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Questo post è stato pubblicato il luglio 29, 2010 alle 4:20 pm

Il tormentato rapporto di Simone Weil con la trascendenza
di Arturo Colombo per “L’Osservatore Romano“

Il filosofo Gabriel Marcel, tutt’altro che facile ai grandi complimenti, aveva usato l’immagine di “Pellegrina dell’Assoluto”, per  definire  una  delle  figure più affascinanti (e controverse) del Novecento:  Simone Weil, morta giovanissima nel lontano 1943,  quando  aveva  solo  trentaquattro anni, eppure di “esperienze”  ne  aveva  già fatte parecchie, compresa la liberissima scelta  di  andare  a  lavorare come operaia nella fabbrica Renault.
Del resto, non rinunciava mai al bisogno, quasi bruciante, di conoscere e “vigilare a che non sia fatto del male agli uomini”, come scriverà nei primi anni Trenta. Per aggiungere di lì a poco, con parole molto severe, quasi arroganti:  “Sceglierò sempre, anche in caso di disfatta sicura, di condividere la sconfitta degli operai piuttosto che la vittoria degli oppressori”. 
Era nata a Parigi nel 1909 in una famiglia israelita, ed era cresciuta agnostica alla scuola di un altro filosofo, Alain, che la considerava l’allieva prediletta. Anche la Weil – prima dell’esperienza come operaia – aveva cominciato a insegnare; ma dietro certi modi,  caratteristici  di una professoressa  zitella  e  un po’ saccente, si avvertiva un’anima religiosa,  con  una  forte  sete di verità  che  l’avrebbe  accompagnata per il resto della sua breve la vita, insieme al desiderio, quasi alla “passione”, di condividere le difficoltà e i sacrifici dei suoi simili:  specie, quelli più umili e indifesi.
Per cogliere il tormentato rapporto che ha legato la Weil al problema religioso, basta leggere qualcuno dei suoi libri, come L’ombra e la grazia, o gli intriganti Pensieri disordinati sull’amore di Dio, oppure aprire uno dei suoi Quaderni (ne sono usciti già quattro),  dove  non  mancano paragoni arditi, del tipo:  “Dio e l’umanità  sono  come  un  amante e una amante che si sono sbagliati circa il luogo dell’appuntamento. Ciascuno è lì prima dell’ora, ma sono in due posti diversi, e aspettano, aspettano, aspettano”.
In simili parole non è difficile cogliere un piccolo, implicito autoritratto della Weil, autentica “amante”, tanto impaziente quanto in continua attesa. E infatti, l’ha ammesso lei stessa, quando ha confessato:  “sono sempre rimasta sulla soglia della Chiesa, ferma e immobile”. Aggiungendo, forse con una punta di esibizionismo autocompiaciuto:  “Sento che nel mio caso è necessario e s’impone che io sia sola, straniera e in esilio rispetto a qualsiasi ambiente umano, senza eccezioni”.
C’è anche un altro suo libro, tradotto in italiano col titolo Attesa di Dio, che contiene le lettere indirizzate, fra il gennaio e il maggio del 1942, al padre domenicano Joseph-Marie Perrin, scelto come un confidente sicuro e autorevole. Al centro spicca sempre lei, spesso pronta a qualche graffiante auto-critica. “Sono per così dire nata, cresciuta e sempre rimasta nell’ispirazione cristiana” ammette a un certo punto, senza però decidersi a voler entrare a far parte della Chiesa. Non tanto perché insofferente di ogni tipo di gerarchia; ma limitandosi a questa pseudo-spiegazione:  “non ho avuto mai, neppure una volta, neppure per un attimo, la sensazione che Dio mi volesse nella Chiesa”.
Non solo:  a Padre Perrin (verso il quale confessava di sentire “una gratitudine infinita”, che le aveva scritto:  “il giorno del suo battesimo sarà per me una grande gioia”) la Weil – con qualche sfrontatezza – replica, quasi con durezza:  “non immaginavo che un sacerdote potesse persino pensare di concedermi il battesimo”. E sembra superfluo, anzi inutile pretendere di discutere in chiave teologica le tesi – o meglio, gli sfoghi – della Weil, che morirà nell’estate del 1943.
Semmai, la ricchezza che si ricava dalle sue pagine riguarda essenzialmente lei, l’autrice, che talvolta confessa, con disarmante sincerità, di sentirsi “un oggetto così malriuscito”, e altre volte, colpisce per certe affermazioni, ai limiti del paradosso. Afferma, per esempio, che “il sociale è irriducibilmente il dominio del demonio”, oppure suggerisce che “questo mondo è una porta chiusa, una  barriera,  ma  nel  contem- po è il passaggio”. Il passaggio, speriamo, verso qualcosa di migliore.  Comunque  la  si  giudichi, dietro quel corpo fragile è impossibile  non  vedere  un’anima di fuoco, pronta – nonostante il groviglio di tante contraddizioni – a sostenere:  “il male non è che la distanza fra Dio e la natura”.

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