Riflessione preliminare ad un progetto di fattibilità per l’istituzione del Corpo Civile di Pace (Servizio Civile di Pace) in Italia. Il primato dei diritti umani, della nonviolenza e della politica per la prevenzione e la risoluzione dei conflitti.

Antonio Papisca, Direttore del Centro interdipartimentale sui diritti della persona e dei popoli, Cattedra UNESCO diritti umani, democrazia e pace, Università di Padova

1. Il 26 agosto 2006 si svolgeva ad Assisi un incontro straordinario per iniziativa della Tavola della Pace e del Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani. L’eccezionalità dell’evento, che ha visto la folta partecipazione di esponenti di organizzazioni e movimenti di società civile e di amministratori di enti di governo comunale, provinciale e regionale, era collegata all’intervento delle Nazioni Unite in Libano e al sostegno che la grande maggioranza delle formazioni di società civile aveva manifestato per il ruolo protagonista svolto dall’Italia.
Nel corso della riunione, l’autore della presente riflessione aveva sostenuto la necessità che l’autorità politica mantenesse il pieno controllo delle operazioni militari, facendosi artefice di effettività del vigente Diritto internazionale e operando per il potenziamento della componente civile all’interno delle legittime missioni di pace, soprattutto, per il riconoscimento di missioni direttamente gestite da organizzazioni non governative, gruppi di volontariato, enti locali.
La Vice Ministra Patrizia Sentinelli, presente alla riunione di Assisi, si dichiarava interessata a questa prospettiva.
Il tema è stato ripreso durante una sessione del Forum della cooperazione svoltasi presso il Ministero Affari Esteri il 12 dicembre 2006. In questa occasione, lo scrivente ha dato un ulteriore contributo di riflessione in materia, distribuendo una nota scritta in cui, in termini generali, accennava a due percorsi istituzionali per l’impiego del “civile” nelle missioni di pace: all’interno delle missioni militari, gestite dall’ONU e da altre legittime Organizzazioni internazionali, e, in via autonoma, al di fuori di esse. Veniva ancora ribadito che a sovrintendere a questa delicata materia, anche direttamente ‘sul campo’, fosse l’autorità politica nella figura del Ministro degli Esteri e che l’autorità del Ministro della Difesa fosse subordinata alla prima, in base anche all’assunto che il “militare” non è un “Potere” dello stato, ma uno strumento da usare per il perseguimento di obiettivi compatibili coi principi del vigente Diritto costituzionale interno e internazionale - obiettivi di giustizia -, non per gli obiettivi tipici della guerra classicamente intesa – obiettivi di distruzione -.
Il 20 febbraio 2007, la Vice Ministra Sentinelli mi fa pervenire una lettera con la quale, dopo aver ricordato di aver deciso “di istituire un tavolo di lavoro con l’obiettivo di effettuare una ricognizione sulle esperienze in atto a livello internazionale sul peacebuilding civile e di individuare possibili forme di sperimentazione concreta da mettere in atto al più presto possibile”, mi chiede di “accettare l’incarico di effettuare uno studio sull’argomento che possa rivelarsi utile anche al fine di coordinare il tavolo di lavoro e di offrire proposte concrete per la discussione”.
Ringrazio la Vice Ministra per la fiducia accordatami e rimetto nelle sue mani la riflessione scritta che segue.
Questa tiene conto del rilievo politico dell’evento di società civile che l’ha occasionata, cioè la riunione della Tavola della Pace di Assisi durante la quale, come prima sottolineato, la società civile ha espresso sostegno all’iniziativa Italia-ONU-UE in Libano perché in regola con i dettami della legalità internazionale. Essa tiene conto di esperienze, valutazioni e suggerimenti espressi da associazioni e gruppi di volontariato più direttamente interessati. L’auspicio è che il Ministero Affari Esteri, di concerto con i Ministeri più direttamente interessati, a cominciare dal Ministero della Solidarietà Sociale, prenda l’iniziativa di dare formale, specifica veste istituzionale alla materia, con adeguata e altrettanto specifica dotazione finanziaria.

2. La creazione di una struttura pubblica di Servizio Civile di Pace che, tra l’altro, contribuisca a finanziare l’invio di Corpi Civili di Pace in “aree di crisi”, non è un atto di ordinaria amministrazione. Per le implicazioni strutturali che essa comporta sia all’interno che all’esterno dello stato, la relativa decisione è di alto profilo politico, oltre che morale e educativo. Essa è anche un messaggio indirizzato alla Comunità internazionale, in particolare alle Nazioni Unite e all’Unione Europea, perché si impegnino a dare accresciuta visibilità al “civile” nelle loro missioni di pace e quindi a costruire l’ordine mondiale il cui DNA è inscritto nella Carta delle Naizoni Unite e nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Per l’ordinamento dello stato, il rilievo di un “Servizio civile di pace” è di carattere costituzionale. Infatti, con decisione di istituirlo l’Italia ribadisce, con rinnovata determinazione, il ripudio della guerra “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo per la risoluzione delle controversie internazionali”, la sua volontà di “conformarsi alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” e di accettare “le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”, nonché la sua attiva partecipazione alle “organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo” (Artt.10 e 11 della Costituzione).
Con questa iniziativa, l’Italia intende altresì dare contenuto concreto e coerente a ciò che comporta la qualifica di “stato amante della pace” (peace-loving state), come proclamato dall’Articolo 4 della Carta delle Nazioni Unite.
E’ anche l’occasione per arricchire di prospettive operative il contenuto dell’articolo 52 della Costituzione quale elucidato e aggiornato, tra l’altro, dall’articolo 1 della Legge 6 marzo 2001 n.64 riguardante l’istituzione del Servizio civile nazionale, nel senso cioè di declinare la “difesa della patria” soprattutto in termini di difesa nonviolenta e di azioni positive per “tutti i diritti umani per tutti”, in Italia e in qualsiasi altra parte del mondo, con la partecipazione attiva delle formazioni di società civile che l’articolo 2 della Costituzione collega appunto alla realizzazione dei diritti umani.
Insomma, si tratta per l’Italia di rinnovare il suo impegno a soddisfare il diritto alla pace rivendicato dalle reti di società civile globale dentro le quali, come noto, l’associazionismo pacifista italiano svolge un esemplare ruolo di traino.
L’istituzione del Corpo Civile di Pace è un forte segnale di innovazione e discontinuità rispetto a persistenti, ambigue, vischiose prassi di politica estera e internazionale che si ispirano a concezioni di pace negativa (“si vis pacem para bellum”).
E’ scelta strutturale di pace positiva (”si vis pacem para pacem”), che esprime la volontà dell’Italia di contribuire attivamente alla costruzione di “un ordine sociale e internazionale in cui tutti i diritti e le libertà fondamentali possono essere pienamente realizzati”: è l’ordine mondiale che l’Articolo 28 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani proclama come diritto di “ogni persona” e al cui fondamento la stessa Dichiarazione pone “il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, eguali e inalienabili”.

3. Alla luce di questi rapidi riferimenti normativi che, giova sottolineare, sono di rilievo inequivocabilmente costituzionale, deve esser chiaro che la posta in gioco non si riduce a trovare un po’ di danaro pubblico da erogare a questa o quella Ong o gruppo di volontariato che operano all’estero in situazioni particolarmente critiche.
Il contestuale richiamo di principi e norme di diritto interno e di diritto internazionale, oltre che sgombrare il campo da speculazioni, pregiudizi, strumentalizzazioni e mistificazioni di carattere ideologico o surrettiziamente politico (si pensi all’abuso dello “umanitario” per fini di guerra…), è essenziale al duplice scopo di dare solida base legale al Corpo Civile di Pace e di individuare congrui percorsi operativi di carattere transnazionale, dalla Città all’ONU.
A partire dal 1945, con la Carta delle Nazioni Unite e la produzione normativa che ne è derivata, in particolare con la Dichiarazione Universale del 1948, e le due Convenzioni giuridiche internazionali del 1966 rispettivamente sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali, ha preso corpo organico un ‘capitolo’ di Diritto internazionale che ha carattere fortemente innovativo rispetto al preesistente Diritto internazionale degli stati nazionali-sovrani-armati-confinari, assunti quali soggetti unici ed esclusivi dell’ordinamento giuridico.
Il ‘nuovo’ Diritto internazionale ha come suo fondamento la dignità umana, esso è pertanto il Diritto per la vita e per la pace, con la conseguenza che la sovranità degli stati assume carattere strumentale in ordine al perseguimento degli obiettivi riassumibili nella formula “tutti i diritti umani per tutti”: diritti civili, politici, economici, sociali, culturali, alla pace, allo sviluppo, all’ambiente. La persona umana è oggi, de iure, soggetto ‘originario’ di diritto internazionale, gli stati sono soggetti giuridici ‘derivati’. La centralità della persona è il principio attorno al quale ruota la filosofia dello “human development”, come concetto multidimensionale i cui indicatori sono sia di carattere economico sia di carattere politico, sociale, e ambientale. Sulla scia dello “sviluppo umano” è venuta elaborandosi la filosofia della “human security”, anche questa intesa in senso multidimensionale, di cui il fattore militare (e di ‘ordine pubblico’) è una delle componenti insieme con quelle economiche, politiche, sociali e ambientali.
Insomma, libertà dalla paura e libertà dal bisogno camminano insieme alla luce del principio di interdipendenza e indivisibilità di tutti i diritti umani, il quale rinvia a sua volta al dato ontologico dell’essere umano, fatto di anima e di corpo, di spirito e di materia.
All’interno di questa filosofia, di recente assunta in via ufficiale sia dalle Nazioni Unite (v. il Rapporto del Segretario Generale del marzo 2005 “In Larger Freedom”) sia dall’Unione Europea (v., tra gli altri, i documenti riguardanti la “European Security Strategy”, ESS) e dall’OSCE, la ‘sicurezza umana’ è ‘people security’, sicurezza delle persone e delle comunità umane, e la “state security” le deve essere funzionale. Il paradigma di riferimento è sempre quello dei diritti umani, cioè del binomio vita-pace.

4. Ai sensi del vigente Diritto internazionale, la proscrizione della guerra, intesa quale uso della violenza di stati contro stati per la distruzione, totale o parziale, dello stato “nemico” (entità transustanziata di governo, popolo, territorio), costituisce divieto di Ius cogens, cioè di altissima valenza precettiva nei confronti di tutti (erga omnes).
Il primo comma dell’articolo 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, ratificato dall’Italia nel 1977, esplicita in modo inequivocabile questo divieto: “Qualsiasi propaganda a favore della guerra deve essere vietata dalla legge”.
La Carta delle Nazioni Unite oltre che sancire il ripudio della guerra (definita come ‘scourge’, flagello), fa divieto agli stati di usare la forza per la risoluzione delle controversie, con l’eccezione, rigorosamente circoscritta e circostanziata, della “autotutela” successiva ad attacco armato di stato contro stato (Art.51 della Carta). Insieme con il divieto, la Carta impone agli stati l’obbligo di perseguire vie pacifiche per prevenire e risolvere i conflitti. C’è dunque un rinvio generale alla politica e, dentro questa, al “civile” – soggetti, procedure, strumenti - quale via maestra di gestione delle controversie.
Ratificando la Carta delle Nazioni Unite, gli stati hanno assunto l’obbligo di rinunciare, una volta per tutte, a quello Ius ad bellum (diritto di far la guerra) che per secoli ha costituito attributo essenziale del loro essere “sovrani” ed il cui uso ha nefastamente condizionato l’esercizio dell’altro attributo della sovranità, il diritto a far la pace (Ius ad pacem).
In base alla vigente legalità, il diritto alla pace è delle persone umane e dei popoli e il tradizionale Ius ad pacem degli stati costituisce per questi, non un optional al pari della guerra, ma un preciso dovere: ‘Officium pacis’. Fanno parte di questo dovere il disarmo e il conferimento all’ONU, una volta per tutte, di forze armate nazionali allo scopo di mettere la massima Organizzazione mondiale nella condizione di gestire con efficacia il sistema di sicurezza collettiva previsto dalla Carta.

5. Nel vigente Diritto internazionale, l’uso della forza, anche militare, per obiettivi che non possono mai essere di guerra ma di ‘polizia’ (salvaguardia della vita delle popolazioni, interposizione fra i contendenti, protezione delle infrastrutture produttive e del territorio, cattura dei presunti criminali, ecc.), è infatti devoluto alla competenza e autorità “sopranazionale” delle Nazioni Unite e, subordinatamente e dietro espressa autorizzazione dell’ONU, ad altre organizzazioni internazionali regionali. Ma perché l’ONU possa agire in via coercitiva secondo quanto previsto dall’Articolo 42 della Carta, occorre che essa disponga della forza di polizia militare permanente prevista dall’Articolo 43. Nessuno stato ha finora adempiuto agli obblighi derivanti da questo Articolo: la prassi del peace-keeping è un surrogato, inadeguato e precario, di quanto disposto dalla Carta per la sicurezza collettiva.
Occorre denunciare con forza che è tuttora in vigore l’Articolo 106 - ‘disposizione transitoria XVII’ della Carta delle Nazioni Unite tanto scandalosa quanto sconosciuta - che così dispone: “In attesa che entrino in vigore accordi speciali, previsti dall’articolo 43, tali, secondo il parere del Consiglio di Sicurezza, da rendere possibile ad esso si iniziare l’esercizio delle proprie funzioni a norma dell’articolo 42, gli Stati partecipanti alla Dichiarazione delle Quattro Potenze, firmata a Mosca il 30 ottobre 1943, e la Francia, giusta le disposizioni del paragrafo 5 di questa Dichiarazione, si consulteranno tra looro e, quando lo richiedono le circostanze, con altri Membri delle Nazioni Unite in vista di quell’azione comune necessaria al fine di mantenere la pace e la sicurezza internazionale”. Il senso di questa disposizione, finchè resterà in vigore, è che ci sono cinque stati che sono membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ma che, per quanto riguarda l’uso della forza, si collocano al di sopra della Carta delle Nazioni Unite…
La conseguenza di questo stato di cose, segnato dal moltiplicarsi di flagranti inadempienze giuridiche e da ingiustificabili ritardi politici, è che, per colpa degli stati, il sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite non funziona. Sotto l’imperversare del terrorismo nelle sue varie forme e matrici, gli stati più potenti profittano dell’instabilità da essi stessi alimentata per riappropriarsi della loro piena sovranità militare e quindi del diritto di fare la guerra, compresa la guerra … preventiva. L’alibi, usato anche per la riforma delle Nazioni Unite, viene così motivato: poiché l’ONU è incapace di garantire sicurezza collettiva, questo compito spetta agli stati, l’ONU si limiti a fare ciò che può fare. Dal canto suo, la grande stampa contribuisce a diffondere l’immagine di una ONU-caprio espiatorio.
Il paradosso di questo coacervo di “anticultura” e di “antipolitica” sta nel fatto che da un lato, come prima segnalato, anche nelle sedi ufficiali si affina la dottrina della ‘sicurezza umana’, dall’altro si impenna la curva della corsa al riarmo e si tenta di propagare interpretazioni della Carta delle Nazioni Unite che ne stravolgono lo spirito e la lettera. In particolare, l’Articolo 51 viene interpretato in maniera estensiva, nel senso di legittimare l’autotutela degli stati non soltanto in risposta ad attacco armato, ma anche in via preventiva. Si tenta di trasformare l’eccezione in regola generale.
Su questa china pericolosissima, si colloca la tendenza ad ampliare la tipologia dei casi di ‘minaccia’ in cui sarebbe consentito agli stati di usare la forza militare: in caso di minaccia ‘in atto’, sarebbe legittimo l’uso a titolo di autotutela ‘successiva’ (secondo quanto previsto dalla lettera del citato Articolo 51 della Carta; in caso di minaccia ‘imminente’, l’uso della forza sarebbe legittimato quale intervento “pre-emptive”; l’uso della forza sarebbe parimenti legittimato anche quando la minaccia sia “non-immenente” o “latente”: l’intervento sarebbe a titolo ‘preventivo’; quando si tratti di genocidio o di analoghe efferatezze, allora il principio di riferimento sarebbe quello della ‘responsabilità di proteggere’ e l’intervento degli stati si legittimerebbe quale ‘intervento protettivo’. Per i primi due casi non ci sarebbe bisogno di autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, per gli altri due l’autorizzazione sarebbe necessaria ma, verosimilmente, l’atto del Consiglio si configurerebbe come ratifica di ‘fait accompli’.
Quanto ora riassunto è, purtroppo, contenuto nel pur pregevole Rapporto del Segretario Generale delle Nazioni Unite “In Larger Freedom” del marzo 2005.
Si prefigura un fosco scenario di ‘guerra facile’ (easy war).

6. In presenza di questi inequivocabili sintomi di ‘richiamo della foresta’ e di imbarbarimento del sistema delle relazioni internazionali, giova ribadire che l’istituzione del Servizio Civile di Pace per l’impiego di Corpi Civili di Pace assume il significato di una chiara inversione di tendenza. Lo stato che se ne fa carico si fa assertore di principi forti di legalità internazionale.
Numerosi e stringenti sono gli argomenti che spingono a procedere con la massima urgenza su questa strada.
La copiosa evidenza empirica di cui disponiamo attesta che l’uso della forza militare, al di là dei limiti rigorosamente posti dalla Carta delle Nazioni Unite, oltre che illegale è inefficace anche in base a mero calcolo costi-benefici. Non risolve i conflitti, uccide popolazioni inermi, distrugge infrastrutture essenziali, inquina territori e mari, alimenta la conflittualità inter-etnica e inter-religiosa, provoca effetti di estesa destabilizzazione, alimenta la corsa al riarmo, favorisce interessi e speculazioni di natura economica, finanziaria, tecnologica che contrastano con “tutti i diritti umani per tutti”.
Non è più tempo, se mai lo è stato, per un “militare” concepito e addestrato a fare la guerra, cioè per ‘distruggere il nemico’. Siamo entrati da tempo nell’era in cui la politica, che voglia essere rispettosa della ‘nuova’ legalità radicata nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, può riprendere in mano il bandolo della governance, far funzionare il sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite, valorizzare il “civile” in attività di “sicurezza umana”, riconvertire il “militare” per l’esercizio di funzioni coercitive congrue con i principi e gli obiettivi della “sicurezza umana”.
Siamo in particolare entrati nell’era della giustizia penale internazionale, il cui principio cardine è quello delle responsabilità penale ‘personale’ direttamente perseguibile in sede internazionale.
L’aggancio alla Carta delle Nazioni Unite e all’intero Diritto internazionale dei diritti umani è pertanto fondamentale per qualsiasi iniziativa che miri a prevenire i conflitti, a limitare l’impiego del militare, a favorire la messa in opera di attività di mediazione e di dialogo, a dare più spazio alla operatività del ‘civile’ oltre che nei contesti della cooperazione allo sviluppo, anche in specifici contesti di “crisi”.

7. Nel sistema dell’Unione Europea, la scelta preferenziale della legalità basata sulla Carta delle Nazioni Unite e sul Diritto internazionale dei diritti umani nonchè l’attenzione per il ‘civile’ sono sempre più esplicitamente ribadite in documenti ufficiali, in particolare, come già ricordato, nella “European Security Strategy”.
Come noto, per iniziativa del Parlamento Europeo, fin dal 1995 si sta discutendo in merito alla creazione di un “Corpo Civile di Pace Europeo”, CCPE: allo stato attuale, disponiamo della Raccomandazione del PE “sull’istituzione di un CCPE” del 10 febbario 1999, della Risoluzione del PE sulla Comunicazione della Commissione riguardante la prevenzione dei conflitti del 13 dicembre 2001, dove si sottolinea “la necessità di istituire tale CCPE nel quadro del ‘Meccanismo di reazione rapida’ della Commissione, nonchè di due Studi di fattibilità: “On the European Civil Peace Corps”, a cura di Catriona Gourlay, gennaio 2004, commissionato dal PE, e “Feasibility Study on the Establishment of a European Civil Peace Corps (ECPC), a cura di P.Robert, K.Vilby, L.Aiolfi, R.Otto, del novembre 2005, commissionato dalla Commissione Europea.
Si parla di “partenariato UE-Nazioni Unite”, di “dialogo sui diritti umani”, di “dialogo interculturale”, di ‘missioni per la sicurezza umana’ al cui interno particolare rilievo viene dato appunto alla componente ‘civile’. Il ‘Meccanismo di reazione rapida’, varato il 26 febbraio 2001 con Regolamento del Consiglio, la cui azionabilità si articolava in ‘azioni civili’, è stato di recente sostituito e sviluppato dallo “Strumento per la stabilità” con Regolamento entrato in vigore il 1 gennaio 2007, che si presume debba conferire maggiore organicità ed efficacia alla “azione civile” dell’UE nel mondo.
Alle Nazioni Unite c’è attenzione per i “White Helmets”, per l’esercizio di ruoli in contesti che sono di cooperazione allo sviluppo e di classico “humanitarian aid” più che di prevenzione e risoluzione dei conflitti caratterizzanti il mandato dei Corpi Civili di Pace. Come noto, il termine “White Helmets” è stato impiegato per la prima volta dal Governo Argentino nel 1993 quando l’allora Presidente Menem decise di istituire una “Commissione per i White Helmets” allo scopo di selezionare personale civile argentino da impiegare nei settori dell’assistenza umanitaria e dello sviluppo. A seguito di questa iniziativa, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato la Risoluzione 49/139/B del 20 dicembre 1994, con la quale dava il benvenuto a iniziative nazionali volte alla istituzione di corpi volontari denominati “White Helmets” da impiegare a livello nazionale nella prevenzione delle emergenze umanitarie e a livello internazionale a supporto delle operazioni di assistenza umanitaria dell’ONU e delle sue Agenzie specializzate. A quella prima Risoluzione ne seguirono altre a cadenza biennale col titolo “Participation of volunteers, “White Helmets”, in the activities of the United Nations in the field of humanitarian relief, rehabilitation and technical cooperation for development” (Risoluzioni 50/19 del 28 novembre 1995, 52/171 del 16 dicembre 1997, 54/98 del 8 dicembre 1999, 56/102 del 14 dicembre 2001, 58/118 del 17 dicembre 2003). Si segnalano anche tre Rapporti del Segretario generale delle Nazioni Unite (Doc. A/54/217, 13 agosto 1999, Doc. A/56/308, 21 agosto 2001, Doc. A/58/320, 27 agosto 2003). Esperienze sono state realizzate in Haiti, Armenia, Palestina, Jamaica, Bolivia, Guinea Equatoriale, Angola, Rwanda.

8. Le esperienze europee riguardanti l’impiego del civile nelle situazioni di crisi sono numerose. Si tratta di iniziative ‘volontarie’ che, nella maggior parte dei casi, non hanno esplicita copertura istituzionale da parte degli stati. Non mancano tuttavia esempi di tale copertura, in particolare da parte di taluni stati europei.
Significativo è, soprattutto, il caso della Germania in ragione del più pronunciato riconoscimento istituzionale di cui beneficia.
Anche all’interno della realtà italiana, ricca di formazioni organizzate e di movimenti di società civile operanti a fini di solidarietà e di promozione umana dentro e fuori del Paese, disponiamo di significative esperienze nello specifico campo della prevenzione e gestione nonviolenta dei conflitti. Emblematiche al riguardo sono le attività realizzate, pionieristicamente e con grande coraggio, dai ‘Caschi Bianchi’ dell’Associazione Papa Giovanni XXIII nell’ex Jugoslavia agli inizi degli anni novanta, dalla successiva “Rete Caschi Bianchi” e dalla Rete Corpi Civili di Pace, CCP-IPRI.
Da segnalare anche le reti di Comuni, Province e Regioni, in particolare quella facente capo al Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani, per la promozione della cultura pace diritti umani e per la gestione diretta di sempre più numerosi programmi di cooperazione decentrata allo sviluppo.
Di notevole rilievo è anche il dato costituito dalle Università che, in numero crescente, attivano corsi di laurea e masters in materia di pace, diritti umani, cooperazione allo sviluppo, risoluzione nonviolenta dei conflitti.
Naturalmente, di immediato interesse per lo sviluppo di questa materia è la realtà del Servizio Civile interno, europeo e internazionale.

9. Quanto velocemente sopra richiamato costituisce un prezioso bacino di risorse umane cui attingere per il reclutamento di personale destinato a operare per specifiche funzioni di “servizio civile di pace”.
Si tratta ora di riconoscere istituzionalmente questo bacino, per dotarlo di congrue risorse finanziarie e anche per incentivare, in forma appropriata, lo sviluppo di sinergismi tra le molteplici espressioni organizzative al suo interno e tra queste e le corrispettive reti transnazionali.
Per procedere in questa direzione, occorre tenere conto, oltre che di quanto già in atto in altri paesi, anche del quadro istituzionale in via di definizione da parte dell’Unione Europea, con particolare attenzione sia al progetto di Corpo Civile di Pace Europeo sia alle numerose opportunità che già sono offerte da Regolamenti quali quello, prima ricordato, istitutivo dello “Strumento di stabilità” (15 novembre 2006) e quello che istituisce uno “Strumento finanziario per la promozione della democrazia e dei diritti umani nel mondo” (20 dicembre 2006). Questi atti normativi dispongono, in prospettiva pluriennale, per la distribuzione di risorse a organizzazioni non governative e enti di governo locale oltre che ad istituzioni governative e ad organizzazioni internazionali. Ambedue questi Regolamenti sono rilevanti anche per l’aiuto che offrono nello elucidare concetti e criteri relativamente a soggetti, finalità, contesti operativi. Proprio questo tipo di ‘sussidio’ concettuale è utile già nella fase preliminare del processo che porta al riconoscimento formale delle strutture di servizio civile di pace. Esso consente infatti di meglio individuare ciò che fa lo specifico del “servizio civile di pace” rispetto ad altri tipi e aree di servizio civile e di cooperazione allo sviluppo.
L’identità del servizio civile di pace si qualifica alla luce di parametri che attengono sia al contesto comunitario-territoriale in cui operare sia agli obiettivi delle missioni civili di pace.
Per la caratterizzazione del contesto, il riferimento è innanzitutto alla condizione “di crisi” in cui versa un determinato territorio in ragione di conflittualità interna di varia matrice e natura, instabilità politica, minaccia alla democrazia, violazioni estese e reiterate dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Evidentemente, in un medesimo contesto possono sussistere collegamenti e sovrapposizioni fra attività svolte a titolo di servizio civile di pace e attività di cooperazione allo sviluppo.
E’ appena il caso di sottolineare che nei contesti di crisi, lo specifico del servizio civile di pace sta nel porre in atto comportamenti e tecniche che mirano a prevenire l’aggravarsi della situazione e a “trasformare” il conflitto mediante attività di interposizione, mediazione, dialogo, riconciliazione, informazione, comunicazione, co-educazione.
Altro contesto che interessa il servizio civile di pace è quello tipico dei processi di peace-building post-conflitto violento. La tipologia delle operazioni del peace-building classico è nota ed è utilmente ripresa e arricchita dal citato Regolamento UE del novembre 2006.


10. Il consenso e l’accettazione da parte della comunità locale interessata sono determinanti ai fini della legittimazione sostanziale e dell’efficacia del servizio civile di pace.
Soprattutto, ciò che contribuisce a connotare, in maniera fortemente identitaria, questo tipo di servizio civile nel duplice contesto di crisi e di dopo-conflitto, è costituito dal fatto che il lavoratore di pace, diversamente dal personale civile delle missioni internazionali con compiti di monitoraggio dei diritti umani, di osservazione elettorale, di assistenza tecnica al “democratic institution building”, si inserisce nel territorio, vive quotidianamente accanto a persone, famiglie e gruppi, condivide le preoccupazioni e i bisogni specialmente di coloro che sono più vulnerabili, si fa accettare come persona che in qualche modo partecipa quotidianamente alla vita di una determinata comunità. Insomma, non è controllore o valutatore o osservatore ‘esterno’ inviato da governi nazionali o da istituzioni intergovernative. E’ soggetto attivo di società civile globale. La sua “accettazione” da parte delle comunità locali discende in buona misura dalla convinzione che i lavoratori di pace operano in completa autonomia dai governi e da multinazionali rapinatorie.
Altro requisito essenziale è che, nel contesto in cui si opera a titolo di servizio civile di pace, preesistano già contatti con persone, gruppi sociali, scuole e enti di governo locale.
Il lavoratore di pace partecipa attivamente alla costruzione di ponti fra territori, fa interagire le parti più fertili di territori fra loro anche molto distanti. Ha il senso profondo del territorio, del territorio come laboratorio di pace positiva, del territorio-non-confine.
Il gruppo di servizio civile di pace opera in via completamente autonoma rispetto alle missioni di pace ‘ufficiali’ degli stati e delle organizzazioni intergovernative, specie se queste comportano l’impiego di personale militare. Non sono naturalmente escluse forme di comunicazione e collegamento, ma la loro attivazione va prudentemente soppesata al fine di evitare che la popolazione locale percepisca il servizio civile di pace come ‘para governativo’ e lo renda quindi vulnerabile rispetto a rapimenti, attentati, ecc.

11. Occorre procedere ad una ulteriore distinzione. Quanto sopra accennato riguarda il “servizio civile di pace” quale distinto rispetto al ruolo giocato dal personale della cosiddetta “componente civile” all’interno delle missioni di pace delle Nazioni Unite, dell’OSCE, dell’UE, dell’UA. E’ il caso di ricordare che esistono “missioni di pace” che sono interamente “civili”, condotte cioè con l’impiego di esperti e funzionari internazionali e/o di agenti di “polizia”: è il caso delle missioni UE in Bosnia, in Afghanistan o di quella ‘per lo stato di diritto’ in Iraq e, prima, in Georgia.
La gamma dei ruoli espletati dal personale della “componente” civile è nota: monitoraggio dei diritti umani, osservazione elettorale, assistenza tecnica allo sviluppo di istituzioni democratiche, partecipazione ai programmi di capacity bulding (per la formazione e l’addestramento di personale della pubblica amministrazione, della magistratura), il sostegno ai tribunali penali.
Nelle missioni militari delle NU, la componente civile consta ordinariamente di un numero esiguo di persone, con funzioni ora meramente burocratiche ora anche di monitoraggio dei diritti umani e di comunicazione con le popolazioni locali.
L’ONU è attualmente impegnata a irrobustire queste “civilian units”, anche per rispondere alla necessità di assicurare l’osservanza di codici di condotta da parte dei Caschi Blu. Questa particolare attenzione ai problemi della morale si è accentuata a seguito degli scandali verificatisi all’interno di varie missioni.
Quanto attiene alla realtà del personale civile impiegato all’interno delle missioni militari non è tuttavia estranea all’iniziativa mirante a dare visibilità istituzionale al ‘servizio civile di pace’ secondo le connotazioni prima enunciate.
Sia il potenziamento della componente civile delle missioni militari sia il riconoscimento istituzionale del “servizio civile di pace” in quanto sfera operativa completamente distinta e autonoma rispetto al militare, dovrebbero rispondere ad una medesima logica di impegno politico per la pace positiva.
Vi sono funzioni che sono allo stesso tempo esperibili sia dal personale della “componente civile” sia da quello del “servizio civile di pace”: tra le altre, quella che mira ad incoraggiare lo sviluppo e l’organizzazione della società civile e la sua partecipazione al processo politico “ivi comprese misure per promuovere il ruolo delle donne in tali processi e l’indipendenza, il pluralismo e la professionalità dei media” (Regolamento UE ‘strumento di stabilità’), il sostegno agli aspetti civili della smobilitazione e della reintegrazione degli ex combattenti nella società civile, eccetera. La distinzione, oltre che nella matrice istituzionale, sta nel fatto che quelli della “componente civile” svolgono un ruolo per così dire d’autorità ufficiale e, in via ordinaria, non si integrano nel quotidiano delle popolazioni, mentre quelli del “servizio civile di pace”, come prima sottolineato, vivono dentro le comunità locali.
E’ necessario comunque che anche il personale della “componente civile” condivida, quanto più possibile, con i lavoratori del “servizio civile di pace” il medesimo spirito di “società civile”.
In questa prospettiva, la componente civile delle missioni militari dovrebbe arricchirsi della figura del “Difensore civico delle missioni di pace”, col compito di sorvegliare il comportamento dei militari e dei civili e di mediare, con autorità istituzionale, tra questi e le popolazioni locali.

12. Come procedere per la istituzionalizzazione del “servizio civile di pace”?
Spetta ad un ‘progetto di fattibilità’ fornire elementi specifici al riguardo.
In questa sede di riflessione preliminare, mi limito a suggerire che i Ministeri degli Affari Esteri e della Solidarietà Sociale procedano di concerto.
La prima tappa potrebbe consistere nell’investire ufficialmente un ristretto gruppo di esperti all’interno dell’attuale Tavolo ‘corpi civili di pace’ del compito di preparare il progetto di fattibilità.
La seconda tappa potrebbe consistere nel trasformare-istituzionalizzare il suddetto Tavolo in “Forum del Servizio Civile di Pace”, composto dai rappresentanti delle associazioni e da quelli dei Ministeri interessati e degli Enti locali (in particolare di quelli dotati di Statuto contenente la norma ‘pace diritti umani’ e di Leggi regionali specifiche in materia).
Il Forum dovrebbe esprimere al suo interno un Comitato paritetico – istituzioni/associazioni – col compito di valutare i progetti presentati da associazioni ed enti, cominciando con alcuni progetti-pilota riguardanti aree di crisi in cui l’invio di Corpi Civili di Pace potrebbe dare eccellenti risultati.
L’operazione intesa a istituzionalizzare il Servizio Civile di Pace dovrebbe essere presentata all’UE come contributo dell’Italia alla creazione della rete CCPE, anche nell’ottica del co-finanziamento Governo-UE-Regioni (almeno per i progetti più significativi).
Un punto delicato dell’intera operazione riguarda lo status dei lavoratori di pace in missione all’estero. Occorre prendere in seria considerazione l’idea che vengano muniti di un passaporto speciale, che ne attesti la qualifica di appartenenti a Corpi Civili di Pace, quindi la loro neutralità attiva a difesa di tutti i diritti umani per tutti a cominciare dal diritto alla vita e alla pace. Utile a questo scopo è il riferimento alla Dichiarazione delle Nazioni Unite “sul diritto e la responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi della società di proteggere e promuovere i diritti e le libertà universalmente riconosciuti”, dell’8 marzo 1999. L’articolo 1 di questo importante documento, conosciuto anche come la Magna Charta degli “human rights defenders”, stabilisce che “tutti hanno il diritto, individualmente e in associazione con altri, di promuovere e lottare (sic) per la protezione e la realizzazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali a livello nazionale e internazionale”. In quanto ‘difensori dei diritti umani’, i lavoratori della pace sono pienamente legittimati a operare dentro e fuori del proprio paese, sono titolari di diritti di cittadinanza universale e transnazionale. Nelle “linee guida sui diritti umani” adottate dal Consiglio dell’Unione Europea, attenzione particolare è data proprio ai “difensori dei diritti umani” che l’UE si è impegnata a proteggere ovunque essi operino. Alla luce di questi dati, si auspica che il Ministero Affari Esteri si faccia parte attiva in seno all’Unione Europea, avvalendosi in particolare dell’appoggio del Parlamento Europeo, per l’istituzione appunto di un passaporto speciale per i lavoratori dei CCP in missione.
Collegato a questo tema è il riconoscimento del lavoro di pace all’estero come ‘lavoro’ a pieno titolo, con tutte le garanzie sociali che gli pertengono.
E’ importante assicurare che le donne partecipino su un piede di parità al personale dei Corpi Civili di Pace.
Un ulteriore suggerimento riguarda la necessità di creare in seno al Foro del Servizio Civile di Pace una struttura (osservatorio) incaricata di monitorare la fenomenologia delle crisi, auspicabilmente in collegamento con strutture analoghe già operanti a livello internazionale, allo scopo precipuo di segnalare con tempestività quelle situazioni che più di altre si prestano per il dispiegamento di Corpi Civili di Pace.
E’ di tutta evidenza che la struttura deputata a gestire il Servizio di Pace dovrebbe avere, tra le sue priorità, quella di mettere a punto percorsi formativi per i lavoratori della pace in collaborazione anche con le università che svolgono attività di formazione e ricerca segnatamente in materia di diritti umani, pace, risoluzione dei conflitti, cooperazione.

Padova, 13 giugno 2007

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