Simone Weil

Israele e i Gentili

L’unica cosa essenziale che si deve sapere di Dio è che egli è il Bene. Tutto il resto è secondario.

Gli Egiziani possedevano questa conoscenza, come dimostra il Libro dei Morti: «Signore della Verità, io ti offro la Verità... Io ho distrutto il male per te... Non ho fatto piangere nessuno... Non ho causato timori a nessuno... Non ho: provocato l’ira del padrone contro lo schiavo... Non ho reso la mia voce altera... Non sono stato sordo alle parole di giustizia e verità... Non ho posto innanzi il mio nome per gli onori... Non ho respinto la divinità nelle sue manifestazioni...». Lo stesso Libro dei Morti spiega la salvezza dell’uomo come un’assimilazione dell’anima a Dio tramite la grazia divina da un lato, l’amore e il desiderio umano del Bene dall’altro. Inoltre Dio è chiamato Osiride; un Dio che è vissuto sulla terra, ha avuto un corpo umano, ha fatto solo del bene, ha sofferto una passione, è morto, ed è diventato in seguito, nell’altro mondo, il salvatore, il giudice e il sovrano delle anime.

Invece, da quanto possiamo leggere nella sacra Scrittura, gli Ebrei, prima di Mosè, hanno concepito Dio esclusivamente come l’«Onnipotente». Cioè conoscevano soltanto l’attributo divino della potenza e non il Bene che è Dio stesso. Egualmente, nella sacra Scrittura non è scritto che qualche patriarca abbia stabilito un rapporto fra il servizio di Dio e la moralità. I nemici acerrimi degli Ebrei non hanno mai mosso loro un’accusa peggiore di quella contenuta nell’antico Testamento quando esso parla, approvandola, della politica di Giuseppe nei confronti degli Egiziani.

Concepire la divinità esclusivamente in termini di potenza e non di Bene è idolatria; a questo punto, poco importa che si adori un Dio solo oppure molti. È soltanto perché il Bene è unico che bisogna riconoscere un solo Dio.

Mosè comprende che Dio impone dei comandamenti d’ordine morale. La qual cosa non ci stupisce, dato che egli era stato «istruito nella saggezza egiziana». Egli ha definito Dio come l’Essere. I primi cristiani hanno cercato di spiegare l’affinità, su questo punto, fra l’insegnamento mosaico e quello di Platone, sostenendo che il primo ha esercitato un’influenza sul secondo attraverso la mediazione della cultura egiziana. Nessuno oggi sostiene questa interpretazione, tuttavia nessun’altra per ora si è sostituita ad essa.

Ma la vera spiegazione è evidente: Platone e Mosè furono ambedue «istruiti nella saggezza egiziana»; se non proprio Platone, sicuramente Pitagora. D’altronde Erodoto sostiene che tutto il pensiero religioso degli Elleni ha le sue origini nelle dottrine religiose degli. Egiziani, portate in Grecia da Fenici e Pelasgi.

Ma Platone (e prima di lui Pitagora e, senza dubbio, molti altri) è stato istruito più profondamente di Mosè; egli infatti sapeva che l’Essere non è ancora ciò che vi è di più alto: il Bene è al di sopra dell’Essere, e Dio è Bene prima ancora di essere ciò che è.

In Mosè sono rari i precetti di carità, e quei pochi sono sommersi da una quantità di comandamenti di una crudeltà e di un’ingiustizia atroci. Nei libri della Bibbia anteriori all’esilio (fatta eccezione per alcuni salmi attribuiti a Davide e a Giobbe e il Cantico dei Cantici, per quanto sia dubbia la loro appartenenza al periodo anteriore all’esilio) Dio è continuamente identificato con la potenza.

I «Gentili» invece sapevano che Dio, per farsi amare dagli uomini come bene puro, si spoglia dell’attributo della potenza.

A Tebe d’Egitto si diceva che Zeus, non potendo rifiutarsi di esaudire la preghiera insistente di uno che voleva vederlo, gli fosse apparso sotto le spoglie di un agnello sgozzato (cfr. «L’agnella che è stato sgozzato fin dalla creazione del mondo»). I tebani dissero ad Erodoto che questa tradizione risaliva a diciassettemilaseicento anni prima dell’era cristiana. Osiride ha sofferto una passione. La passione di Dio era l’oggetto stesso dei misteri egiziani e anche di quelli greci, nei quali Dioniso e Persefone sono l’equivalente di Osiride.

I Greci erano convinti che, quando un infelice implora pietà, è Zeus stesso che implora in lui. A questo proposito essi non dicevano «Zeus protettore di coloro che supplicano» ma «Zeus supplice». Dice Eschilo: «Chiunque non ha compassione dei dolori di chi soffre, offende Zeus supplice». È facile il confronto con le parole di Cristo: «Avevo fame e voi non mi avete dato da mangiare». E ancora Eschilo: «Non c’è collera peggiore per i mortali che quella di Zeus supplice». Difficilmente potremmo immaginare questa espressione: «Jahvè supplice».

Erodoto racconta che una sola fra le molte nazioni elleniche ed asiatiche adorava uno «Zeus degli eserciti». Le altre si rifiutavano di attribuire la direzione della guerra alla divinità suprema, come facevano gli Ebrei.

Mosè doveva conoscere per forza le tradizioni egiziane riguardanti Zeus, l’agnello e la passione redentrice di Osiride. Tuttavia egli ha rifiutato queste dottrine. Non è difficile capirne il motivo. Egli era innanzi tutto il fondatore di uno stato. Ora, come dice molto bene Richelieu, la salvezza dell’anima avviene nell’altro mondo, ma la salvezza dello stato in questo. Mosè voleva apparire come l’inviato di un Dio potente che fa promesse di tipo materiale. Le promesse di Jahvè a Israele sono le stesse che il demonio ha fatto a Cristo: «Ti donerò tutti questi regni...».

Gli Ebrei hanno sempre oscillato fra la concezione di Jahvè come un dio nazionale fra gli altri dèi nazionali, appartenenti ad altre nazioni, e di Jahvè come Dio dell’universo. La confusione fra le due concezioni implicava la promessa di quel dominio del mondo al quale ogni popolo aspira. I sacerdoti e i farisei condannarono Cristo a morte e la cosa era, politicamente parlando, giusta. Infatti l’influenza di Cristo eccitava il popolo a tal punto, da far temere una sollevazione popolare contro i Romani o per lo meno una sommossa che potesse inquietare i Romani. D’altra parte Cristo sembrava visibilmente incapace di proteggere il popolo di Palestina contro gli orrori di una repressione romana. Lo uccisero perché egli aveva fatto soltanto del bene; se si fosse mostrato capace di far morire con una parola decine di migliaia di uomini, quegli stessi sacerdoti e farisei l’avrebbero acclamato come Messia. Ma non si libera dalla schiavitù un popolo guarendo dei paralitici e dei ciechi!

Crocifiggendo Cristo, i giudei non fecero altro che seguire la logica della loro tradizione.

Il silenzio tanto misterioso di Erodoto su Israele sarebbe facilmente spiegabile, qualora si sapesse che Israele fu un oggetto di scandalo per gli antichi a causa del suo rifiuto delle conoscenze egiziane riguardanti la mediazione e la passione divina. Nonnos, un egiziano, forse cristiano, del secolo sesto dopo Cristo, accusa un popolo, situato a sud del monte Carmelo (indubbiamente Israele) d’aver assalito a tradimento Dioniso disarmato e di averlo costretto a rifugiarsi nel mar Rosso. Anche l’Iliade allude a questo attacco, ma senza particolari geografici.

La stessa nozione di popolo eletto è incompatibile con la conoscenza del vero Dio: si tratta di idolatria sociale, la peggiore.

Israele è stato il popolo eletto soltanto in questo senso: che Cristo è nato da lui. Ma è anche stato ucciso da lui: gli ebrei sono più responsabili della sua morte che non della sua nascita. L’elezione di Israele può essere intesa in due sensi: nel senso che Giuseppe è stato scelto per nutrire Gesù e nel senso che Giuda è stato eletto per tradirlo. Cristo ha trovato dei discepoli in Israele ma, dopo averli amati ed educati durante tre anni di paziente insegnamento, fu da essi abbandonato. All’eunuco di Etiopia bastarono pochi minuti per capire: il che non stupisce, perché, secondo quanto ci riferisce Erodoto, l’Etiopia adorava come divinità solo Zeus e Dioniso, cioè il Padre e il Figlio: figlio nato sulla terra da una donna, ucciso nel dolore e causa di salvezza per coloro che lo amano. L’eunuco era quindi molto ben disposto.

Tutto ciò che nel cristianesimo si ispira all’antico Testamento è cattivo, e in primo luogo il concetto della santità della Chiesa modellato su quello della santità d’Israele.

Dopo i primi secoli, dei quali conosciamo poco o niente, la cristianità, per lo meno quella occidentale, ha abbandonato l’insegnamento di Cristo per ricadere nell’errore d’Israele, a proposito di un problema che Cristo stesso aveva giudicato della massima importanza.

Sant’Agostino dice che, se un infedele veste chi è nudo, oppure si rifiuta di testimoniare il falso quand’è torturato, eccetera, non compie atto meritorio, anche se Dio per mezzo suo compie opere di bene. Dice anche che colui che vive fuori della Chiesa, infedele o eretico che sia, pur agendo con rettitudine, è come un buon corridore che corra sulla strada sbagliata: più corre veloce, più s’allontana dalla strada giusta.

Questa concezione è indubbiamente un’idolatria sociale che ha per oggetto la Chiesa. (Se io dovessi scegliere fra l’essere sant’Agostino o un «idolatra» che veste chi è nudo e che ammira chiunque faccia altrettanto, non esiterei a scegliere il secondo destino).

Cristo ha insegnato esattamente il contrario di sant’Agostino. Egli ha promesso che nell’ultimo giorno dividerà gli uomini in benedetti o maledetti, secondo che abbiano o meno vestito gli ignudi, ecc... E i giusti ai quali egli dirà: «Ero nudo e voi mi avete vestito», risponderanno: «Quando, Signore?». Essi non lo sapevano.

D’altra parte i Samaritani erano nei confronti degli Ebrei esattamente quel che sono gli eretici nei confronti della Chiesa; e il prossimo dell’infelice abbandonato nel fosso non fu il prete o il levita, ma il Samaritano. Insomma, Cristo non ha dettò che si sarebbero riconosciuti i frutti dall’albero (sant’Agostino ragiona come se Cristo avesse appunto detto così) ma l’albero dai frutti. E, nel contesto, l’unico peccato senza perdono, il peccato contro lo Spirito Santo, consiste nel dire che dal bene, riconosciuto come tale, possa scaturire il male. Si può essere blasfemi contro il Figlio dell’uomo; si può non riconoscere il bene. Ma, avendolo riconosciuto, non si può affermare che esso procede dal male: affermandolo, noi pecchiamo senza possibilità di remissione, poiché il bene non produce che bene e il male non produce che male.

Essere disposti, incondizionatamente e senza restrizioni, ad amare il bene, dovunque lo si scorga, in ogni misura nella quale ci appare: questa è l’imparzialità voluta da Cristo. E, se ogni bene procede dal bene, tutto ciò che è bene vero e puro procede soprannaturalmente da Dio. Infatti la natura non è né buona né cattiva, o l’uno e l’altro insieme: essa produce beni uniti al male, cose che sono buone a condizione che siano usate bene. Ogni bene autentico ha origine divina e soprannaturale. L’albero buono, che produce solo frutti buoni, è Dio visto come dispensatore della grazia. Ovunque ci sia del bene, foss’anche in una tribù feticista ed antropofaga dell’Africa, lì c’è un contatto soprannaturale con Dio.

Tuttavia molti beni apparenti non sono beni autentici. Per esempio, le virtù romane o corneliane non sono affatto virtù. Ma in chiunque aiuti un infelice, senza che la sua mano sinistra sappia che cosa fa la destra, vive ed opera Dio.

Se gli Ebrei, come popolo, avessero portato Dio in loro, avrebbero preferito sopportare la schiavitù inflitta loro dagli Egiziani – causata dalle loro precedenti esazioni – piuttosto che riconquistare la libertà massacrando tutti gli abitanti del territorio occupato.

I vizi di quegli abitanti, sempre che non si tratti di calunnia (infatti le accuse degli uccisori contro le loro vittime non sono mai accettabili, in linea di principio), non scusano affatto il loro comportamento. Quei vizi non danneggiavano gli Ebrei: chi aveva dato loro il diritto di ergersi a giudici? Se essi fossero stati giudicati dalle popolazioni di Canan, non avrebbero potuto occupare i loro territori: chi ha mai considerato legittimo che un giudice si appropri della fortuna di colui al quale infligge una condanna?

Sulla parola di Mosè, essi dicevano che Dio stesso comandava loro di comportarsi così: tuttavia come prova di tale ordine essi portavano dei prodigi. Ma quando un comando è ingiusto, un prodigio è ben poca cosa per poter ammettere che esso provenga da Dio. D’altra parte i poteri di Mosè erano della stessa natura di quelli dei sacerdoti egiziani: la differenza era semplicemente quantitativa.

Jahvè appare in quel periodo della storia come un Dio nazionale ebreo più potente degli dèi egiziani: egli non chiede al faraone di adorarlo, ma solo di lasciar liberi gli Ebrei di farlo.

Sta scritto in Cron. 18,19: «L’Eterno dice: Chi andrà a ingannare Acab re d’Israele?... Lo Spirito avanzò… e disse: Io andrò e sarò uno spirito di menzogna sulla bocca di tutti i suoi profeti». In queste parole troviamo la spiegazione di tutte le stranezze dell’antico Testamento. Gli Ebrei, fino all’epoca dell’esilio, allorché vennero in contatto con la saggezza caldea, persiana e greca, non avevano la nozione di una distinzione fra Dio e il diavolo. Essi attribuivano indistintamente a Dio tutto ciò che era extranaturale, le cose diaboliche come quelle divine; era naturale che avvenisse così, perché concepivano Dio come Potenza piuttosto che come Bene.

La promessa che il demonio fa a Cristo, riferita da san Luca, «ti darò tutta questa potenza e la gloria che ne deriva, poiché essa è in potere mio e di coloro a cui io desidero farne parte», ci lascia credere che gli ordini di conquista e di rapina e le promesse temporali fatte agli Ebrei, contenute nell’antico Testamento, fossero di origine diabolica e non divina. Oppure, se proprio si vuole, per una di quelle ironie del destino quasi paragonabili a giochi di parole (che sono un tema favorito della tragedia greca), quelle promesse erano opera delle potenze del male nel loro senso letterale, e di Dio solo in un senso nascosto, come annunci di Cristo.

Anche le divinità greche partecipano del bene e del male; anzi nell’Iliade sono tutte potenze demoniache, fatta eccezione per Zeus. I Greci però non prendevano i loro dèi sul serio: nell’Iliade le loro avventure costituiscono gli intermezzi comici del poema, come i clowns in Shakespeare. Gli Ebrei invece prendevano il loro Jahvè molto sul serio.

Il solo insegnamento diretto sulla divinità, contenuto nell’Iliade, lo troviamo nell’episodio in cui Zeus prende la bilancia d’oro per pesarvi il destino dei Greci e dei Troiani ed è obbligato a lasciare la vittoria ai Greci, benché egli preferisca i secondi per la loro pietà. Basterebbe questo particolare a porre l’Iliade al di sopra di tutti i libri storici dell’antico Testamento, nei quali si proclama fino alla sazietà la necessità di essere fedeli a Dio per ottenere la vittoria in guerra. (D’altra parte, un poema come l’Iliade non potrebbe essere stato scritto senza autentici sentimenti di carità).

Allorché una fanciulla si sposa, i suoi amici non pretendono di conoscere i segreti della sua camera nuziale; ma quando essa è incinta, allora sono certi che non è più vergine. Allo stesso modo, nessuno può stabilire quali siano le relazioni fra un’anima e Dio; ma vi è un modo di concepire la vita di quaggiù, gli uomini e le cose, che è caratteristico dell’anima soltanto dopo la trasformazione prodotta dall’unione d’amore con Dio. Il tono con cui Omero parla della guerra ci rivela che la sua anima era passata attraverso quest’unione d’amore; lo stesso criterio rivela il contrario negli autori dell’antico Testamento. Questo criterio è sicuro, perché «si conosce l’albero dai suoi frutti».

È solo in Euripide che le storie di adulterio, raccontate sugli dei, servono come scusa alla lussuria degli uomini; ma Euripide è uno scettico. In Eschilo e Sofocle gli dei ispirano soltanto il bene.

Invece, è sicuro che ciò che gli Ebrei eseguivano come se fosse stato ordinato da Jahvè, era male nella maggior parte dei casi.

Fino all’esilio non vi è un solo personaggio della Bibbia, la cui vita non sia stata insozzata da azioni orribili. Il primo essere puro è Daniele, che era stato iniziato alla saggezza caldea (la quale risale indubbiamente agli abitanti preistorici della Mesopotamia, discendenti da Cam, secondo il Genesi).

Nonostante il comandamento biblico, «ama Dio con tutte le tue forze...», l’amore di Dio si avverte soltanto nei testi composti certamente o probabilmente dopo l’esilio. Quelli precedenti pongono in primo piano la potenza, non l’amore.

Anche nei passi più belli dell’antico Testamento vi sono poche tracce di contemplazione mistica, ad eccezione, naturalmente, del Cantico dei Cantici.

Nei testi greci, invece, vi sono moltissime indicazioni in questo senso; ad esempio nell’Ippolito di Euripide, o nei seguenti versi di Eschilo: «Chiunque, volgendo il pensiero a Zeus, proclamerà la sua gloria, riceverà la pienezza della saggezza; Zeus che ha mostrato agli uomini la via della saggezza, assegnando loro come legge sovrana la conoscenza attraverso la sofferenza. Essa scende a goccia a goccia nel loro cuore durante il sonno, la sofferenza che è memoria dolorosa; e anche a chi non vuole viene la saggezza. Questa è una grazia violenta, che ci giunge dalla divinità».

L’espressione «la conoscenza attraverso la sofferenza», applicata alla storia di Prometeo il cui nome significa «per la conoscenza» (o anche «Provvidenza»), pare significare quel che ha voluto esprimere san Giovanni della Croce, dicendo che bisogna passare attraverso la croce di Cristo per penetrare i segreti della saggezza divina.

In Sofocle la scena in cui Oreste ed Elettra si riconoscono è simile al dialogo fra l’anima e Dio in uno stato mistico, successivo al periodo della «notte oscura».

I testi taoisti cinesi, anteriori all’èra cristiana (alcuni anteriori di cinque secoli) racchiudono meditazioni identiche a quelle più profonde dei mistici cristiani: in particolare quelle riguardanti l’azione divina, intesa come un’azione non agente.

Soprattutto alcuni testi indù anch’essi anteriori all’era cristiana, contengono i pensieri più straordinari di Suso o di san Giovanni della Croce: in particolare sul «nulla» e sul «niente», sulla conoscenza negativa di Dio e sullo stato d’unione totale dell’anima con Dio. Se il matrimonio spirituale fra Dio e l’anima, di cui parla san Giovanni della Croce, è la forma più alta di vita religiosa, le scritture sacre degli Indù meritano l’appellativo di «sacre» molto più di quelle degli Ebrei. La similitudine delle formule è così grande che viene da domandarci se non vi sia stata un’influenza diretta degli Indù sui mistici cristiani. In ogni caso gli scritti attribuiti a Dionigi l’Areopagita, scritti che hanno avuto grande influenza sul pensiero mistico del medioevo, sono stati senza dubbio composti in parte sotto l’influenza dell’India.

I Greci conoscevano quella verità, stimata da san Giovanni la più importante di tutte, cioè che «Dio è amore». Nell’inno a Zeus di Cleante, in cui appare la trinità di Eraclito (Zeus, il Logos, «re, supremo attraverso tutte le cose, a causa della sua alta nascita», e il Fuoco celeste eternamente vivo, servitore di Zeus, con il quale Zeus invia il Logos nell’universo) è detto: «A te questo universo… obbedisce, ovunque tu lo conduca, e consente al tuo dominio; tale è la virtù del servo che tu tieni sotto le tue invincibili mani, fuoco vivo, ascia a due lame, eternamente vivente, folgore». L’universo consente ad obbedire a Dio, gli obbedisce cioè per amore. Platone nel Convito definisce l’amore come l’atto dell’acconsentire: «Qualsiasi cosa egli subisca, la subisce senza violenza, perché la violenza non può impadronirsi dell’Amore; qualunque cosa egli faccia la fa senza violenza: in ogni cosa ciascuno acconsente ad obbedire all’Amore». Ciò che provoca nell’universo questa ubbidienza di consenso è la virtù della folgore, che è simbolo dello Spirito Santo. E nel nuovo Testamento i simboli dello Spirito Santo sono appunto le immagini del fuoco o della spada. Così i primi Stoici affermavano che, se il mare resta nei suoi confini, non è per la potenza di Dio ma per l’amore divino, la cui virtù si comunica anche alla materia. È lo spirito di san Francesco. Questo inno risale al secolo terzo a.C., ma è ispirato ad Eraclito, che è del secolo sesto; forse l’ispirazione risale a prima ancora; forse è espressa nei numerosi bassorilievi cretesi che rappresentano Zeus con un’ascia a due lame.

Quanto alle profezie, molte di quelle dei «Gentili» sono più chiare di quelle degli. Ebrei. Prometeo è Cristo stesso, senza però la determinazione del tempo e dello spazio: la sua storia è la storia di Cristo proiettata nell’eternità. Egli è venuto a gettare un fuoco sulla terra, il fuoco dello Spirito Santo, come possiamo dedurre da molti testi di autori greci (Filebo, Prometeo incatenato, Eraclito, Cleante). Egli redime gli uomini, sa subito la sofferenza e l’umiliazione, volontariamente, per eccesso d’amore. Dietro all’ostilità apparente fra Zeus e lui c’è dell’amore. Questo doppio rapporto è anche indicato nel Vangelo, molto sobriamente, dalle parole: «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?», e soprattutto dalle seguenti: «Colui che mi lascia in tua balia è più colpevole di te»; e, dato il contesto, è ovvio che si tratta di Dio.

Tutte le divinità morte e risuscitate, simbolizzate nel grano, Persefone, Atte, eccetera, sono immagini di Cristo, e Cristo stesso ha riconosciuto questa simbologia: «Se il grano non muore...». Ha fatto lo stesso per Dioniso con le parole: «Io sono la vera vite» e iniziando e concludendo la sua vita pubblica con miracoli la cui materia è il vino: nel primo trasformò l’acqua in vino, nel secondo il vino in sangue.

La geometria greca è una profezia. Molti testi confermano che all’origine essa costituiva un linguaggio simbolico concernente le verità religiose. Probabilmente è per questo che i Greci vi introdussero un rigore dimostrativo che non sarebbe stato necessario per le applicazioni tecniche. L’Epinomide dimostra che il concetto centrale di tale geometria è il concetto di mediazione «che rende simili tra loro dei numeri che non sono naturalmente simili fra loro». La costruzione di una media proporzionale fra l’unità e un numero non quadrato con l’iscrizione del triangolo rettangolo nel cerchio, è l’immagine di una mediazione soprannaturale tra Dio e l’uomo. Questo concetto della mediazione è presente in molti testi di Platone. Cristo si è riconosciuto in questa immagine tanto quanto nelle profezie di Isaia. Egli l’ha dimostrato con una serie di parole in cui la proporzione algebrica è indicata in maniera insistente, come ad esempio nell’identità del rapporto fra Dio e lui da un lato, e fra lui e i suoi discepoli dall’altro: «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi». Si potrebbero citare forse una dozzina di esempi di questo tipo.

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