storia, che i fini sono gia' contenuti nei mezzi. L'azione politica deve tener conto della fallibilita', delle conseguenze perverse dell'agire umano, della imprevedibilita' del corso dell'azione, che provocano quella eterogenesi dei fini, e dei mezzi, che si e' verificata piu' volte nel corso del Novecento (Marco Revelli, Novecento, Einaudi, Torino 1999). Tra i lavori teorici sui fondamenti etici della nonviolenza spiccano i contributi del filosofo della morale Giuliano Pontara, uno dei piu' autorevoli studiosi della nonviolenza gandhiana (si vedano: Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino 1973 e 1996, voci gandhismo, nonviolenza, in Dizionario di politica, Utet, Torino 2003). Egli distingue tra nonviolenza pragmatica e negativa, e nonviolenza dottrinale e positiva. Nella prima, l'azione e' caratterizzata dalla semplice assenza di violenza diretta (il mezzo) ma e' compatibile con qualsiasi fine. Nella seconda ci si propone di "dare una risposta adeguata e comprensiva ai nuovi e gravi problemi posti dall'enorme sviluppo degli armamenti, dall'escalation della violenza politica, sia nelle forme del terrorismo internazionale sia in quelle della 'nuova guerra', dalla crisi dello Stato nazionale, dai drammatici cambiamenti verificatisi nel sistema internazionale in seguito alla fine della guerra fredda, dallo sviluppo incontrollato dell'industrialismo (non solo capitalistico) e dalle conseguenze che esso puo' avere su interessi vitali di molte generazioni future, nonche' dall'ognor crescente divario fra popolazioni povere e popolazioni ricche" (p. 630). Nella concezione gandhiana, egli individua inoltre tre tipi di nonviolenza: "la nonviolenza del forte, la nonviolenza del debole e la nonviolenza del codardo. Con quest'ultima espressione (Gandhi) intende denunciare l'atteggiamento di coloro che si rifiutano di lottare per i propri legittimi interessi, o per proteggere i legittimi interessi di altri, per pura vigliaccheria o per altri motivi prettamente egoistici... Per nonviolenza del debole, Gandhi intende, invece, la posizione di coloro che in una situazione conflittuale acuta non ricorrono all'uso della violenza per la semplice ragione che non dispongono dei mezzi necessari per condurre la lotta violenta... Da ultimo, la nonviolenza del forte e' la posizione di coloro i quali, pur avendo i requisiti necessari... all'uso della violenza... tuttavia si rifiutano di ricorrere a tale metodo di lotta per determinate ragioni di ordine morale e in quanto ritengono di poter condurre la lotta in modo efficace con metodi diversi" (Pontara, p. 383).
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L'eredita' di Gandhi e la diffusione globale della nonviolenza
Come gia' si e' osservato e' solo con Gandhi che la nonviolenza assume esplicitamente anche una dimensione politica e comincia ad essere sperimentata su larga scala: dapprima in India, poi nelle lotte per i diritti civili negli Usa con Martin Luther King, in Sudafrica con Nelson Mandela e Desmond Tutu, nelle Filippine (1986) per cacciare Marcos, nei paesi dell'Est europeo per liberarsi dal giogo dell'impero sovietico, imploso nel 1989, nella lotta secolare del movimento delle donne, nelle lotte in difesa dell'ambiente, nella difesa dei diritti umani violati, e cosi' via in un crescendo che attraversa tutto il Novecento e continua ai giorni nostri. Sull'onda di questi sviluppi, verso la fine degli anni '50 del secolo scorso nascono le prime scuole di peace research, ispirate al paradigma della pace positiva e della nonviolenza, con il contributo determinante del ricercatore norvegese Johan Galtung. Una decina d'anni dopo, Gene Sharp pubblica il suo famoso lavoro sulla Politica dell'azione nonviolenta (Edizioni Gruppo Abele, Torino 1986-1995) che verra' tradotto in decine di lingue e ispirera' gli attivisti dei movimenti per la pace e per la nonviolenza in ogni angolo del mondo. La comunita' di ricercatori, attivisti ed educatori che si richiamano esplicitamente alla nonviolenza si e' man mano estesa sino a costituire importanti reti internazionali che operano sia in campo accademico, dall'alto, sia a livello non istituzionale, dal basso (www.transcend.org, www.transnational.org).
In sintesi, la storia del XX secolo puo' essere interpretata sia come l'esempio della massima violenza, sia come l'inizio di una nuova era, quella delle lotte nonviolente di massa. La documentazione su queste forme di lotta e sulla loro efficacia e' impressionante, tanto da indurre un numero crescente di studiosi e di istituti di ricerca a sottolinearne la rilevanza strategica (United States Institute of Peace, Strategic Nonviolent Conflict Lessons from the Past. Ideas for the Future, special report 87, www.usip.org/pubs/specialreports/sr87.pdf) nel condurre lotte di liberazione, abbattere tiranni, ripristinare e difendere la democrazia, creare condizioni di vita piu' giuste e ridurre la violenza strutturale. Richard Falk (2003) non ha dubbi nel sostenere che "studiosi e accademici stanno sempre piu' considerando gli obiettivi dell'abolizione della guerra e della geopolitica della nonviolenza come gli unici fondamenti sostenibili dell'ordine mondiale... Se il momento gandhiano si realizzera', esso dovra' preoccuparsi sia della violenza delle armi sia di quella delle strutture ingiuste di dominazione e sfruttamento". La letteratura su Gandhi e sulla sua eredita' e' sterminata e crescente: l'umanita' e' alla disperata ricerca di una via d'uscita dal vicolo cieco e dalla follia della guerra preventiva e permanente (N. Radhakrishnan, Gandhi in the Globalised Context, www.transnational.org/forum/meet/2003/Radhakrishnan_Gandhi.htm, www.sarvodayatrust.org)
E tuttavia quella di Gandhi e' un'eredita' controversa. I movimenti integralisti che in India stanno conoscendo un momento di pericolosa affermazione, anche politica, non si riconoscono nel suo insegnamento, e lo accusano di aver travisato l'autentico messaggio dell'induismo. Anche alcuni esponenti del movimento dalit (i senza casta, gli harijan, figli di Dio, come li chiamava Gandhi) sono critici nei suoi confronti, poiche' ritengono che egli non abbia affrontato con sufficiente radicalita' la questione delle caste (Roy, 2004). D'altro canto, osserviamo come l'eredita' di Gandhi appartiene sempre piu' a tutta quanta l'umanita' e oggi viene raccolta da quel movimento dei movimenti che sta rinnovando le societa' civili nazionali trasformandole in una vera e propria societa' civile globale transnazionale (Kaldor, 2004). Questa terza onda di cui parla Michael Nagler (2003) e' caratterizzata non solo dall'ampiezza dei nuovi movimenti che, dopo il 15 febbraio 2003, qualcuno ha definito la seconda superpotenza mondiale, ma dal concretizzarsi della capacita' di intervento e interposizione nonviolenta in situazioni di conflitto acuto da parte di gruppi, organizzazioni, movimenti di base. E' il sogno delle "Shanti Shena", i corpi civili di pace che Gandhi immagino' di poter realizzare sin dagli anni trenta. Ora questo sogno si sta concretizzando con le Pbi (Peace Brigades International), con associazioni quali Global Exchange, The Ruckus Society, International Solidarity Movement, che hanno la loro base negli Stati Uniti, la rete internazionale delle Donne in nero e centinaia di altri organismi di base, capaci di intervenire attivamente nelle dinamiche conflittuali per prevenire la violenza, riconciliare dopo la violenza, interporsi durante la violenza (Mathews, 2001). Sino a giungere all'ambizioso progetto internazionale delle Nonviolence Peace Force che si propone di realizzare un contingente permanente di duemila attivisti pronti a intervenire nelle varie aree del mondo, come gia' stanno facendo in Sri Lanka, Colombia, Palestina.
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Quale futuro
Riflettendo sul futuro della democrazia, qualche anno fa Norberto Bobbio scriveva (1991): "sia ben chiaro, non faccio alcuna scommessa sul futuro: la storia e' imprevedibile. Se la filosofia della storia e' in discredito, dipende dal fatto che non c'e' previsione, annunciata dalle diverse filosofie della storia succedutesi nel secolo scorso e all'inizio di questo, che non sia stata smentita dalla storia realmente accaduta". Parole simili si possono ripetere per "il futuro della nonviolenza": non siamo in grado di fare delle previsioni e in questo campo "tutte le forme ideali [appartengono] non alla sfera dell'essere ma a quella del dover essere". Bobbio osserva inoltre che nel corso del Novecento e' avvenuto un significativo aumento del numero di stati democratici, con una corrispondente democratizzazione del sistema internazionale delle Nazioni Unite, secondo una progressione ideale che avrebbe portato il sistema internazionale da uno stato di anarchia a una condizione di equilibrio delle grandi potenze, al predominio di una potenza egemone e infine a un sistema internazionale democratico condiviso. Se questa successione si rivelasse valida sul piano storico, il passo successivo dovrebbe essere quello verso la nascita di societa' nonviolente e di un sistema internazionale nonviolento. Se il sistema internazionale si e' democratizzato, cosa e' avvenuto delle guerre? Sono diminuite o aumentate? Che significato dobbiamo attribuire all'attacco terrorista dell'11 settembre 2001 e alle successive reazioni degli Stati Uniti in Afghanistan e in Iraq? Dall'esame dei dati relativi agli ultimi quindici anni, dopo la fine della guerra fredda, scaturisce un paradosso: stando alla percezione diffusa, le guerre sono aumentate, mentre i dati elaborati dagli analisti affermano un sostanziale congelamento, o addirittura una diminuzione (Labanca, 2003). Piu' in generale, afferma Richard Falk, "in questo momento della storia umana, sembra che il bicchiere non sia ne' tutto pieno ne' tutto vuoto", ma forse stiamo vivendo un "nuovo momento gandhiano", pur di fronte alla scalata innescata dagli eventi dell'11 settembre 2001. Questo parere e' condiviso da altri autori che interpretano questo evento come una biforcazione. Possiamo procedere verso l'abisso, seguendo il realismo di ieri della violenza che diventera' la ricetta per la catastrofe di domani, oppure considerare il trauma come possibilita' che apre nuove forme di azione: l'utopia di ieri della nonviolenza diventa il realismo di oggi.
Interrogarsi sul futuro della nonviolenza significa anche chiedersi esplicitamente se la guerra ha un futuro. Dato che il XX secolo e' stato il piu' sanguinoso nella storia umana, e che guerre di varia intensita' continuano a uccidere e ferire centinaia di migliaia di persone, prevalentemente civili, chiedersi se la guerra ha un futuro puo' sembrare ridicolo. Ma questo interrogativo e' stato sollevato da troppe persone
autorevoli, in tempi diversi e con argomentazioni differenti, per apparire peregrino. Se lo pose Albert Einstein, all'inizio dell'era nucleare. Se lo posero in molti dopo la seconda guerra mondiale (Bauer, 1994), e dopo il 9 novembre 1989, folle festanti gridarono "mai piu' muri, mai piu' guerre". Saggiamente, Gandhi sosteneva che "o il mondo progredisce con la nonviolenza, oppure perira' con la violenza". Gli scettici ribaltano l'interrogativo e preconizzano un nuovo secolo di guerre, a meno che non avvengano profondi cambiamenti nella politica internazionale delle grandi potenze, in particolar modo degli Stati Uniti i quali detengono "un potere senza saggezza, e non sono capaci di riconoscere i limiti delle armi nonostante ripetute esperienze. Il risultato e' stato la follia, e l'odio, che sono le ricette per il disastro. E l'11 settembre ne e' la conferma. La guerra e' arrivata in casa" (Kolko, 2002). Come uscire da questo dilemma? Nel chiedersi anche lui se la guerra ha un futuro, Sohail Inayatullah, curatore con Johan Galtung di un provocatorio testo di macrostoria (1997) sostiene che "dobbiamo sfidare l'idea che la guerra e' qui per rimanerci come se fosse un fatto evolutivo naturale. Non dobbiamo solo trovare nuovi metodi per risolvere i conflitti internazionali, ma e' necessario sfidare tutta quanta la concezione di conflitto armato, simmetrico e asimmetrico". Dobbiamo inoltre superare la "litania" della semplice contrapposizione tra pace interiore, dell'individuo, e pace collettiva, internazionale. Ovvero dobbiamo affrontare esplicitamente in chiave sistemica il paradosso "dello yogi e del commissario" sollevato sin dal 1947 da Arthur Koestler (2002), agendo contemporaneamente su tre aspetti principali: trasformare la natura del complesso militare-industriale, dell'industria bellica e del commercio delle armi; trasformare il sistema educativo in un processo di formazione alla pace e alla nonviolenza (come recita il documento Onu sul decennio della nonviolenza) centrato sull'acquisizione di capacita' di trasformazione nonviolenta dei conflitti e su una diversa lettura della storia umana, nonpiu' vista soltanto come una successione di guerre; creare nuove visioni delmondo. Queste nuove visioni comportano il passaggio da una societa' dominatada strutture gerarchiche patriarcali a una concezione di partenariato (Eisler, 2002); da un'idea di evoluzione intesa come risultato casuale della sopravvivenza del piu' adatto, che giustifica la guerra, a una in cui essa e' frutto della ragione e dell'azione umana; e infine da un'idea di identita' definita solo in termini di razza, lingua, religione esclusiva a
una consapevolezza planetaria, "gaiana". A partire da queste premesse, si possono prefigurare quattro scenari principali: permanenza della guerra, con pericoli crescenti che deriveranno non tanto dalla presenza di leader autoritari, quanto dalla facilita' con cui ognuno di noi potra' accedere a nuove armi di distruzioni di massa e tenere in ostaggio, da solo, un'intera nazione; scomparsa della guerra, mediante un cambiamento del sistema di potere e della cultura che ora la sorreggono; ritualizzazione e contenimento, con un prevalere della cultura di pace e un permanere della guerra per brevi periodi e come opzione meno desiderabile: genetizzazione della guerra, con procedure invasive di ingegneria genetica alla ricerca del "gene dell'aggressione", nella speranza di eliminare i comportamenti che porterebbero alla guerra. Oltre a immaginare i possibili scenari futuri, Inayatullah vede cinque principali processi di cambiamento in atto: governo globale, multinazionali dell'economia, ritorno al passato, cyberspazio, people'power. Le prime due trasformazioni sono frutto di poteri dall'alto, in mano a piccole elite. Il terzo cambiamento, antitetico e opposto ai primi due e' caratterizzato da forme di localismo e nazionalismo esasperati che si oppongono alle forze dirompenti dei processi di globalizzazione per mantenere barriere e privilegi anacronistici. Il quarto processo, basato sulle tecnologie dell'informazione, ha un carattere orizzontale e potenzialmente puo' coinvolgere chiunque in una grande rete comunicativa con un forte potenziale di democrazia partecipativa. Il quinto processo, infine, e' una trasformazione dal basso, attivata da una miriade di soggetti che Immanuel Wallerstein considera nel loro insieme come la nuova ondata dei movimenti antisistemici che stanno costruendo un nuovo ordine mondiale sulle rovine del cadente disordine creato dal capitalismo selvaggio.
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I prossimi cento anni di peacemaking
Con questo titolo al tempo stesso ambizioso e impegnativo, Johan Galtung si cimenta nel proporre una terapia per curare la malattia della guerra mediante un insieme di politiche di pace che richiamandosi all'insegnamento buddhista, definisce l'"ottuplice sentiero" e riassume nella seguente tabella [Per esigenze grafiche abbiamo rinunciato a riprodurre la tabella, dandone di seguito una sommaria descrizione in forma discorsiva -ndr-].

Politiche di pace per il XXI secolo
1. Militari
1. a. Pace negativa: difesa difensiva, delegittimazione delle armi, difesa non militare;
1. b. Pace positiva: forze di peacekeeping, competenze non militari, brigate internazionali per la pace.
2. Economiche
2. a. Pace negativa: self-reliance I, internalizzare le esternalita', usare i propri fattori di produzione anche su scala locale;
2. b. Pace positiva: self-reliance II, condividere le esternalita', scambio orizzontale, cooperazione Sud-Sud.
3. Politiche
3. a. Pace negativa: democratizzare gli stati, diritti umani ovunque, deoccidentalizzazione, iniziative referendarie, democrazia diretta, decentralizzazione;
3. b. Pace positiva: democratizzare l'Onu, un paese un voto, abolizione del veto, seconda assemblea Onu, elezioni dirette, confederazione.
4. Culturali
4. a. Pace negativa: sfida: singolarismo, universalismo, idea di popolo scelto, violenza e guerra; dialogo: tra opposti;
4. b. Pace positiva: civilizzazione globale, un centro in ogni luogo, tempo piu' rilassato, approccio olistico globale, alleanza con la natura, eguaglianza e giustizia, miglioramento della vita. (Johan Galtung, The Coming One Hundred Years of Peacemaking, www.transcend.org).
Gli attori sociali di questo insieme di politiche possono essere, in linea di principio, tutti quanti, ma in pratica vi sono delle difficolta' con coloro che detengono posizioni di potere. Galtung tuttavia sottolinea che i due principali errori che si possono commettere consistono nel credere che tali processi possano essere attivati solo dalle elite oppure da chi non appartiene ad esse: dall'alto o dal basso. Passi importanti sono stati realizzati in passato congiuntamente e/o separatamente, come nell'insieme di eventi che hanno portato alla fine della guerra fredda, con l'azione congiunta del potere dall'alto e di quello dal basso. Se cio' si e' verificato una volta, potra' verificarsi ancora.
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Caratteri di una societa' nonviolenta
La visione di societa' nonviolenta di Gandhi e' espressa in modo sintetico nel seguente passo: "Lo stato - nel passaggio alla societa' senza stato - sara' una federazione di comunita' democratiche rurali nonviolente decentralizzate. Queste comunita' si baseranno sulla 'semplicita', poverta' e lentezza volontarie', cioe' su un tempo di vita coscientemente rallentato, nel quale l'accento sara' sulla autoespressione attraverso un piu' ampio ritmo di vita piuttosto che attraverso piu' veloci pulsazioni nelle avidita' di potere e di lucro" (Gandhi, citato da Capitini, 1967). Pontara ne sintetizza l'immagine "nei tre momenti del sarvodaya, dello swaraj e dello swadeshi". Sarvodaya e' l'equivalente di benessere di tutti, ripreso anche da Capitini. Swadeshi si puo' tradurre con self-reliance, ovvero autosufficienza, sviluppo autocentrato, che utilizzi innanzitutto le risorse locali. Infine swaraj significa indipendenza intesa nel senso di autonomia, capacita' di autogoverno, autocontrollo, disciplina. Possiamo riassumere questo insieme di termini nel paradigma della "semplicita' volontaria", uno stile di vita piu' povero esteriormente, materialmente, ma piu' ricco interiormente, spiritualmente. Una societa' nonviolenta e' dunque caratterizzata dai seguenti elementi: riduzione di ogni livello di violenza (diretta, strutturale, culturale); elevata qualita' della vita e delle relazioni interpersonali; decentramento amministrativo e decisionale, capacita' di autogoverno, elevato grado di partecipazione ai processi decisionali collettivi; sostenibilita' e basso impatto ambientale, rispetto della vita di ogni essere vivente; modello di sviluppo e di economia nonviolenti, autocentrati, autosufficienti su scala locale, regionale, nazionale, a bassa potenza energetica e a bassa densita' urbana; modello di difesa popolare nonviolento, con forze civili di pace che agiscano su scala locale e internazionale. Sorge spontanea la domanda se esistano o siano esistite societa' di questo tipo, alle quali ispirarsi per apprendere, migliorarne le esperienze e ampliarne la diffusione su scala internazionale. Gli studi antropologici e sociologici hanno portato a classificare un certo numero di societa' che si avvicinano all'ideale descritto piu' sopra. Nei suoi lavori Bruce Bonta ne ha classificate varie decine, che presenta evidenziandone soprattutto i tratti di cooperazione e armonia: "La maggior parte delle societa' nonviolente nel mondo basa le loro visioni di pace sulla cooperazione e si oppone alla competizione. Sebbene siano societa' amorevoli e dedite alla cura, molti allevano i bambini ad essere cauti e ad aver paura delle intenzioni degli altri, in modo tale da interiorizzare i valori nonviolenti e non dare per scontati gli atteggiamenti pacifici propri e degli altri. In queste societa', non vengono dati ai bambini giochi competitivi; sebbene i piccoli siano molto amati, sin da quando hanno due o tre anni si fa in modo che non si considerino piu' importanti degli altri. Queste societa' non attribuiscono alcun valore all'acquisizione perche' essa porta alla competizione e all'aggressivita', che a sua volta scatena la violenza che essi aborriscono. I loro rituali rinforzano la fiducia e i comportamenti ispirati alla cooperazione e all'armonia. Esse hanno talmente interiorizzato i valori di pace e cooperazione che le loro strutture psicologiche sono in sintonia con la loro fede nella nonviolenza". Queste societa' possono essere classificate in due grandi categorie: quelle che appartengono a popolazioni "altre", che vivono in culture tradizionali, e quelle che invece sono inserite nel contesto della modernita' e stanno sperimentando nuove forme di vita comunitaria. Le prime comprendono vari gruppi etnici, tra i quali ricordiamo: Balinesi (Bali), Batek (Malesia), Inuit (Alaska, Canada), Jain (India), Kadar (India), King (Boscimani del Botswana e della Namibia), Ladakhi (India), Zapotechi (Messico). Complessivamente, ne sono state individuate una sessantina. Nella seconda categoria rientrano esperienze e gruppi diversi, molti dei quali di ispirazione religiosa: Mennoniti, Quaccheri (Societa' degli Amici), Amish, villaggi dell'Arca di Lanza del Vasto, villaggi gandhiani dell'Assefa in India, kibbutz in Israele. In questa stessa categoria rientra una molteplicita' di piccole comunita' che stanno sperimentando i principi di uno stile di vita che si richiama alla nonviolenza. Le esperienze sono numerosissime, spesso notevoli, anche se poco conosciute. Una delle piu' affascinanti si volge nientemeno che nella martoriata Colombia, in una zona inizialmente inospitale: Gaviotas e' il nome di questo villaggio dove e' in corso una delle piu' significative esperienze di sviluppo sostenibile, ideata da Paolo Lunari.
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Fondamenti epistemologici della nonviolenza
Caratteristica saliente della nonviolenza e' il suo carattere omeostatico, che consente di ricercare la verita' senza distruggere quella dell'avversario, imparando dagli errori, con comportamenti altamente reversibili. Non siamo sicuri di essere nel vero, non sappiamo se il corso d'azione intrapreso, anche con le migliori intenzioni, produrra' i risultati desiderati, ma utilizziamo una metodologia che consente alla ricerca della verita' di dispiegarsi. Questo e' l'atteggiamento filosofico ed epistemologico che sta alla base
delle procedure della ricerca scientifica per prova ed errore, nella consapevolezza che in campo sociale le sfide sono di vita e di morte, altamente non reversibili. Nella tradizione gandhiana si invita ad agire senza rivendicare il merito dell'azione e senza aspettarne l'esito, che verra' quando meno ci si aspetta. C'e' una fiducia nel processo di ricerca della verita', che prima o poi si imporra', anche nelle situazioni apparentemente piu' difficili e disperate. Satyagraha vuol dire forza della verita', ma anche "dire la verita'", dirla di fronte ai potenti e all'ingiustizia, tanto quanto basta perche' si imponga. Cosi' come nella propaganda si sostiene che una bugia ripetuta mille volte diventa una verita', si puo' aver fiducia che una verita' ripetuta mille volte finira' per imporsi.
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Bibliografia
- Johan Galtung, Pace con mezzi pacifici, Esperia, Milano 2000.
- Mark Juergensmeyer, Come Gandhi. Un metodo per risolvere i conflitti, Laterza, Roma-Bari 2004.
- Jacques Semelin, Senz'armi di fronte a Hitler, Sonda, Torino 1993.
- Giuliano Pontara, Etica e generazioni future, Laterza, Roma-Bari 1995
- Giuliano Pontara, La personalita' nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996.
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Sitografia
- www.nonviolenti.org e' il sito del Movimento Nonviolento italiano, fondato da Aldo Capitini nel 1962, che pubblica la rivista "Azione Nonviolenta" ed e' il riferimento storico piu' significativo della nonviolenza politica organizzata.
- www.peacelink.it: questo sito svolge un'efficace azione informativa di rete tra i principali gruppi, movimenti e iniziative di pace italiani e contiene molte informazioni anche su quanto avviene su scala internazionale.
- www.arpnet.it/regis e' il sito del Centro "Sereno Regis" di Torino, con il catalogo consultabile in rete della biblioteca italiana piu' specializzata sui temi della nonviolenza.
- www.transcend.org e' la rete di ricercatori ed educatori fondata da Johan Galtung. Vi si trovano centinaia di articoli nelle lingue piu' diverse, e le informazioni sulle principali attivita' promosse da Transcend.
- www.transnational.org e' il sito di una delle piu' significative organizzazioni, svedese, di ricerca, azione e documentazione sui problemi della pace e della nonviolenza. Offre un importantissimo servizio di selezione di materiali dalla stampa e dalle pubblicazioni internazionali sui temi piu' rilevanti della ricerca per la pace.
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Parole chiave
- Nonviolenza: e' il termine convenzionale nelle lingue occidentali con il quale si intende la capacita' di trasformazione costruttiva e creativa dei conflitti dal micro al macro, attuata mediante le tecniche e i metodi dell'azione nonviolenta individuale, diretta, collettiva, organizzata.
- Satyagraha: sta a indicare la "forza della verita'", ovvero la forza interiore che deve animare chi sceglie di lottare mediante le tecniche della nonviolenza, che scaturisce dalla costante e attenta ricerca personale della verita', senza distruggere quella portata dall'avversario in una situazione di conflitto.
- Ahimsa: e' la concezione di rifiuto dell'uccidere, dell'esercitare violenza diretta, che e' ispirata da un rapporto di amore e di compassionevolezza nei confronti di ogni essere vivente.
- Difesa popolare nonviolenta: cosi' come esistono dottrine militari per la difesa di uno stato, anche nel pensiero e nella politica della nonviolenza e' stata elaborata una dottrina che prevede la possibilita' di affrontare conflitti su larga scala addestrando la popolazione in generale e alcune forze specializzate (caschi bianchi, corpi civili di pace) a intervenire in situazioni di potenziale pericolo per prevenire, dissuadere, riconciliare, interporsi mediante tecniche di azione nonviolente.

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