Riflessione di Alberto L'Abate in preparazione del Convegno di Bolzano
Uno dei problemi più importanti dell’umanità, se non vogliamo distruggere il nostro pianeta attraverso guerre “infinite”, e rischi, ancora più grandi, di una ecatombe nucleare, è quello di mettere in moto un buon sistema di previsione dei conflitti armati, ed ancor più di riuscire a collegare il sistema di previsione con un valido intervento di prevenzione degli stessi (Segreteria .della Difesa Popolare Nonviolenta, 1996)
Nella prima parte di questa introduzione, scritta da Lorenzo Porta, c’è già una analisi delle lentezze e dei ritardi con la quale l’Europa procede in questo campo, io vorrei solo cercare di approfondire ulteriormente le possibili ragioni di questa lentezza, e fare anche alcuni chiarimenti che possano aiutare, si spera, ad accelerare questo percorso. Per far questo dovrò analizzare i rapporti tra la prevenzione dei conflitti armati, l’esercito, i corpi civili di pace, la difesa popolare nonviolenta, ed il servizio civile.

L’esercito , gli aiuti umanitari, e la prevenzione dei conflitti armati
Uno dei primi elementi che rallentano il processo di costruzione di Corpi Civile di Pace ufficialmente riconosciuti è sicuramente la pretesa delle forze armate di essere le uniche accreditate, e preparate, ad intervenire in situazioni di conflitto violento, addirittura facendosi anche assegnare compiti di aiuti umanitari. Infatti, per giustificare l’intervento del nostro paese nella seconda guerra dell’Iraq si è molto sottolineato l’impegno dei nostri militari in attività umanitarie (scuole, ricerche archeologiche, assistenza agli inabili, ecc.;ecc.)., mostrate molto spesso dalle nostre televisioni . Ma se si prende in analisi questo intervento le notizie sulle cifre rispettive davano, per i primi tempi, le spese per aiuti al 10% della spesa totale dell’intervento, ed in seguito, con l’aggravamento della situazione in quel paese, si è parlato di solo il 5% della spesa specifica, ed una inchiesta dell’Espresso parla addirittura di solo 1%.
Ed anche il India, dopo lo tsunami, è avvenuto qualche cosa del genere. L’India, infatti, che è uno dei paesi del mondo che spende più in armamenti, e che, recentemente, si è anche munito della bomba atomica, ha spesso dato all’esercito, ben munito di attrezzature e di personale, proprio il ruolo di aiuto alle vittime dello tsunami, trascurando del tutto le ONG di ispirazione gandhiana che sono presenti in tutto il territorio, ma con pochi soldi e pochissime attrezzature. Come mai questo travisamento della funzione principale dell’esercito, che è quello di fare la guerra, dando a questo i compiti di aiuti umanitari? Secondo la Schweitzer, che ha guidato un approfondita ricerca sulla fattibilità di Forze Nonviolente di Pace , (Schweitzer 2000, p. 149 e segg..) [L’’Esercito] ha le risorse materiali necessarie per un efficace dispiegamento – sia le attrezzature (aerei, navi,camion, ecc.) e un accesso alla moneta molto buono e facile, quasi illimitato in rapporto ad altri attori governativi e non governativi – ha buone risorse di personale (anche senza la coscrizione) e facilità di formazione – sempre disponibili in breve tempo, essendo una forza stabile- ha una grande quantità di conoscenze speciali e competenze specifiche riguardo a movimenti e sicurezza”. Ma la studiosa che ha diretto questa ricerca, ponendosi il problema del perchè molti stati decidono di mandare una missione militare piuttosto che una civile, dà, tra le altre, le seguenti ragioni: “- I politici necessitano di una giustificazione per il fatto che una gran parte del bilancio annuale è dedicato alle spese militari, – l’influenza di importanti gruppi di pressione come la lobby dell’industria degli armamenti. Essi hanno bisogno che vengano usati i militari perché questo crea nuove domande di armamenti” . E nel proseguo della ricerca mostra come molte delle attività condotte attualmente dai militari potrebbero essere portate avanti, in mondo molto più valido, da civili, se una parte delle spese militari fossero dirottate su questo tipo di interventi.
E che dire poi della prevenzione dei conflitti armati? Da questo punto di vista uno dei fatti più illuminanti è emerso durante un Convegno su “ Intervento civile: una opportunità per la pace”. tenuto nell’ ottobre, 2001 a Parigi nella Sala Colbert del Parlamento Francese (Alternatives Nonviolentes, 2002) Il colloquio era organizzato dal Comitato Francese per l’intervento civile di pace, e dall’Istituto di Ricerca sulla Risoluzione Non-violenta dei conflitti. Quest’ultimo è un centro di ricerca diretto da J.M. Muller, ed al quale partecipano altri noti studiosi francesi come J. Semelin. Del Comitato organizzatore facevano parte molte organizzazioni francesi che fanno interventi di questo tipo all’estero.
Al convegno hanno partecipato anche il Ministero degli Affari Esteri, con alcuni membri della Commissione Parlamentare su questi temi, il Ministero francese della Difesa, che ha inviato due suoi esperti, la Comunità Europea, l’OSCE, e le Nazioni Unite che hanno inviato a relazionare dei loro dirigenti. Nel convegno c’è stato un dibattito molto franco tra le componenti istituzionali e quelle delle ONG che partecipavano all’incontro. Il Ministero della Difesa francese ha preso atto della importanza dell’intervento civile tanto da creare al suo interno anche due dipartimenti sull’intervento militare-civile e su quello civile-militare. Ma concepisce questo tipo di intervento come subordinato a quello militare. Nelle parole di un suo rappresentante “l’intervento civile è spesso fatto grazie a mezzi ed attrezzature messe a sua disposizione dai militari”. Mentre le ONG organizzatrici hanno insistito sulla necessità di una completa autonomia dell’intervento civile da quello militare che partono, nelle parole di J.M. Muller, il principale organizzatore del convegno, “da due logiche completamente diverse”, non escludendo una loro complementarietà e collaborazione, ma sullo stesso piano e non subordinando quelle civili a quelle militari. Questo problema è emerso chiaramente anche nel dibattito tra uno dei due esperti del Ministero della Difesa ed il pubblico. Nella sua relazione questi aveva detto chiaramente che nei momenti di crisi internazionali si possono ipotizzare tre fasi: 1) la prima è quella dell’intervento armato; 2) la seconda quella della ricerca di soluzioni politiche; 3) la terza quella della ricostruzione. L’intervento dei civili viene visto come importante soprattutto nella seconda e la terza fase. Alle rimostranze di alcuni dei partecipanti al colloquio sul fatto che così si metteva del tutto in secondo piano una delle fasi più importanti del conflitto, quella nel quale l’intervento di corpi civili di pace può essere più cruciale, e cioè la prevenzione della scalata del conflitto e dell’esplodere del conflitto armato, che deve venire prima delle tre fasi su delineate, l’esperto in questione prima non ha risposto, glissando sull’argomento; poi, sollecitato a voce dal pubblico presente a dire la sua su questo argomento, ha riconosciuto l’importanza della questione ma ha detto che questo è un problema politico che deve essere risolto, non dal suo ministero, ma in sede parlamentare e governativa. Ma ha anche aggiunto che, secondo lui, il dibattito politico sull’intervento militare o meno, e sulla prevenzione dei conflitti armati, era estremamente carente a livello del Parlamento Francese e che loro (i militari) avrebbero preferito un maggiore approfondimento di questa tematica che sembra invece messa in secondo piano anche dagli stessi politici. Ed ha fatto capire che anche loro, i militari, avrebbero preferito un maggiore approfondimento del tema prima di essere costretti ad intervenire con le armi, ed anche a mettere a rischio la propria vita. Se pensiamo al dibattito che in quegli stessi giorni (era il momento della decisione sull’intervento militare in Afghanistan) si era tenuto al Parlamento italiano, ed all’appiattimento di questo, a stragrande maggioranza, su posizioni di appoggio all’intervento del nostro paese nella guerra, senza tenere in alcun conto, ad esempio, le proposte dei Talebani di consegnare Bin Laden, ma perché venisse processato da un Tribunale veramente neutrale (proposta rifiutata sdegnosamente dagli USA che volevano processarlo loro stessi con i loro tribunali militari), non c’è che da dargli ragione e vedere la pochezza di questo dibattito anche nel nostro paese.
Ma se si va a vedere i documenti sul convegno pubblicati sulla rivista “Alternatives Nonviolentes” ( citato) di questa dichiarazione del generale sul desiderio dei militari, prima di essere mandati in guerra, che si affronti più seriamente, a livello politico, il problema della prevenzione dei conflitti armati non c’è alcuna traccia. E’ chiaro che dichiarazioni di questo tipo i militari stessi non possono farle, e se le fanno,come in quel caso, le devono nascondere.


I Corpi Civili di Pace e gli aiuti umanitari

Ma per il caso del Libano si sta verificando invece un altro equivoco. Tutti parlano dell’importanza di mandare in questa area non solo i militari, questa volta effettivamente sotto l’egida dell’ONU, ma anche i Corpi Civili di Pace. Ma c’è la tendenza opposta, quella cioè di credere che qualsiasi cosa facciamo i civili in quella area, e perciò anche attività di aiuto umanitario, queste verrebbero ad essere compiti di Corpi Civili di Pace. Questo equivoco è stato anche influenzato dallo statuto della Comunità Europea, non approvato per il referendum fallito in vari paesi europei, che ha visto recentemente un suo ridimensionamento nell’incontro di Berlino del 21-23 giugno 2007 . Nel testo della vecchia costituzione si parla infatti dell’opportunità di costituire dei Corpi Europei Civili di Pace, ma si colloca questa operazione nel settore degli aiuti umanitari. Cosa che, oltre che dalle organizzazioni che si occupano di questo tipo di interventi, è stata contestata anche dalle organizzazioni umanitarie stesse che non vogliono che i due tipi di lavoro vengano confusi tra di loro, e che, talvolta, preferiscono essere sotto scorta dei militari che di Corpi Civili non armati. Bisogna dire che anche Gandhi, tra i compiti previsti per gli Shanti Sena (Corpi di Pace indiani), vedeva anche gli aiuti in caso di emergenza umanitaria. Ma bisogna tener conto che quando Gandhi scriveva queste cose non esistevano assolutamente, ed in India non esistono tuttora, organismi tipo la Protezione Civile che, in molti paesi, compreso il nostro, intervengono appunto in caso di emergenze civili. Per capire le differenze tra questi due tipi di lavoro è bene partire dalle esperienze pregresse (Cereghini, 2000, Tullio, 2002). Le organizzazioni che hanno operato, molte delle quali stanno tutto operando, in varie parti del mondo, con modalità che cercano di anticipare quelli che dovrebbero essere i compiti precipui di corpi civili di pace, hanno svolto o svolgono attività di questo tipo: l’appoggio ai gruppi locali, in situazioni di pre-conflitto o di conflitto aperto, che utilizzano gli strumenti della nonviolenza per la difesa dei propri diritti; l’accompagnamento continuo di persone minacciate dagli “squadroni della morte”, o comunque a rischio; l’organizzazione di vere e proprie ”Ambasciate di Pace” in quelle località per studiare a fondo i problemi connessi alla possibile esplosione del conflitto e per cercare di trovare delle vie per una soluzione pacifica, prevenendone l’esplosione; l’attivazione di incontri tra le parti in conflitto per cercare delle soluzioni concordate; l’ organizzazione di marce o di interventi di molte persone, per un periodo di tempo limitato, per appoggiare iniziative di pace delle due parti, e drammatizzare la situazione in modo da stimolare un intervento responsabile della comunità internazionale; l’osservazione della regolarità di elezioni e del rispetto dei diritti umani; la formazione alla nonviolenza, al rispetto dei diritti umani, al dialogo interetnico e alla riconciliazione di membri attivi della società civile dei due contendenti, tentando di unirli anche nella fase della formazione, e cercando, con loro, delle possibili soluzioni al conflitto stesso. Invece le organizzazioni umanitarie tradizionali si occupano, normalmente, di: assistenza a fasce deboli della popolazione (bambini, anziani, handicappati,donne); aiuto alla ricostruzione di case, o di strutture di servizio (scuole, ospedali, centraline per la potabilizzazione dell’acqua, ecc.) distrutte da catastrofi o dalla guerra; cura, in loco o all’estero, se necessario, di malati o di feriti; la distribuzione di viveri, o in natura, o sotto forma di cibo, a persone sotto il livello economico di sussistenza; l’aiuto a fasce deboli della popolazione (ad esempio donne-vedove) per lo sviluppo di attività che creino guadagno (ad esempio dando a queste una o più mucche da allevare, dalla quale trarre il latte per i loro bambini, e nello stesso per venderlo in parte ed avere un piccolo reddito aggiuntivo); e simili. Tutte attività estremamente importanti, da non sottovalutare, ma che rischiano molte volte di rendere le popolazioni dipendenti dagli aiuti esterni, e non aiutarle ad essere autonome. Ma come si può vedere i due tipi di attività su indicate, pur importanti tutte e due, hanno una differenza di fondo: quelle dei Corpi Civili di Pace sono orientate alla prevenzione dei conflitti armati, ed alla ricerca di soluzioni alternative alla guerra ed alla lotta armata; quelle umanitarie alla difesa delle fasce più deboli della popolazione, per evitare una loro morte per fame, e permettere loro di sopravvivere alle carestie ed alle guerre. Che tra questi due tipi di interventi ci siano importanti interconnessioni, è chiarissimo. Questa interconnessione emerge con grande chiarezza da un detto dell’Abbè Pierre, un prete francese che si è molto dedicato all’aiuto delle fasce emarginate della società, che scrive: “Aiuta subito chi ha bisogno, ma lotta contro le cause del suo bisogno: ognuna di queste due attività non può essere trascurata senza rinnegarsi a vicenda”. E’ chiaro che se non si lotta contro le guerre, prevedendole e prevenendole, a causa delle loro distruzioni di persone e di beni, il numero di persone senza casa, senza lavoro,e senza un minimo di sussistenza, spesso anche rifugiate in altri paesi perchè profughi, aumenterà notevolmente; ma se non si aiutano subito queste persone in disgrazia ed in condizioni di vita miserevoli, questo stato farà crescere tra di loro, o la loro estrema alienazione e passività tanto da renderle eterne dipendenti dagli aiuti esterni, oppure un senso di ribellione verso gli altri, quelli che stanno bene, tanto da convincerli ad usare o il terrorismo o la ribellione armata, od anche la criminalità, per uscire dal loro miserevole stato. E questo a sua volta incrementerà le lotte armate e la violenza. Ma questo non vuol dire che necessariamente questi due tipi di attività debbano essere portati avanti insieme. Alcune organizzazioni ci sono riuscite, tra queste sicuramente i “Medici senza frontiere” ed “Emergency”, ma molte altre si limitano, perché è più facile trovare i fondi per questi problemi dato che la gente si commuove vedendo le persone in stato di bisogno, a svolgere attività di aiuto umanitario, e l’attività di previsione e prevenzione dei conflitti armati viene spesso del tutto trascurata. D’altra parte queste due tipi di attività richiedono anche capacità e conoscenze diverse, per l’aiuto umanitario spesso può bastare una buona volontà ed un buon cuore, e qualche capacità organizzativa; per la previsione, la prevenzione dei conflitti armati, o per le altre attività previste per i Corpi Civili di Pace, ci vuole una grande preparazione umana e sociale, e molte conoscenze sui modi per risolvere nonviolentemente i conflitti, per mediarli o per trasformarli creativamente. E queste competenze sono molto più difficili a trovare, e richiedono, oltre all’impegno personale, anche una professionalità specifica.

Quali possibili strategie per accelerare la nascita di veri e propri Corpi Civili di Pace?

Abbiamo visto, da tutto quando detto finora, che i Corpi Civili di Pace, tardano ad essere costituiti, e si preferisce invece potenziare, anche a livello europeo, la risposta militare alle crisi, cercheremo di vedere come è possibile incentivare il processo della loro costituzione ufficiale che procede così lentamente. Visto che si sono fatti passi molto ridotti nell’organizzazione dei Corpi Europei Civili di Pace di cui pure si parla nel testo del vecchio Trattato, ma con gli equivoci prima accennati, e che anche l’Ulivo, attualmente al governo nel nostro paese, ne accenna nel suo programma, sembra importante elaborare una strategia per sviluppare la coscienza dell’importanza di questo strumento, e per implementarne la loro realizzazione.
Ma quali le possibili strategie? Un ricercatore per la pace australiano che ha studiato a fondo come sradicare la guerra (Martin,1990) individua, per questo compito, tre possibili strategie:
La strategia politica tradizionale. Questa prevede la sostituzione della classe dirigente che sia contraria ad una politica di pace, con un'altra più aperta a questi problemi e decisa ad invertire la rotta. Questo può, normalmente avvenire o attraverso una rivoluzione (disarmata e nonviolenta, perché, nel caso fosse armata la pace si allontanerebbe), o attraverso il voto. L'obbiettivo è quello di cambiare il gruppo al potere mandando al suo posto uno più aperto ai problemi della pace. Questa strategia può avere effetti positivi quando riesce, senza l'uso delle armi e senza morti e distruzioni, a portare al potere una classe politica meno corrotta e più determinata a battersi contro i meccanismi della "macchina bellica mondiale" (Cavagna, 1996, p.74). Ma ha due grossi difetti: 1) rischia di far sottovalutare i meccanismi costringenti che impediscono ai governi nazionali di essere realmente autonomi nelle loro prese di decisione. Ad esempio di questo può essere richiamata l’esperienza del nostro paese in rapporto alla guerra del Kossovo. In questa le sinistre al governo hanno dovuto tener conto, come dice D’Alema, allora primo ministro del nostro paese, nella sua intervista sul Kossovo, a giustificazione del nostro intervento nella guerra (D’Alema, 1999): che “nella difesa e nella politica estera, la sfera decisionale è ormai particolarmente complessa, si combinano elementi sopranazionali e meccanismi formali intergovernativi. Chi rappresenta l’Italia decide insieme ad altri, può essere messo in minoranza, ed io credo debba con responsabilità accettarla… Il rischio peggiore – continua – è stare in un paese che non conta niente, espulso dai luoghi dove si decide. Questo è un caso in cui l’eccesso di democrazia apparente ti preclude la democrazia vera, perché ti emargina dalle sedi dove si decide anche per te”: (ibid. p.37). “Questo sembra significare, in altre parole - scrivevo io in un mio libro precedente (L’Abate, 2001, p.26) – che l’appartenenza alla NATO sospende, o almeno riduce notevolmente, le regole democratiche del nostro paese, subordinandole appunto alle decisioni prese in altre sedi in cui gli interessi militari-strategici di altri paesi possono prevalere su quelli dei cittadini italiani. Che significa questo se non che di fronte alle decisioni di fare la guerra e la pace la democrazia è ormai una parola vuota?” A conferma di questo D’Alema aggiunge: “La delega a pochi è una condizione di funzionamento della democrazia moderna. Viviamo in un’epoca in cui il circuito delle decisioni non è più nazionale (ibid. p.38) ”. Come si vede la tesi di D’Alema, autorevole rappresentante della sinistra ed attuale ministro degli Esteri del governo Prodi, è esattamente il contrario di quanto sostenuto da Aldo Capitini (Capitini, 1969,1999), da pianificatori come John Friedmann, e ripreso anche in molti dei lavori dei Forum Mondiali, e cioè che bisogna superare la democrazia puramente delegata per arrivare ad una democrazia come partecipazione, al ”potere di tutti” capitiniano, o alla “democrazia inclusiva” di Friedmann (Friedmann,1993, 2004). Questa limitazione di libertà, e questa impossibilità a portare avanti una politica veramente innovativa, a causa di queste costrizioni internazionali, può portare alla delusione da parte della popolazione nel vedere la difficoltà di agire a livello di un singolo paese contro mali che affliggono l'umanità intera, e contro un sistema che rischia di stritolare o annullare la volontà rinnovatrice di un gruppo o di una classe. E questo, a sua volta, può provocare una reazione del pubblico che non si rende conto dei reali condizionamenti e che perciò può votare per rimandare al potere la classe dirigente di prima, anche se questa, come rischia di avvenire nel nostro paese, è molto meno interessata ad una vera politica di pace di quella attualmente al governo. 2) Il secondo grosso limite di questa strategia, secondo Martin, è quello che non mette in discussione la struttura di potere di tipo verticistico e basato sulla delega, che impedisce forme di partecipazione di base più intensa e decentrata che potrebbero permettere un valido rapporto tra base e vertice, un controllo reale della classe dirigente da parte della popolazione, ed anche forme di difesa del paese nonviolente, che implicano una grossa partecipazione ed impegno popolare, sia nel caso di attacchi esterni, sia in quelli di golpe interni (sia di tipo violento (vedi Gladio), sia di tipo dolce (vedi P2).
La seconda strategia indicata da Martin è quella più frequentemente messa in funzione dal movimento per la pace italiano. E' quella dell'organizzazione di forme di pressione dal basso che "costringano" o "consiglino" il potere a fare concessioni, sociali economiche e politiche, nelle direzioni auspicate dai movimenti per la pace e per la solidarietà. I limiti citati per la prima strategia valgono anche per questa in quanto accetta la struttura di potere attuale (sostanzialmente centralizzata e verticistica) ed agisce molto limitatamente per modificarla.
La strategia più valida, secondo questo studioso, per lottare validamente per la pace e la giustizia sociale è invece la terza. Questa prevede non tanto di chiedere o premere perché altri, il potere, faccia quello che noi riteniamo importante sia fatto, ma l'organizzarsi a livello di base per farlo noi stessi. Senza “aspettare Godot”, si potrebbe dire ricordando la commedia omonima. Questo comporta un grosso lavoro per organizzare quelli che potrebbero essere chiamati dei veri e propri contro-poteri, ma che si dovrebbero invece chiamare "poteri reali di base". Nell'immagine della rivoluzione russa questi erano i “soviet”, in quella degli anarchici spagnoli nella resistenza al fascismo i “gruppi di affinità”, nell'immagine del potere di tutti capitiniano è lo sviluppo di “organismi di autogestione” nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole, nelle campagne, od anche all'interno di singole categorie professionali. Esempi di organismi che hanno portato avanti un lavoro di questo tipo, molto importanti proprio per una azione nel campo della pace, sono il lavoro di Danilo Dolci in Sicilia che, lavorando a stretto contatto con la popolazione locale in una forma di programmazione partecipata, ha portato a migliorare le condizioni di vita della popolazione di una zona piuttosto vasta attraverso la costruzione della diga sul fiume Iato (Dolci, 1964,1968,1972), oppure organizzazioni tipo i "medici contro la guerra" nella quale i medici stessi si organizzano per lottare contro la guerra e per cercare di prevenirne l’esplosione, oppure gli "insegnanti per la pace e per la nonviolenza", o organismi di autogestione che si sono creati nell'università o nelle scuole secondarie superiori, al tempo delle occupazioni. Ed anche i “centri sociali autogestiti” in cui spesso giovani, talvolta violenti ma spesso anche non-violenti, fanno le loro prime esperienze di autogestione e di superamento dei morsi della droga e dell’alienazione. Altri esempi sono le organizzazioni di base non governative che lottano contro la droga (ad es: il Gruppo Abele), per la solidarietà con il terzo mondo (ad es: Mani Tese, Cospe, Centro Nuovo Modello di Sviluppo di Vecchiano - Pisa, ecc:), o per lo sviluppo di metodi di lotta nonviolenti (come il MIR, il MN, Pax Christi, ecc.), o quelli che portano avanti lotte nonviolente ambientaliste (es. Greenpeace, ecc.). Ed infine le organizzazioni, come quelle che fanno parte dell’IPRI-Rete Corpi Civili di Pace, che ha partecipato attivamente all’organizzazione di questo convegno, che da anni portano avanti attività di ricerca-azione nel campo della previsione e prevenzione dei conflitti armati, e per la riconciliazione dei ex-nemici, ed anche per lo sviluppo, alla base, di una difesa popolare nonviolenta, come i Berretti Bianchi, il Centro Studi Difesa Civile, l’Associazione per la Pace, oppure la Campagna Nazionale per l’Obiezione di Coscienza alle Spese Militari e per la DPN (campagna che pur non intervenendo direttamente in questi conflitti ha finanziato molte delle attività di questo tipo), ed infine ultima ma sicuramente una delle più attive, e meglio organizzate in questo campo, come l’Operazione Colomba dell’Associazione Papa Giovanni XXIII.
Ma troppo spesso questi organismi si chiudono nel loro interesse settoriale e particolare, e non portano avanti una politica comune che trascenda i propri campi e le proprie specifiche competenze. Un tentativo di superare questi particolarismi è quello Rete di Lilliput cui aderiscono moltissime organizzazioni di base del nostro paese. Una strategia di questo genere, che lavora dal basso per fare le cose che il potere trascura cercando però anche di stimolare il potere perché questo sia più attivo (unendo nel loro lavoro perciò anche elementi della seconda strategia su accennata) ha molte più possibilità di agire a fondo nel nostro sistema sociale perché, nell'agire, modifica anche la struttura di potere centrale portando, da una parte, ad un suo decentramento reale alla base, e dall'altra, grazie alle pressioni di base, può aiutare il potere centrale, se questo è attento e capisce l’importanza di questo modo di agire, a contrastare le scelte (o almeno a non farsene influenzare eccessivamente) di quelle organizzazioni internazionali (Banca Mondiale, F.M.I., multinazionali, Nato) che sono parte integrante della macchina bellica ed elementi portanti del "circolo vizioso" della guerra di cui ho parlato in altri miei scritti.(L’Abate, in Cavagna , 1996,pp.71-81)

I Corpi Civili di Pace e la diplomazia dal basso

Un lavoro comune tra tutte queste forze ed organismi di base potrebbe rendere anche effettiva la proposta di una valida diplomazia popolare, dell'apertura di vere e proprie ambasciate di pace, o dell'organizzazione di Forze Nonviolente di Interposizione (o Corpi Civili di Pace) che intervengano in situazioni di conflitto, come ha fatto Mir Sada nella Ex-Jugoslavia, o la Campagna Kossovo in questa area dei Balcani, e come stanno cercando di fare la W.R.1. (Internazionale dei Resistenti alla Guerra), I' I.F.O.R. (Movimento Internazionale per la Riconciliazione), o l’Associazione Giovanni XXIII, l’Associazione per la Pace ed i Berretti Bianchi in Israele–Palestina, ed infine anche lo stesso l’IPRI-Rete dei Corpi Civili di Pace (in cui confluiscono molte di queste organizzazioni) con un suo progetto di intervento di Corpi Civili di Pace nel Medio Oriente (Libano, Palestina, Israele). E’ solo facendo dal basso una politica nuova e coraggiosa che potremo, in un futuro speriamo non troppo lontano, avere istituzioni nazionali ed internazionali che agiscano anche loro per la progressiva rottura del circolo vizioso della guerra.
Ma un altro aspetto importante di questa strategia è quello del doppio binario, e cioè di un lavoro fuori e dentro le istituzioni che riesca ad unire, in modo sinergico, gli sforzi per modificare la realtà. Da varie esperienze avute, nelle lotte in Maremma contro le centrali nucleari, o contro l’impianto di missili di primo colpo, come i Cruise a Comiso, utilizzabili solo per attaccare e non per difenderci, in contrasto perciò con l’art.11 della nostra costituzione repubblicana, ne ho tratto l’insegnamento che, per raggiungere un valido cambiamento sociale, bisogna avere un doppio binario (per utilizzare la metafora dei treni). E cioè la presenza di persone esterne all’istituzione che lottino per cambiare i progetti istituzionali che esse ritengono errati, ma avendo anche persone interne a quelle stesse istituzioni che appoggino queste lotte e cerchino, dall’interno, di modificare le decisioni, spesso già prese senza tener conto delle esigenze della base. Il cambiamento reale viene sia dalla pressione esterna, che è molto più forte e valida se i gruppi hanno scelto la terza strategia, e se perciò queste organizzazioni hanno già esperienza di modi alternativi di operare in quel settore, sia dall’iniziativa interna alle istituzioni che dovrebbero operare in quel campo ma che spesso si lasciano trascinare da esigenze, o di singoli partiti, o di alleanze, o di organismi sopranazionali spesso monopolizzati da interessi non sempre chiari o legittimi (ad esempio le multinazionali, o la politica elettorale degli USA). Se questi due binari si rinforzano a vicenda possono riuscire a modificare la situazione precedente. Questo doppio binario permette anche di influire sulla burocrazia, permettendo di renderla meno “burocratica”, meno rigida e servile, dando a questa la possibilità di confrontarsi con il movimento di base e con le sue istanze e problemi. C’è infatti un estremo bisogno, per andare verso una società migliore e più valida, di una burocrazia più aperta al dialogo ed alla messa in discussione di se stessa. In una parola si potrebbe dire: “organizzazione si, burocrazia no!”.

Corpi civili di pace professionali o volontari?

Se si viene a parlare dei Corpi Civili di Pace si pone subito il dilemma: questi dovrebbero essere composti da professionisti che fanno questo tipo di attività come lavoro a tempo pieno e sono preparati espressamente per questo ruolo, oppure da volontari come quelli che, all’interno di alcune delle associazioni di cui abbiamo parlato, si sono già impegnati da tempo, e spesso anche in luoghi diversi, in questo tipo di lavoro ? La risposta a questo quesito riporta a quanto abbiamo detto prima sul “doppio binario”. Anche se alcune delle associazioni hanno personale pagato che lavora a pieno tempo, ed anche una delle associazioni che fa interventi di questo tipo in situazioni di conflitto come Nonviolent Peace Force dà agli operatori che intervengono nei suoi progetti un salario, non paragonabile a quello delle Organizzazioni Internazionali Governative, ma sufficiente a mantenere l’abitazione e la famiglia del volontario stesso, un corpo civile di pace come quello di cui si parla a livello europeo che, in una prima ipotesi fatta in uno degli incontri di studio preliminari in Austria (Segreteria per la DPN, 1996) , è stato quantificato ad un minimo di 1000 ed un massimo di 2000 persone, non potrebbe essere formato da volontari ma richiede, sia per i salari che per le attrezzature necessarie (auto, strumenti di comunicazione, aerei, ecc.) un investimento notevole che nessuna delle organizzazioni che lavora in questo campo ha attualmente a disposizione. Dovrebbe perciò essere gestito direttamente dalla Comunità Europea ed avere personale, appositamente ben preparato, che fa questo tipo di lavoro a pieno tempo ed a tempo prolungato (anche tutta la vita). E perciò deve essere formato necessariamente da professionisti. Ma questo sicuramente non basta. I limiti di un contingente di questo tipo sono di due tipi: uno numerico ed uno politico. Partendo da quello numerico 1000 o 2000 persone possono essere molte, od anche troppe, in certe situazioni ed in certi paesi, ma possono anche risultare non sufficienti in altre circostanze. Se si va a vedere infatti i vari casi di interposizione nonviolenta in conflitti armati che hanno avuto successo (L’Abate, in Drago, Soccio, 1995) in alcuni casi le persone che sono intervenute, ed hanno portato alla fine del conflitto armato erano poche migliaia (Algeria), ma in vari altri casi il loro numero era molto superiore e si aggirava sulle 60.000 ( vedi il caso della Cina, 1968), ed anche oltre 100.000
(le Filippine, nel 1986). Ma l’aumento del numero delle persone impiegate a pieno tempo in questo campo non risolverebbe del tutto questo problema a causa del secondo limite: quello politico. Infatti l’elemento importante per il successo delle iniziative su indicate non è stato tanto il numero in sé quanto la caratteristica delle persone impegnate. In tutti questi casi la caratteristica delle persone che si erano intromesse tra le due parti in conflitto per chiedere la fine dei combattimenti (con cartelli e scritte del tipo “di sangue ne abbiamo versato anche troppo” “basta sangue, usate la ragione e non le armi!,” ecc.) era quella di essere persone legate alle due parti da legami di parentela (padri, madri, figli, o altri parenti ) (Algeria, Filippine), oppure da legami politici- ideologici (operai delle fabbriche e contadini - ispirati, sembra, dallo stesso Mao - nel caso del conflitto, in Cina, tra studenti di due fazioni maoiste in conflitto l’una con l’altra). Le persone coinvolte direttamente in prima persona in un conflitto non accetterebbero facilmente l’aiuto di persone esterne, ad esempio di un Corpo di Pace Europeo di tipo professionale che sia intervenuto per sedare il conflitto a causa della caratteristica diversa delle persone impegnate (professionisti da una parte /semplici cittadini dall’altra), mentre sarebbero sicuramente più pronti ad accettare l’aiuto di Corpi Civili che fossero composti da volontari, e che perciò non guadagnino dall’intervento ma lo facciano per ragioni umanitarie e di solidarietà con le popolazioni stesse coinvolte nel conflitto. Inoltre professionisti stipendiati, proprio per il ricatto del salario, sono costretti a seguire la politica di chi li paga, in questo caso dell’Unione Europea, politica che potrebbe essere vista dalle popolazioni locali come avere interessi suoi propri non necessariamente comuni a quelli delle popolazioni in conflitto. Da lì una certa diffidenza e distacco, e notevoli difficoltà a collaborare insieme. Istruttiva a questo riguardo è l’esperienza dei Corpi di Pace statunitensi che spesso, dalle popolazioni locali, venivano visti non come dei veri collaboratori ma come una lunga mano della politica USA nei loro riguardi, e che venivano spesso considerati degli strumenti dello spionaggio della CIA, e forse, in alcuni casi, lo sono stati, probabilmente per l’infiltrazione, al loro interno, di spie ufficiali di questa organizzazione. Questo potrebbe succedere anche per i Corpi Civili di Pace Europei se prevale la loro caratteristica puramente istituzionale. Da qui l’importanza di avere, non in alternativa ma in aggiunta ai professionisti, una quota rilevante (molto più numerosa dei primi) di persone che facciano parte anche loro dei Corpi Civili di Pace, ma come volontari – con simboli ed indumenti diversi ben distinti dagli altri - , collegati ad organizzazioni di base che abbiano scelto, come alcune delle associazioni prima indicate, come loro missione e vocazione, non la politica del proprio paese, ma la lotta contro la guerra, per la previsione e la prevenzione dei conflitti armati, e per la ricerca di soluzioni nonviolente dei conflitti. Questo era del resto già preconizzato nel primo documento, promosso dal parlamentare altoatesino Alex Langer, approvato dal Parlamento Europeo il 17 maggio 1995 (il rapporto “Burlanger/Martinez ), che dice esattamente.”un primo passo verso un contributo nella prevenzione dei conflitti potrebbe essere la creazione di un Corpo Civile di Pace Europeo (che includa gli obbiettori di coscienza) con il compito di addestrare osservatori, mediatori e specialisti nella risoluzione dei conflitti”. E dallo stesso documento risulta che il Corpo previsto avrebbe dovuto essere costituito, inizialmente, da mille persone, di cui 300/400 professionisti, e 600/700 volontari. In seguito, se i risultati di questo primo intervento fossero stati positivi, era previsto l’aumento del personale in modo notevole. Come si vede anche in questo documento era prevista la doppia figura del professionista e del volontario. Purtroppo, come abbiamo già detto, questo ed altri documenti approvati dal Parlamento Europeo (quello successivo è del 1999) che vanno nella stessa direzione, sono restati lettera morta, ed ancora tali corpi sono lontani dall’essere costituiti. Comunque, per tornare al ragionamento di prima anche i volontari hanno dei limiti ben precisi, il primo è quello della continuità dell’intervento. Una persona normale, che ha un lavoro qualsiasi con il quale mantiene la propria famiglia, non può assentarsi che per un periodo di tempo determinato, che spesso coincide con le sue vacanze. Ma il lavoro per la pace richiede tempi lunghi. Comunque ci sono situazioni che possono facilitare questo tipo di attività. Ad esempio i professori universitari, avendo la possibilità di avere periodi di congedo anche lunghi per ragioni di studio, possono passare all’estero anche periodi prolungati utilizzati non solo per studiare un conflitto (secondo uno dei nostri relatori, Reychler, addirittura per adottarlo) (Reychler,1997), ma anche per cercare delle possibili soluzioni ed implementarle. Tutte attività queste che sono in totale sintonia con l’attivazione di Ambasciate di Pace che sarebbe molto importante diffondere in varie parti del mondo. E questo almeno fino a quando le ambasciate ufficiali si preoccupano quasi esclusivamente di attivare il nostro commercio con l’estero, sottovalutando spesso le implicazioni che questo (pensiamo ad esempio alla ricerca di committenti per le nostre armi, ma non solo per queste) può avere sullo sviluppo di conflitti armati. Questa possibilità di un congedo per ragioni di studio, avuto per due anni consecutivi, ha permesso a me personalmente, ed a mia moglie che mi ha accompagnato, la riapertura dell’Ambasciata di Pace in Kossovo e lo svolgimento di studi, la partecipazione e l’organizzazione, da parte della campagna Kossovo che gestiva quella Ambasciata, di iniziative varie per la prevenzione della guerra. (L’Abate, 1997,1999). Malgrado che la fine della guerra sia poi stata raggiunta attuando proposte che erano state già individuate in precedenza, prima del suo inizio, da una organizzazione nongovernativa svedese (Transnational Foundation for Peace and Future Studies TFF), riprese ed arricchite anche da noi, non siamo riusciti ad evitare l’esplodere del conflitto armato perché gli interessi per la guerra da parte degli USA (per costruirsi poi in Kossovo una delle più grandi basi militari dei Balcani), e della Nato (per fare considerare questa alleanza necessaria anche dopo il crollo del patto militare di Varsavia), erano ben più forti dello scarso peso politico della nostra e di tutte le altre organizzazioni non governative che si sono adoperate per trovare soluzioni pacifiche e concordate al conflitto in atto (Fumarola, Martelloni, 2000). Ma a questo fallimento ha anche influito l’insipienza della nostra diplomazia, e la scarsa attenzione data dai politici nostrani, ed anche di altri paesi, alla prevenzione dei conflitti armati. Questo viene del resto riconosciuto anche da D’Alema, allora Presidente del Consiglio, nell’intervista sopracitata . Dice D’Alema, parlando appunto degli insegnamenti derivati da quella guerra. “Abbiamo anche appreso lezioni severe: oggi sappiamo, con più chiarezza di prima, che dobbiamo impegnarci molto più a fondo nella prevenzione delle crisi. La tragedia potenziale del Kosovo era evidente già alla fine degli anni Ottanta: l’abbiamo trascurata, l’abbiamo lasciata marcire e poi esplodere, abbiamo a lungo guardato altrove ed alla fine siamo dovuti intervenire con la forza. Se avessimo reagito subito forse l’uso della forza, con tutte le sue drammatiche implicazioni, non sarebbe stato necessario” (D’Alema,1999, pp.110-111). Dalla nostra esperienza possiamo dire, con sicurezza, che quel ”forse” di D’Alema, da noi sottolineato, si sarebbe potuto eliminare se la nostra diplomazia non avesse pensato solo alla ricerca di creare in Serbia una zona di “mercato privilegiato” per le nostre industrie, ed avesse pensato invece a studiare in modo serio, anche con il nostro aiuto che abbiamo sempre offerto, come risolvere “la tragedia potenziale del Kosovo” di cui parla D’Alema , in modo pacifico e costruttivo. La guerra, come vedremo più tardi nella parte dedicata alla situazione dei Balcani, non ha affatto risolto i problemi di quell’area, ed anzi, credo si possa dire senza molti dubbi, li ha aggravati.
Ma dopo questa lunga digressione sulle potenzialità di docenti universitari, dato che questi sono sicuramente una estrema minoranza tra coloro che si impegnano concretamente sui problemi della pace, torniamo ai limiti dell’intervento del volontariato in progetti dei Corpi Civili di Pace. Questi non possono essere portati avanti da persone a turno, come siamo stati costretti a fare nell’intervento dei Volontari di Pace di Medio Oriente prima della guerra del Golfo del 1991 (L’Abate, Tartarini, 1993). In questa si facevano turni di presenza di 15 giorni, tranne alcuni come il sottoscritto che è potuto restare per circa tre mesi grazie ai privilegi dell’essere docente universitario, e l’essere stata, la docenza universitaria, divisa in semestri. Ma questo cambiamento continuo di persone rendeva il lavoro frammentario e non ben coordinato, indebolendone seriamente la qualità. Ed infatti organizzazioni come le P.B.I, (Peace Brigades International), od anche come l’Operazione Colomba, chiedono, giustamente, la presenza per almeno sei mesi, e recentemente, le PBI, addirittura per un anno. Ma una presenza così prolungata è possibile solo da parte di giovani che non abbiano ancora una famiglia ed un lavoro, e che possono entrare anche nei quadri del Servizio Civile previsto dai progetti approvati dall’Ufficio Nazionale per il Servizio Civile (UNSC). Ma queste persone non hanno molta esperienza e solo con molte cautele sono utilizzabili in situazioni pericolose di pre-conflitto, o di conflitto già aperto, come quelle in cui si prevede possano e debbano intervenire i Corpi Civili di Pace. Le squadre del Balkan Peace Team, intervenuti con noi in Iraq durante la prima guerra del Golfo, erano invece in gran parte composte da persone anziane, pensionate, con figli già adulti e sistemati, e che, perciò, si sentivano libere di rischiare anche la loro vita per l’ideale di pace e di nonviolenza cui si erano dedicate. Ed erano spesso persone con una lunga esperienza di lotte nonviolente, o di lavoro in organizzazioni anche complesse, e che potevano perciò essere molto utili anche alla popolazione locale per aiutarla a superare i limiti di disorganizzazione spesso presenti tra i gruppi locali più emarginati e meno capaci di azione organizzata. Per questo è molto interessante la Legge Regionale dell’Emilia Romagna (n 20/2003) che prevede l’estensione anche a persone più anziane delle prerogative che le leggi n. 230/98 e 64/2001 che regolamentano il servizio civile volontario, danno ai giovani sotto i 28 anni che possono accedere a questo servizio. Spero che anche altre Regioni Italiane abbiano già approvato, o approvino nel prossimo futuro, una legge di questo tipo Queste persone sono infatti più mature, e più preparate dei giovani, ad affrontare e lavorare in situazioni difficili e rischiose come quelle indicate prima. Ma forse anche la Legge Nazionale per il Servizio Civile potrebbe essere rivista per permettere appunto a persone di qualsiasi età, soprattutto anziane e pensionate, di partecipare a queste attività. Chi ha esperienza di questo tipo di interventi sa come, spesso, persone anche in età di pensione possano essere preziose per portare avanti attività di questo genere. Ma un problema particolare riguarda le persone di media età, non più giovani per poter rientrare nei limiti della legge attuale del Servizio Civile (28 anni), ma nemmeno anziane e pensionate. Per queste, che sono quelle che normalmente danno un contributo importantissimo alle attività dei Corpi Civili di Pace nei vari progetti che molte associazioni che da anni operano in questo campo – riunitesi nell’Associazione APS: “IPRI- Rete Corpi Civili di Pace” - e che hanno portato avanti progetti importanti in vari paesi del mondo (Serbia, Bosnia, Kossovo, Palestina-Israele, Iraq, Colombia, Nicaragua, Shri Lanka, Congo), questo organismo ha promosso un progetto di legge, primo firmatario l’Onorevole Tiziana Valpiana, perchè possano avere un anno di congedo dal lavoro senza perdere i diritti a questo collegati (anzianità, pensione,ecc.,ecc.). Le attività portate avanti in vari paesi da queste organizzazioni, di cui abbiamo già parlato prima, sono molto importanti e fondamentali anche nel caso si dia vita a dei Corpi Civili di Pace a carattere istituzionale, ed arricchirebbero notevolmente un intervento istituzionale di questo tipo se si trova il modo di creare una sinergia tra quelli che abbiamo chiamato i due binari della ferrovia, e cioè tra Corpi Civili Nonviolenti professionali e quelli volontari.

I Corpi Civili di Pace e la Difesa Nonviolenta

Per far comprendere meglio i possibili collegamenti tra i Corpi Civili di Pace e la Difesa Popolare Nonviolenta (DPN) ho elaborato, durante un convegno su questi temi svoltosi in Germania, un triangolo che viene qui riportato:
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I tre angoli sono: da una parte i gruppi locali che devono lavorare sul loro territorio per affrontare i problemi ivi presenti (razzismo, mafia, corruzione, deterioramento dei principi democratici, ecc.), ed appoggiare localmente le iniziative internazionali in corso; dall’altra la presenza di volontari a lungo e medio termine in situazioni di conflitto latente in cui la loro presenza, e soprattutto l’appoggio ai movimenti pacifisti e nonviolenti stranieri, possano aiutare a prevenire l’esplosione di un conflitto ed a trovare soluzioni nonviolente. Questa presenza a lungo termine in situazione di conflitto, riprendendo alcune esperienze fatte dai quaccheri, le abbiamo chiamate “ambasciate di pace”. Ed infine l’angolo del coordinamento nazionale ed anche internazionale che è indispensabile perché il tutto funzioni. Al centro del triangolo abbiamo posto quelle che abbiamo definito FNP (Forze Nonviolente di Pace ), sotto forma di azioni a breve raggio, come marce, invasioni pacifiche, tentativi di interposizione nonviolenta, ed altre iniziative di questo tipo, che possano risultare indispensabili, o almeno utili, come appoggio alla resistenza nonviolenta della popolazione locale nelle zone a rischio (dove è collocata l’ambasciata di pace). Questo, d’altra parte, mi sembra concordare in pieno con il modello organizzativo proposto dai tedeschi al loro “Servizio Civile di Pace” in cui si riconosce che questo deve essere attivo, non solo per la soluzione nonviolenta dei problemi interni, ma anche per possibili interventi internazionali.
In alto al triangolo c'è un coordinamento internazionale. Qualcuno ha detto: "Ma se non riusciamo a coordinarci nemmeno a livello nazionale, come possiamo sperare di farlo ad un livello più vasto”?. È questa la sfida che hanno di fronte a loro i movimenti per la pace e per la nonviolenza: cominciare ad organizzarsi sia a livello nazionale che internazionale, per contrastare la globalizzazione fatta in funzione del capitale e del mercato, con una globalizzazione dal basso per la pace ed i diritti umani. Ci sono alcuni segnali positivi che vanno in questa direzione. I successi e la grande partecipazione ai Forum Mondiali per una Alternativa, per esempio, mostrano il grande interesse verso attività di questo tipo. Non deve più succedere, infatti, quello che è avvenuto soprattutto in Iraq, durante la prima guerra del Golfo, durante la quale gli interventi sono stati portati avanti dai singoli gruppi ed associazioni in modo abbastanza scollegato l’uno dall’altro. E per quanto riguarda le marce organizzate prevalentemente dai Beati Costruttori di Pace in Bosnia, dobbiamo tenere presente che l'intervento, sia il primo (500 persone a Sarajevo), che il secondo (circa 3000 persone a Mostar), hanno richiesto molto tempo per la preparazione dei volontari che vi partecipavano. E questo ha danneggiato lo stesso intervento, in particolare il primo, facendolo arrivare quando il conflitto era a livelli tali da rendere difficile la sua interruzione (L’Abate, in Drago, Soccio, 1995). Se la formazione dei quadri alla nonviolenza fosse stata fatta prima, nei gruppi locali, per affrontare i problemi presenti a quel livello, si sarebbe potuto risparmiare molto tempo e l’iniziativa, molto probabilmente, sarebbe stata molto più efficace. Per questo è importante organizzarci meglio per prevenire la stessa esplosione dei conflitti armati.
Nel secondo angolo del grafico ci sono le "ambasciate di pace".. La permanenza di un gruppo di volontari a Sarajevo, in collegamento con la campagna "Si vive una sola pace" dei "Beati i Costruttori", è stato qualcosa di molto simile ad una ambasciata del genere. Ed una delle iniziative principali realizzate dalla Campagna Kossovo è stata l'apertura di una ambasciata di pace a Pristina che ha svolto un lavoro di notevole interresse e potenzialità (Campagna Kossovo, 2003).
Secondo il progetto delineato attraverso il triangolo prima presentato l’Ambasciata di Pace dovrebbe essere collegata all'altro angolo del disegno, e cioè a dei gruppi locali che comincino ad utilizzare l'azione diretta nonviolenta sui problemi concreti. I problemi da risolvere a livello locale che richiedono l'uso di una azione di questo tipo sono moltissimi: dal razzismo crescente, alla sempre maggiore diffusione del mercato della droga, alla corruzione politica, all'esistenza di veri poteri criminali, come la camorra e la mafia, al rischio di una perdita di democrazia ed ad una centralizzazione del potere che porta, a sua volta, ad una ulteriore militarizzazione di tanti territori, alla presenza, nel proprio territorio di basi nucleari, o di porti dove attraccano navi che trasportano ordigni di questo tipo, ordigni che sono in completo contrasto con il Trattato di Non Proliferazione delle Armi nucleari sottoscritto dal nostro paese, e la cui presenza nelle nostre basi configura il nostro sistema militare come offensivo, e non difensivo, come richiederebbe l’art. 11 della nostra Costituzione. Questa, infatti, rifiuta la guerra come strumento di attacco. Questi fenomeni possono essere combattuti solo grazie ad una maggiore presa di coscienza della popolazione, ad una sua organizzazione di base, ed anche all'avvio di attività in loco che utilizzino l'azione diretta nonviolenta.
Il gruppo locale previsto nel grafico dovrebbe diventare una fucina in cui ci si prepara a questo tipo di azione. Se ne parlava spesso con le persone che erano con noi alla azione nella Ex-Jugoslavia che è stata denominata Mir Sada. E’ un assurdo andare a fare l'azione nonviolenta in Jugoslavia, e non averla mai fatta in casa propria. Cominciamo ad usarla nel luogo nel quale viviamo, contro i problemi di tutti i giorni, formiamo le persone a portarla avanti, cominciamo a vedere, nella pratica, chi può essere in grado di portare avanti un certo tipo di lavoro od un altro. Cominciamo a sperimentare come coinvolgere la popolazione in questo tipo di lotte. Da questa attività possono scaturire professionisti per i Corpi Civili di Pace, o volontari a lungo termine per le ambasciate, od altri disposti ad interventi più brevi ma significativi, ed anche forse più rischiosi, come quelli che dovrebbero portare avanti le Forze Nonviolente di Pace od i Corpi Civili di Pace. Queste attività preparerebbero la popolazione ad essere attiva ed utilizzare le”armi” della nonviolenza anche nel caso fosse necessario difendere il nostro paese da attacchi esterni,o interni, alla nostra democrazia e ad una valida convivenza civile.
Nel disegno partono da ognuno di questi angoli verso gli altri delle frecce bilaterali, di andata e ritorno. Dall'ambasciata al coordinamento internazionale ed ai gruppi locali, e viceversa. E dal coordinamento ai gruppi locali ed alle ambasciate. Questo per sottolineare l’importanza del collegamento continuo tra questi tre angoli, o strutture, del progetto totale. Nel caso delle FNP le frecce sono unilaterali. I gruppi locali devono procurare volontari, il coordinamento internazionale deve procurare i mezzi, gli eventuali professionisti, ed occuparsi dell'organizzazione complessiva. Le ambasciate devono segnalare la necessità e l’opportunità di iniziative di questo tipo e devono collegarle strettamente alle attività della popolazione locale nella zona a rischio. Le FNP intervengono, quando ne risulti l'opportunità e la necessità, nelle zone calde per evitare l'esplosione dei conflitti armati e trovare soluzioni nonviolente.

La Difesa Popolare Nonviolenta ed il Servizio Civile

Come accenna anche Lorenzo Porta nella sua parte di introduzione il passaggio dell’Ufficio Nazionale Servizio Civile dalla Presidenza del Consiglio al Ministro della Cooperazione lascia intendere che, a livello politico, prevale l’opinione che l’obbligo costituzionale di difesa del nostro paese può esser adempiuto anche soltanto attraverso un lavoro umanitario di solidarietà (ad esempio verso gli anziani, o i disabili) senza alcun bisogno di organizzare una Difesa Non-armata e Nonviolenta di cui invece parla l’articolo 1 della legge che costituisce il Comitato Consultivo apposito (CCDNN). La Difesa Popolare Nonviolenta, di cui parla Drago nella sua comunicazione riportata in questo libro, e sulla quale si è scritto tanto negli anni passati, e sulla quale è uscito recentemente un importante studio di A. Drago (Drago, 2006), sarebbe perciò solo un pio desiderio di alcuni utopisti, mentre la difesa della Patria resterebbe perciò una salda prerogativa delle Forze Armate. Che altro può significare questo passaggio, che del resto è in linea con quanto previsto dal Trattato di Costituzione Europea, non approvato dai referendum di alcuni paesi forse proprio per l’eccessivo peso dato alle armi (Oberg, 2006) che vede i Corpi Civili di Pace non come un supporto alla difesa, alla prevenzione ed alla risoluzione nonviolenta dei conflitti, come erano stati voluti e previsti da Alex Langer e dai suoi collaboratori, ma come un appoggio alle attività di tipo umanitario?. Questo va molto bene alle grandi organizzazioni che operano in questo settore, e che hanno visto l’eliminazione dell’obiezione come un attacco al loro lavoro, dato che questo si basava moltissimo sul lavoro volontario degli obbiettori di coscienza, e che vedono il servizio civile come un sostituto di questo lavoro, ma che si sono poco o niente occupate di difesa popolare nonviolenta che non conoscono, come è pure vero dei Corpi Civili di Pace di cui alcuni anni fa quasi nessuno parlava , ma che ora sono nelle bocche di tutti, ma spesso senza sapere nemmeno di cosa parlano.
Nel programma dell’Unione, che ora ha la maggioranza ed è al governo del nostro paese, c’è oltre all’impegno a costituire e dar vita ai Corpi Europei Civili di Pace, anche quello di organizzare un servizio civile per tutti i giovani. Questo impegno ricalca la proposta di legge dell’Onorevole Realacci, presentata pubblicamente a Firenze il 3 Settembre 2005 dallo stesso Realacci alla presenza dell’Onorevole Rutelli, di altri parlamentari della Margherita, e di importanti rappresentanti del mondo dell’associazionismo. Questa proposta prevede un servizio civile obbligatorio di sei mesi per tutti i giovani italiani, visto come un importante momento di socializzazione dei giovani e di rinforzo della solidarietà sociale in quanto aiuto alle fasce più deboli della popolazione.
Pur apprezzando le motivazioni di tale proposta, il direttivo dell’IPRI-Rete CorpiCivili di Pace, di cui fa parte anche il sottoscritto, ha sollevato all’unanimità forti obiezioni al disegno di legge Realacci :
1) L’Obbligatorietà di tale servizio ci sembra del tutto improponibile. A parte infatti il palese contrasto con l’articolo 4 della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo che vieta forme di schiavitù e di lavoro forzato (contrasto ben illustrato dal magistrato Domenico Gallo nel suo articolo sul Manifesto del 21 Settembre 2005), la sospensione dell’obbligo del servizio militare pone, a questo tipo di lavoro, problemi rilevanti: non si può infatti prevedere il servizio civile come sostitutivo di quello militare, come era in passato. Se, nella legge, si ponesse al centro di tale servizio, non tanto, e non solo, l’aiuto umanitario alle fasce più deboli della popolazione, ed indirettamente agli Enti che organizzano tali servizi, ma anche la Difesa Popolare Nonviolenta, o la Difesa Civile Nonarmata (riconosciuta dalla Legge di riforma dell’obiezione di coscienza 230/1998), che invece nella proposta Realacci non viene inserita tra i settori in cui si può svolgere tale servizio, si potrebbe forse superare tale obiezione di formalità in omogeneità con il servizio militare, il cui obbligo è “sospeso” ma non annullato. In caso di necessità può essere ripristinato. Lo stesso si potrebbe fare con il servizio civile considerato, da una sentenza storica della nostra Corte Costituzionale (164/1985), come una forma di impegno rispondente al dovere di difesa della patria. In questo caso il cittadino dovrebbe poter scegliere tra il servizio militare, il cui obbligo fosse stato ripristinato, ed il servizio civile, ripristinato anche questo da un obbligo puramente potenziale che tale legge potrebbe introdurre.
2) Una seconda obiezione riguarda il periodo di sei mesi previsto da tale proposta. Chi ha esperienza di servizio civile sa che, a meno di impiegare il giovane in lavori puramente esecutivi (che non gli servono affatto per maturare ed apprendere una professionalità, ma solo agli Enti per risparmiare sul costo del lavoro - aumentando perciò il già elevato tasso di disoccupazione giovanile ) , i sei mesi non sono affatto sufficienti a portare avanti un lavoro serio, se si tiene conto anche del necessario periodo di formazione. Quando il giovane ha imparato a svolgere bene i suoi compiti avrebbe finito il suo periodo di servizio.
3) La terza obiezione riguarda il salario previsto dal progetto. Mentre il salario dei militari, attraverso la loro professionalizzazione, viene notevolmente aumentato per rendere tale servizio appetibile, ai giovani di questo eventuale servizio civile obbligatorio verrebbe fatta l’elemosina di 300 euro al mese, non sufficienti né per mangiare né per un eventuale alloggio, a meno che questi servizi non vengano offerti dall’ Ente stesso, impegno che nel progetto non viene affatto indicato. Ma nel caso che questo fosse indicato e previsto, che interesse avrebbero gli Enti a spendere soldi per preparare i giovani, come si dice nella proposta, e dar loro prospettive professionalizzanti, per un tempo così ristretto e senza far fare loro lavori puramente esecutivi e bruti che permettono agli Enti di risparmiare in costo del lavoro ma che contraddirebbero agli obiettivi dello stesso progetto?

Ma il direttivo dell’IPRI-Rete Corpi Civili di Pace ha anche fatto alcune proposte alternative :
Il costo di realizzazione di un tale progetto è molto elevato. Anche se la paga prevista è misera il numero di giovani “coscritti” (svariate centinaia di migliaia) è elevato e l’impegno economico del governo sarebbe perciò rilevante. Dato che il servizio civile volontario è attualmente richiesto da oltre 70.000 giovani, ben superiori ai posti previsti nei progetti approvati, perché non incentivare notevolmente i fondi a disposizione dell’UNSC (Ufficio Nazionale Servizio Civile) ed estendere il numero di progetti approvati? Il servizio in tale caso resterebbe volontario, sarebbe pagato un po’ di più di quello previsto dal progetto suddetto (433,82 Euro al mese, magari anche elevando tale cifra), e durerebbe almeno un anno. E perché non allargare il novero delle persone intitolate a svolgere questi servizi, ad esempio anche ad anziani od a persone di media età cui una legge apposita (vedi progetto legge Valpiana) permetta di avere una aspettativa di lavoro per almeno un anno? I progetti da svolgere potrebbero essere potenziati, e ulteriormente qualificati. Ad esempio le Comunità di Pace in Colombia, comunità che nella lotta armata tra l’ esercito governativo, i paramilitari da questo coperti, e la guerriglia, hanno scelto la neutralità e la nonviolenza, e non collaborano con nessuna di queste parti in conflitto (e per questo sono spesso soggette ad angherie, sequestri, uccisioni ed attacchi armati) richiedono con forza (vedi documento conclusivo del convegno “Colombia Vive!” , Cascina, 17-18 Settembre 2005) una maggiore presenza di osservatori ed operatori internazionali. Questi, come ad esempio quelli delle PBI – Peace Brigades Internazionali - stanno sul posto ed accompagnano, del tutto disarmate, i dirigenti di queste comunità che sono a rischio di azioni violente da parte soprattutto degli squadroni della morte. La presenza e l’accompagnamento di volontari delle PBI ha reso più difficili e rari questi attacchi. Ma questi volontari sono solo una trentina e possono lavorare soltanto con poche comunità di pace mentre molte altre comunità di questo tipo (oltre un centinaio) richiedono il loro aiuto. Perché un progetto del genere, che potrebbe coinvolgere varie centinaia di giovani civilisti, ed anche meno giovani nel caso si modificasse in questo senso la legge istitutiva, non potrebbe entrare trai i progetti dell’UNSC ed essere approvato?. Sarebbe un modo concreto di portare pace in un paese da anni martoriato da cruenti conflitti armati.
Oppure, rispondendo alle molte richieste di ONG Europee, ed alle mozioni ripetutamente approvate dal Parlamento Europeo, perché non dar vita concretamente a Corpi Civili di Pace nazionali, ma da integrare con quelli Europei, che intervengano, disarmati ma ben preparati alla azione nonviolenta ed alla risoluzione nonviolenta dei conflitti, ad esempio nel conflitto Israelo-Palestinese, cui si è aggiunto recentemente anche quello con il Libano, per mitigare il conflitto attuale e farlo passare dall’azione armata ad un confronto civile nonviolento?
Ed anche, soprattutto nel nostro paese, perché non dar vita, con volontari in servizio civile, a gruppi di azione nonviolenta da impiegare nella lotta alla criminalità organizzata (mafia o camorra) sviluppando attività di prevenzione sociale e di monitoraggio capillare del territorio?
Se il nostro paese vuole realmente operare per la pace deve sviluppare un tipo di lavoro e di attività di questo tipo, rischiose sì, ma sicuramente più produttrici di pace degli attuali interventi armati che spesso rinfocolano il terrorismo o la mafia invece di combatterli.
Un’altra richiesta, di cui abbiamo già parlato, è quella dell’approvazione della proposta di legge che riconosca una aspettativa dal lavoro di almeno un anno alle persone che lavorano e che si impegnino in attività dei Corpi Civili di Pace (vedi progetto legge Valpiana).
Se queste proposte si traducessero in leggi avremo fatto un passo avanti importante verso un mondo più pacifico nel quale la prevenzione dei conflitti armati, che questi corpi potrebbero notevolmente potenziare, non sarebbe quella attività trascurata e residuale di cui ha parlato D’Alema nella sua intervista prima citata.


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