Campagna Europea per una risoluzione nonviolenta
del conflitto israelo-palestinese
Note di viaggio: 17-23 dicembre 2005
a cura di Gianni D’Elia

Il fatto è che l’esperienza degli ebrei e quella dei palestinesi sono storicamente,
anzi organicamente, connesse: separarle equivale a falsificare ciò che ciascuna
ha di più autentico. Per quanto difficile possa essere, dobbiamo pensare insieme
alle nostre storie, se vogliamo che ci sia un futuro comune. E tale futuro deve
includere, gli uni accanto agli altri, arabi ed ebrei, senza esclusioni, senza schemi
basati sul diniego e mirati a lasciar fuori l’una o l’altra parte, teoricamente o
politicamente. La vera sfida è questa. Il resto è assai più facile.

Edward W. Said, “Fine del processo di pace”, Feltrinelli

Introduzione
Le seguenti note sono il resoconto di un viaggio in Israele e Palestina di alcuni rappresentanti della campagna europea “ La violenza non è una soluzione, per una forza internazionale di intervento civile in Israele-Palestina”. Questa campagna è stata lanciata un paio di anni fa in Francia dal MAN (mouvement pour une alternative non-violente) e ripresa, circa un anno dopo in Italia, dal Centro Studi Sereno Regis di Torino che ha raccolto una trentina di adesioni di gruppi e movimenti nelnostro paese. Anche la Spagna ha aderito alla campagna con un suo movimento. Questa campagna ha l’obiettivo prioritario di chiedere all’Unione Europea di realizzare uno studio di fattibilità sulle condizioni per la creazione di una forza di intervento civile che, in accordo con gli operatori di pace israeliani e palestinesi, possa far regredire le paure e il livello di violenza, rafforzare lo spazio di dialogo tra le parti e concorrere ad una soluzione politica del conflitto. Non mi dilungo oltre sulle idee, le premesse, gli obiettivi e le metodologie della campagna (allegherò il documento per chi non lo conoscesse).
La delegazione era composta dal sottoscritto, per la segreteria della campagna italiana (composta da alcuni rappresentanti del Sereno Regis e da una rappresentante della Rete Corpi Civili di Pace), da Jean Marie Muller filosofo, militante nonviolento e portavoce del MAN, da Michel Roy del Secours Catholique di Parigi aderente al MAN e da Ariane Rendu coordinatrice della campagna per il MAN francese.
Il viaggio aveva l’obiettivo di contattare patner israeliani e palestinesi, istituzioni e movimenti di entrambe le parti per allacciare relazioni, far conoscere gli obiettivi della campagna, chiedere pareri e confronto sulla presenza degli internazionali, rendersi conto sul terreno, e nel merito della situazione, della fattibilità della campagna ecc…
Le note che ho scritto non sono un resoconto dettagliato degli incontri e neanche un racconto della situazione attuale del conflitto. Non ho potuto prendere appunti precisi degli incontri per la concentrazione che dovevo mettere nel capire l’inglese o il francese degli interlocutori. Alcuni incontri sono stati delle chiacchierate (peraltro molto interessanti) a cena e inoltre, di alcune associazioni israeliane e palestinesi avevo già scritto in modo più dettagliato in altre occasioni. Bisogna ancora tener conto che non tutti gli incontri hanno approfondito il tema della campagna e la presenza internazionale perché non c’è stato il tempo: in alcuni ci è soffermati sulla situazione attuale del conflitto e altri hanno approfondito la presentazione delle attività del gruppo stesso.
Pertanto, ho voluto scrivere soprattutto delle posizioni di entrambe le parti sulla campagna, riportando brevi appunti che possono dare il senso delle reazioni dei nostri interlocutori alle nostre proposte. Infine, ho voluto fare qualche riflessione sulla campagna e sulla nonviolenza a partire dal conflitto israelo-palestinese per quello che fino ad ora ho potuto comprendere e che mio malgrado, è sempre troppo poco.
Questa volta mi sono trovato in una posizione nuova ed interessante rispetto ai miei ultimi tre viaggi fatti negli ultimi tre anni. Cioè la posizione di chi prova aconoscere maggiormente i diversi punti di vista sul conflitto e le diverse posizioni che in quella terra sono davvero tante ed estremamente diversificate.
Quelli che ho provato a scrivere sono degli appunti filtrati da ciò che è stata la mia piccola esperienza di questi ultimi anni del conflitto, della conoscenza diretta di alcune situazioni, di ciò che ho letto e degli incontri avuti in Italia sul tema. Per questo motivo è un resoconto parziale, frammentario e soggettivo ma mi chiedo come può essere altrimenti di fronte alla complessità che si incontra in Israele e in Palestina.
Mi piace spesso dire che le contraddizioni che si vivono e che si incontrano in quella terra non sono niente altro che le nostre. Sono solo amplificate e perciò istruttive. I muri non li abbiamo anche nelle nostre realtà? Anche noi, nei nostri movimenti non abbiamo bisogno di più strategia e di maggiore collegamento? Anche noi non abbiamo sempre più bisogno di oltrepassare i confini e le frontiere delle nostre idee, delle nostre parzialità, delle nostre visioni per conoscere e comprendere quelle degli altri?
Solo che lì, in quella meravigliosa e terribile terra, i muri sono di cemento armato e alti 8 metri, le frontiere sono spesso invalicabili dai cittadini più deboli, l’agire da soli come gruppi diventa impotenza a realizzare qualcosa per il bene comune…

Ma per tornare al documento, esso è suddiviso in 5 parti:
1- la presentazione brevissima degli incontri che servirà anche come nota quando si leggeranno le citazioni;
2- alcune brevi note sulla situazione attuale del conflitto così come ci è stata presentata;
3- le posizioni sulla campagna da parte degli interlocutori palestinesi;
4- le posizioni sulla campagna da parte degli interlocutori israeliani;
5- alcune ulteriori riflessioni personali.


Presentazione incontri
- P.L.C. (Palestinian Legislative Council)
Incontro con il Direttore Generale, Sig. Mahmoud Labadi. E’ il settore dell’Autorità Nazionale palestinese che si occupa di legislazione.
- P.L.O. (Palestine Liberation Organization)
Incontro con i sig.ri Wassem Khazmou e Gregory Khalil. E’ un’organizzazione indipendente che lavora per l’autorità palestinese nel supporto ai negoziati di pace.
- Assemblea dei francesi all’estero
Incontro con il rabbino Jaquot Grunewald
- PASSIA ( Palestinian Academic Society for study of international Affaire)
Incontro con il prof. Mahdi F. Abdul Hadi. E’ un centro studi indipendente che si occupa di questioni internazionali. Esperti dei negoziati di pace tra Israele e Palestina.
- SABEEL (Ecumenical liberation theology center)
Incontro con il rev. Naim Ateek. Il centro svolge lavoro teologico ecumenico e lavoro per il dialogo israelo-palestinese. Interessanti le produzioni di alcuni quaderni su tematiche nonviolente quale quello citato nel report attaccato dal governo israeliano.
- Patriarcato Latino
Incontro con Mon. Michel Sabbah. E’ quasi al termine del suo mandato, gli è stato affiancato un altro vescovo per due anni e poi lascerà a lui il patriarcato latino di Gerusalemme.
- Missione pontificale (the papal agency for Middle East relief and development)
Incontro con il Direttore regionale, sig. Maher F. Turjman. Il centro è un’emanazione del vaticano in Terra Santa, svolge lavoro teologico e umanitario.
- Peace and Democracy Forum
Incontro con il sig. Saman Khoury. Il forum ha lavorato per gli accordi di Ginevra ed è impegnato, in questa prospettiva, in un lavoro di dialogo israelo-palestinese.
- Arik institute (For reconciliation tolerance and peace inmemory of Arieh Zvi Frankenthal)
Incontro con il sig. Yitzhak S. Frankenthal. Qualche anno fa il figlio maggiore di questo signore è stato ucciso dai militanti di Hamas. Dopo aver fondato, insieme ad altri parenti di vittime del terrorismo, l’Associazione “Parent’s circle”, ha fondato l’Arik institute che ha l’obiettivo principale di fare pressione sulle istituzioni israeliane affinché liberino i territori occupati.
- Physicians for Human Rights
Incontro con il sig. Shabtai Gold. La sua organizzazione svolge lavoro umanitario e di documentazione sulle condizioni di vita e di salute nei territori occupati e dei prigionieri palestinesi che, attualmente, sono circa 8000 (alcuni molto giovani e detenuti per soli reati di opinione)
- Università di Betlemme
Incontro con il Padre Jamal Khader , con il sig. Maher Bandak e con due studenti dell’Università. L’Università di Betlemme, molto riconosciuta in Palestina, anche per il suo lavoro interculturale attraversa da alcuni anni un periodo di difficoltà per le difficoltà degli studenti dei territori occupati di raggiungere Betlemme.
- Bethlehem peace center
Incontro con il Direttore, Michel Nasser. Il centro, nella piazza principale di Betlemme è un punto di riferimento per iniziative di dialogo tra i popoli, culturali e artistiche.
- Donne in nero
Incontro con Gila Svirsky e con una sua compagna di Gerusalemme. Da molti anni sono presenti tutti i venerdì in una piazza di Gerusalemme e in altri punti sensibili per denunciare la politica repressiva del governo israeliano e per il rispetto dei diritti umani.
- Ebrei per i diritti umani
Incontro con la sig.ra Nava Hefetz. Il centro si occupa del rispetto dei diritti umani in Israele e Palestina. Porta avanti attività educative sui diritti umani e, insieme ad altri gruppi israeliani si occupa, attualmente, di far conoscere e riflettere sul muro di separazione.
- Lin Challozin
Militante israeliana. Fa parte tra l’altro dell’associazione “B’tselem” (the israeli information center for human rights in the occupied territories) molto attiva nella controinformazione sugli eventi nei territori occupati.
- EAPPI (Ecumenical Accompaniment Programme in Palesatine and Israel)
Incontro con la sig.ra Hermina Damons. Il centro svolge lavoro ecumenico e organizza gruppi di internazionali che intervengono nei villaggi palestinesi a protezione della popolazione.
- Istituto biblico di Gerusalemme
Incontro con il gesuita David Neuhaus. Lavora in campo teologico sia in Israele che in Palestina. E’ stato obiettore di coscienza al servizio militare in Israele e si è poi convertito al cristianesimo. Vive nello stesso Istituto in cui si è trasferito il Card. Martini.
- Consolato Generale di Francia
Incontro con il console sig. Trocaise.
- Gush Shalom
Incontro con Uri Avnery a Tel Aviv. Gush Slalom è un gruppo storico della coalizione pacifista israeliana. Ury Avnery è molto anziano ma ancora impegnato per i diritti umani dei palestinesi. In questi giorni è attivo nella lotta nel villaggio palestinese di Bilin.
- New profile
Incontro con la sig.ra Rivka Sum e con il sig. Sergeiy Sandlen. New profile è molto impegnata nel denunciare la militarizzazione della società israeliana e nel sostegno legale e umanitario agli obiettori di coscienza.
- Università di Al Quds
Incontro con il prof. Mustafa Abu Sway. Anche l’università araba di Gerusalemme, nota perla sua apertura interculturale, attraversa difficoltà dovute alle difficoltà di spostamento dei suoi studenti e dei suoi professori.



Accenni alla situazione del conflitto
“Sharon vuole creare dei bantustan in cui rinchiudere i palestinesi. L’obiettivo è avere il massimo della terra con il minimo dei palestinesi”…questa frase che ci ha detto una rappresentante delle donne in nero di Tel Aviv esprime sinteticamente quello che molti interlocutori palestinesi e israeliani ci hanno voluto comunicare sulla situazione attuale del conflitto. Ci hanno mostrato molte cartine e tutte evidenziano come un dato di fatto che si sta andando verso la creazione di tre zone in Cisgiordania: una a nord (Nablus, Jenin…), una al centro (la zona di Ramallah) e una a sud ( la zona di Hebron). Questi tre bantustan o enclave saranno palestinesi, saranno isolate da Gerusalemme (da cui si vuole mandare via il maggior numero di palestinesi), saranno controllate all’esterno dagli israeliani attraverso strade che non si potranno percorrere, check point e il muro.
E saranno collegate tramite ponti o tunnel (sempre controllati) alla striscia di Gaza e a Gerusalemme.
D’altra parte le colonie aumentano e non si è mai cessato di costruirle. Molti dei coloni che sono andati via da Gaza si sono insediati nelle colonie in Cisgiordania. Colonie vuol dire separazione: case dei palestinesi distrutte, strade nuove per i coloni, campi sequestrati, acqua deviata verso le colonie, militarizzazione del territorio…”gli europei si sono svegliati troppo tardi, ormai 300 mila coloni si sono piantati nei territori palestinesi…”(ebrei per i diritti umani)
“…il loro progetto sionista non è cessato, Israele vuole che la Palestina accetti il non diritto al ritorno e Gerusalemme controllata dagli israeliani…” (P.L.O.).
Qualcuno da parte israeliana ammette che il muro, forse inizialmente, è stato progettato per difendersi dagli attacchi delle bombe umane che, intorno al 2002 hanno seminato il terrore nelle città israeliane, ma poi è divenuto un modo per confiscare ulteriore terra ai palestinesi e ridefinire i confini del ’67, “…ma il muro non assicura la sicurezza anzi, fa aumentare l’insicurezza…Israele non capisce che l’occupazione è terrore e che i palestinesi sono disperati…” (Arik I.).
“gli israeliani non conoscono le cose o non le vogliono conoscere..il 90% di noi non ha mai messo piede in Gerusalemme est e tanto meno nei territori occupati…” (ebrei per i diritti umani).
Questa in estrema sintesi è la situazione. Un popolo prigioniero sulla propria terra, con ridottissime possibilità di movimento e con ogni movimento controllato.
Una coda ad un check point può durare anche più di un’ora e solo gli internazionali sono sicuri di passare. Stazionare un momento vicino al muro di Abu Dis, ad esempio, dove i bambini, le donne, i lavoratori scavalcano il muro e poi trovano i militari israeliani a controllare le loro borse, i loro zainetti di scuola…può far capire molte cose.
E se la società palestinese è disperata ogni giorno di più, quella israeliana viene descritta dai nostri interlocutori come malata, accecata dal problema della sicurezza e con forti problematiche sociali… “Oggi in Israele 1,5 milioni su 7 milioni sono sotto la soglia della povertà” (ebrei per i diritti umani).
Anche chi tenta in Palestina di lavorare per il dialogo e la nonviolenza viene attaccato, come il pastore anglicano di Sabeel che ci dice: “siamo stati attaccati e ingiuriati di antisemitismo perché abbiamo prodotto il libretto “Morale e responsabilità’, investimento sulla nonviolenza”in cui facciamo pressione sulla caterpillar (lo strumento con cui gli israeliani demoliscono le nostre case)..per questo siamo stati messi al livello del presidente dell’Iran…” . Anche gli israeliani che lavorano per il dialogo sono marginalizzati e non riescono a fare breccia nella loro società.
In questa situazione è chiaro che i giovani di Hamas hanno potuto acquisire posizioni tanto da controllare ormai diverse grandi città palestinesi. I nostri interlocutori non sembrano particolarmente preoccupati ma vedono come un dato di fatto inevitabile questa situazione: “i militanti di Hamas sono pragmatici, offrono identità, vogliono cittadini e non residenti, sono giovani…” (Passia) oppure Mons Sabbah che ci dice: “sono dei giovani che hanno le idee chiare…”.
Il signor Frankental dell’Arik insitute ci dice: “sarò contento della partecipazione di Hamas alle elezioni così diminuirà la violenza…”. C’è anche chi crede che Hamas sia conveniente al governo israeliano: “qui Hamas non esisteva, è stato creato da Israele per andare contro l’OLP (Centro pace di Betlemme).
Un professore dell’università di Al Quds ci dice che il 90% dei palestinesi oggi si riconosce nelle posizioni di Hamas e il 50% degli israeliani vuole accordi con Hamas.
Secondo lui (e anche altri lo hanno sottolineato) c’è anche un problema demografico: tra cento anni i palestinesi saranno il doppio degli israeliani e si aprirà una “bella” questione.
Non mancano voci, che pur nel realismo e nella consapevolezza della gravità della situazione, trasmettono qualche segnale di speranza: “il muro non è per la sicurezza, è per i confini ma cadrà entro due-tre anni…c’è paura dell’antisemitismo, in tutti i paesi domina la posizione giudaica…non passa nulla, ma cambierà…prima o poi cambierà, sarà obbligato…adesso da parte di Sharon c’è una visione diversa, prima ci voleva solo distruggere…” (Mons. Sabbah)
Ma c’è anche chi esprime posizioni con cui sembra impossibile un dialogo e, per alcuni nostri interlocutori israeliani sono la gran maggioranza della loro società. Queste cose ci dice un rabbino di Gerusalemme: “per noi le colonie non sono colonie sono terre giudaiche. Tornare a Gerusalemme è il ritornello che accompagna gli ebrei da 2 secoli…la visione giudaica è una visione interreligiosa ed internazionale… Gerusalemme non deve essere un ostacolo alla pace ma Gerusalemme, deve essere unita e deve essere unita da noi per tutti…”.

Questa è terra di contraddizioni, di passioni, di conflitti esasperati, di bellezza e di tragedia, di fede e di tradimento della fede, di fedi violente e di fedi inespresse, di amore e di furti dell’amore…queste che ho trascritto sono soltanto piccole citazioni di tutto ciò…



Alcune posizioni sulla campagna del Man in campo palestinese
Gli interlocutori in campo palestinese che abbiamo incontrato hanno dimostrato generalmente interesse e curiosità verso la campagna anche se talvolta, sembra prevalere il pessimismo, la difficoltà, l’impossibilità di realizzare la proposta oppure, la difficoltà nel capire il tipo di presenza internazionale che proponiamo soprattutto in relazione alla possibile presenza anche sul territorio israeliano o all’intervanto su mandato della Comunità Europea…
Queste in sintesi alcune delle posizioni espresse:

1. Bello e impossibile
racchiuderei in questa formula tutte quelle posizioni che hanno espresso interesse verso la presenza internazionale a fianco del popolo palestinese ma non in modo unilaterale e che si possono cogliere dalle seguenti sintesi di alcuni interventi:
“…apprezziamo le iniziative come le vostre e vogliamo che il mondo sappia ma sul terreno la vita per noi è impossibile…finchè ci sarà l’occupazione non sarà possibile cambiamento…io ho l’impressione che gli israeliani parlino a loro stessi soltanto, non ci ascoltano veramente…persino i giovani pacifisti dicono che voteranno per Sharon…” (P.L.C.)
“..interessante, ma la prospettiva nonviolenta può realizzarsi solo se cambiano le condizioni politiche sul terreno, se finisce l’occupazione…ora la nostra situazione è terribile…” (P.L:O.)
“oggi c’è separazione, c’è controllo, non c’è volontà di vivere insieme perché siamo troppo sotto controllo…oggi sul terreno non c’è l’agenda per il dialogo...” (Passia)
“Israele ha bisogno di Hamas, non vuole la Nonviolenza…la natura del conflitto è il problema” (Sabeel)
“ è una buona idea, è un’idea suggestiva ma dovete vedere la realtà sul terreno...nulla cambia e per noi è troppo dura..” (Missione Pontificale)

2. Dovete convincere gli israeliani
Sono le posizioni di chi ha espresso la difficoltà per la campagna di andare avanti senza il “lasciapassare” degli israeliani che si sa, molto difficoltoso. La frase di Mons. Sabbah è molto indicativa: “bisogna cominciare dalle ambasciate israeliane, se loro accettano la vostra presenza è fatta…bisogna fare presenza nelle città palestinesi e cercare di avere l’assenso di Israele. Ma cosa volete fare nelle città israeliane?…ma, forse in qualche punto sensibile…”. Oppure la posizione del direttore del Centro della pace di Betlemme: “…è importante pressare il governo israeliano…”.
La difficoltà a lavorare con il consenso o perlomeno la tolleranza del governo israeliano è normalmente vissuta dalle ONG o dalle associazioni palestinesi come ci ha detto la rappresentante di origine sudafricana dell’Associazione EAPPI: “…il governo israeliano non vede bene il nostro progetto ma ci tollera…siamo registrati in Israele come progetto in medio oriente del consiglio delle chiese…”.

3. Buono, ma ad alcune condizioni
E’ la posizione di chi ha dato alcune suggestioni, alcune idee su come bisognerebbe procedere innanzitutto dagli attori sul campo e poi anche dagli internazionali.
“…gli internazionali fanno solidarietà ma non cambiano le cose…è una solidarietà silente, soft…bisogna creare una coalizione per la pace” (Passia)
“oggi abbiamo bisogno di una strategia completa…abbiamo bisogno di molte presenze ma chiare…non c’è bisogno di presenza passiva…le donne possono portare avanti il movimento Nonviolento…perché gli uomini sono trasformati da Israele in terroristi…e poi, ciascuno lavora per proprio conto per la pace… in Israele e da noi bisogna costruire una strategia comune per la pace…la violenza ha intaccato la società palestinese, c’è bisogno di ricostruire una cultura di pace…” (Sabeel)
“…è importante l’impegno delle chiese ma non deve prendere il centro la questione del dialogo giudeo-cristiano perché è fuorviante…” (Univ. di Betlemme)
“…neutralità per me è stare dalla parte della giustizia e della pace, non c’entra essere per uno o per l’altro…” (EAPPI)
“…nelle vostre posizioni dovete essere chiari e non politicamente corretti…l’occupazione deve finire…” (prof. di Al Quds)

4. Interessante la doppia presenza
E’ la posizione di chi intravede come una possibilità di allentare il conflitto la presenza all’interno dei territori palestinesi ma anche una presenza in luoghi sensibili nei territori israeliani:
“…sul terreno abbiamo bisogno di una presenza internazionale e che non stia solo da parte palestinese…un conto è capire le sofferenze del popolo palestinese e un altro conto è stare solo dalla loro parte …l’accordo di Ginevra prevede una presenza internazionale” (Accordi di Ginevra)


Alcune posizioni sulla campagna del Man in campo israeliano
Anche in campo israeliano, rispetto alle persone incontrate, le posizioni sulla campagna o più in generale sulla presenza degli internazionali, sono articolate e denotano un’alta coscienza politica della situazione propria di chi ha difficoltà nella propria società a far comprendere che la fine dell’occupazione porterebbe dei benefici alla società israeliana stessa.
Ecco sinteticamente alcune delle posizioni emerse:
1- Il nostro governo non vi lascerebbe fare niente e anche in Palestina non sono pronti
E’ la posizione di chi pensa che con l’attuale governo non ci sia nulla da fare…troppa paura, troppe mire espansionistiche, posizioni razziste...e anche in Palestina c’è poca coscienza politica. In entrambi i campi comunque, la Nonviolenza è ancora poco conosciuta e poco praticata…
“…non vi lascerebbero fare quello che avete in mente…al nostro congresso internazionale di Gerusalemme non hanno lasciato venire delle donne di Ramallah …Israele farà la pace solo per la sua sicurezza…” (donne in nero);
“ …per gi israeliani vale solo se siete con noi o contro…la sinistra è molto marginalizzata..la sinistra radicale e la sinistra moderata si sono divise dopo i fatti del Libano…tutto si è rotto dopo il 1982…in B’tselem c’è un dibattito per decidere se vale ancora la pena perdere tempo a convincere la società israeliana o se è meglio puntare al lavoro con la comunità internazionale…in Palestina, d’altra parte, non c’è nessuna coscienza politica, pensate che i prodotti provenienti dalle colonie che sono boicottati in Israele dai gruppi di sinistra li potete trovare normalmente in qualsiasi supermercato palestinese… Non ci sono basi reali della nonviolenza né in campo israeliano né in quello palestinese …quando il muro non è sulla frontiera è per annettere territorio…per i cristiani il muro è una totale catastrofe…oggi la chiesa ufficiale non prende posizione per paura di toccare l’ebraismo…loro sono le vittime e non vanno toccate… c’è un prete, oggi, che sembra l’unico a rappresentare davvero le esigenze della nonviolenza è padre Reed Abusalieh a Taybel, molto interessante…” (gesuita I. biblico);
“…è normale per gli internazionali essere dalla parte palestinese perché il governo non accetta nulla…” (Avnery)
“…si capisce bene l’intervento degli internazionali in Palestina da noi è più difficile pensarlo..” (New profile).
2- Forse è meglio che lavorate nei vostri paesi
E’ la posizione di chi, per sfiducia o non comprensione…pensa che il lavoro degli internazionali debba essere fatto soprattutto nei propri paesi per coinvolgere la comunità internazionale ad assumersi veramente il dramma dei palestinesi e il non isolamento degli israeliani. Al massimo la presenza deve essere una presenza di testimonianza e non di facilitazione, di interposizione, di mediazione…questa posizione è dettata anche dall’orgoglio che cerca di mettere in evidenza tutte le iniziative di dialogo e di lavoro comune che già ci sono sul campo…
“…la vostra idea è bella ma fossi in voi lavorerei con i vostri governi…qui ci dobbiamo dare da fare noi e i palestinesi…” (donne in nero);
“…gli israeliani non si fidano dell’Europa…se si vuole capire Israele bisogna andare allo YAD VASHEM (museo dell’olocausto)…in Europa siete troppo presi dalla questione giudaica e c’è molta ipocrisia nei politici e nella chiesa…in generale la sinistra israeliana pensa che qui ci sia bisogno di testimonianza da parte degli internazionali e non di facilitazione (qui ce la vediamo noi)…ma a mio parere ci potrebbe essere anche uno spazio per la facilitazione…” (gesuita I.biblico);
“noi cerchiamo di formare giovani israeliani e palestinesi per parlare ai ragazzi delle due parti…la Nonviolenza è la sola strada…è solo dopo la prima intifada che gli israeliani hanno accettato il dialogo con i palestinesi..(Arik I.);
“… in 2 anni siamo riusciti a portare 4000 persone da Israele a vedere il muro…” (donne in nero);
“…c’è molta attenzione dei media sul villaggio di Bil’in, durante le manifestazioni, delle persone dei servizi segreti israeliani si sono coperti il volto e hanno tirato delle pietre sulla polizia e poi sono state scoperte…gli organizzatori sono locali aiutati da gruppi israeliani tipo Gush Shalom e da internazionali … (Avnery);
3- Troppo difficile
Sono le posizioni di chi pensa che gli obiettivi della campagna sono troppo difficili da realizzare per gli strumenti a disposizione o per l’intransigenza dei palestinesi…
“…vedete Sharon ha evacuato Gush Shatif e loro ci hanno tirato addosso…a partire da queste difficoltà la vostra iniziativa è inefficace … noi vogliamo, quasi tutti trovare una soluzione con i palestinesi. …ci sono giovani israeliani religiosi che stanno dialogando con i giovani di Hamas…(Rabbino);
“ …è interessante ma per quello che volete fare avete il problema dei soldi…”( Arik I.);
4- Indicazioni utili
Sono emerse, da parte di alcuni nostri interlocutori israeliani anche alcune piste di lavoro interessanti…
“…perché non iniziate da Gerusalemme che non ha sbarramenti, a far dialogare i giovani…non avete bisogno di creare cose apposta, c’è per esempio l’ospedale sul monte Scopus dove convivono medici e malati israeliani e palestinesi…” (Rabbino);
“bisogna lavorare innanzitutto con gli israeliani per farli capire che: i palestinesi non sono terroristi, che sono gente meravigliosa, che l’occupazione è un terrore” (Arik I.);
“…ho un sogno. Una forza di pace israeliana-palestinese che interviene ad Hebron dove 500 negozi sono stati chiusi, in modo da permettere la loro riapertura e accompagnare questo processo...c’è bisogno di atti , cose concrete e non di parole…”( Arik I.);
“In Israele ciascuno lavora per suo conto…” (Arik I.)
“…servono gruppi che capiscono che è utile un lavoro di sisifo…noi abbiamo dei problemi con l’ISM…bisogna che le due parti si parlino…non stare da una parte sola…(ebrei per i diritti umani)
“…per esempio potreste essere utili nella striscia di Gaza nel pezzo di terra dove i palestinesi tirano sui coloni...oppure lavorare sulle situazioni di marginalità in Israele vicino alla striscia di Gaza…Gush Shalom ha messo molta energia a far lavorare insieme palestinesi e israeliani e vedere il conflitto in un’ altra prospettiva…” (Avnery).

Riflessioni personali

Ho iniziato parlando di “un resoconto di un viaggio in Israele e Palestina” e mentre scrivevo già trovavo inadeguato questo modo di esprimersi perché la Palestina non esiste…esiste Israele ma la Palestina è un desiderio, un’aspirazione…è un luogo virtuale dove di non virtuale c’è solo la sofferenza e la disperazione della popolazione ogni giorno più prigioniera. Per anni si è fatto finta e forse, era meglio non negoziare che fare infinite concessioni al governo israeliano che non hanno fatto altro che prolungare l’occupazione e aumentare le sofferenze del popolo palestinese.
Si può chiamare Palestina un territorio che è fatto solo di residenti, di cittadini che non esistono? Le parole sovranità e autodeterminazione non sono mai entrata nelle trattative di pace semplicemente perché non si è trattato mai tra pari, tra eguali.
Perché il popolo palestinese deve essere sotto esame, in rincorsa, sempre debitore di qualcosa?
Cosa deve fare per essere trattato come tutti gli altri popoli e cosa ha fatto di così diabolico per meritare l’occupazione più lunga di questo secolo?
Sono domande che ci poniamo spesso, con cui ho voluto iniziare queste brevi riflessioni e che introducono al primo dei 7 punti che vorrei proporre:

&Mac183; Come alcuni nostri interlocutori ci hanno comunicato, se si vuole parlare di nonviolenza lo si deve fare nella chiarezza. La rappresentante di EAPPI mi ha fatto riflettere quando, per uscire dall’inghippo “dello stare dalle due parti” ci ha detto che occorre stare dalla parte della giustizia . E’ giustizia l’occupazione? E’ giustizia il muro che non sta dentro i confini di Israele ma dentro le terre dei palestinesi? E’ giustizia chiedere sempre ai palestinesi di fare dei passi di rifiuto della violenza quando il governo israeliano la pratica costantemente e quotidianamente e nessuno gli chiede di rifiutarla?
Ecco, io penso che qualsiasi approccio sul terreno di tipo nonviolento non può prescindere dal considerare l’occupazione. In altre parole il dilemma è: la nonviolenza può essere una strategia utile ai palestinesi per lottare contro l’occupazione (vedi le lotte di Ghandi in India) o la nonviolenza non deve considerare l’occupazione con il rischio di continuare a fare il gioco degli israeliani.

&Mac183; Ho pensato più volte in questo viaggio e non solo, che un qualsiasi intervento o progetto debba tenere in molta considerazione gli attori locali. Ho l’impressione che ci voglia molta umiltà da parte degli internazionali…per conoscere tutte le componenti del conflitto: sociali, religiose, economiche, emotive, culturali…in entrambi le parti ci sono state sofferenze indicibili nel corso dei decenni e qualsiasi tentativo di intervento dall’esterno non può che essere portato contestualmente ad una grossa conoscenza delle situazioni, delle culture, della natura del conflitto…
In entrambi le parti ci sono molte persone che davvero lottano per migliorare la situazione, per creare ponti e cercare una risoluzione dei problemi. Queste si devono far conoscere nei nostri paesi e a queste, ci si deve riferire qualsiasi azione si voglia intraprendere.

&Mac183; Conseguente al punto precedente, per la campagna europea penso che sia essenziale per un suo progresso reale e non teorico, creare una vera e propria coalizione di gruppi e movimenti con un respiro internazionale che abbia al suo interno come primi protagonisti gli israeliani e i palestinesi che ancora credono in una risoluzione nonviolenta del conflitto. Ho l’impressione che non si faranno grossi passi in avanti se si arriva in Palestina e Israele come un’iniziativa nuova che si aggiunge alle moltissime altre. Può essere utile, in questo senso, il riferimento a “Nonviolente Peace Force”?
Solo una grande coalizione potrebbe avere la forza per fare pressioni sulle istituzioni internazionali e chiedere una forza di intervento civile che operi sul terreno con e tra le parti. E le indicazioni su dove e come essere presenti e con quali azioni devono arrivare prioritariamente dai palestinesi e dagli israeliani.

&Mac183; A questo proposito, penso che non ci sia nulla da inventare, ormai da anni gruppi e ong della società civile palestinese con la collaborazione di gruppi israeliani e di internazionali mettono in atto azioni dirette nonviolente di interposizione tra la popolazione e l’esercito, a difesa dei campi e delle case palestinesi, a protezione della popolazione e dei feriti negli attacchi dell’esercito israeliano…
Quando, fino al 2002, potevano ancora entrare in Israele gruppi di internazionali, ho partecipato ad alcune di queste azioni con la coalizione italiana di “Action for peace” e le azioni erano guidate sul campo dai palestinesi e a loro ci si riferiva, si sono organizzati incontri in Israele, manifestazioni…ricordo perfino un incontro molto duro ma significativo con la comunità ebraica italiana…
Forse non ho sufficiente conoscenza degli avvenimenti precedenti ma la stessa prima intifada ho capito che fosse stata una grossa resistenza nonviolenta, con la società civile e le donne in prima fila contro l’occupazione…Piuttosto allora, c’è da chiedersi il perché tutto ciò non emerga abbastanza o perché tutto ciò che la società palestinese aveva ottenuto con la prima intifada è andato disperso (e non era poco in termini di riconoscimento). Responsabilità della dirigenza palestinese e dei suoi errori? Poco appoggio dai movimenti e dalle istituzioni internazionali (un po’ come con le lotte noviolente in Kosovo degli anni ’80)? Non abbastanza cultura radicata della nonviolenza? Forse, un po’ tutte queste cose e anche altre. Tuttavia io penso che sia questa la strada e cioè quella di stare dentro queste sitazioni, conoscerle, farle conoscere e cercare di ampliare, insieme alla società civile palestinese e israeliana il senso,le potenzialità e la radicalità della noviolenza.

&Mac183; L’originalità e l’intuizione della campagna è nel fatto, io credo, che si chieda all’Unione europea di farsi carico direttamente dell’invio di corpi civili di pace in Medio Oriente. Perché si realizzi questa ipotesi è chiaro che occorre una notevole pressione sulle Istituzioni europee o internazionali. Può dare forza, come ci hanno consigliato alcuni interlocutori, provare a convincere il governo israeliano che un’operazione di questo tipo non è contro Israele ma è fatta anche nel suo stesso interesse perché, probabilmente, da questo conflitto o escono insieme (israeliani e palestinesi) o non escono affatto.
Potrebbe essere che prima di arrivare a questo traguardo, che potrebbe richiedere molto tempo, si possano fare delle sperimentazioni sul campo (conle premesse di cui al punto precedente) che possano essere una prefigurazione del futuro.

&Mac183; Come ci ha ricordato il rappresentante del centro studi PASSIA, il conflitto israelo-palestinese non può essere trattato come a sé stante ma deve essere inserito in una dimensione di fenomeni più globali (vedi la guerra in Iraq, i preparativi di un futuro intervento in Iran, la politica statunitense a livello mondiale…). Ora, è chiaro che una dimensione del genere dei problemi non può che interrogare profondamente i nostri modi di fare politica nei nostri territori, nei nostri paesi e che, quanto più saremo capaci come movimenti di essere incisivi sulle politiche internazionali dei nostri paesi,tanto più saremo utili alla risoluzione dei conflitti regionali.

&Mac183; Mi ha colpito molto l’esposizione e la chiarezza del gesuita dell’Istituto Biblico quando ci ha segnalato come in Europa siamo un po’ prigionieri del dilemma giudaico. Mi ha rimandato al disagio che provo, negli ultimi anni, quando ci viene riproposto con grande enfasi il giorno della memoria dell’olocausto. Il sacrificio di milioni di ebrei va ricordato e deve scuotere nel più profondo le nostre coscienze di cittadini europei e del mondo. Ma perché l’essere stati vittima dell’olocausto deve ricadere sul popolo palestinese? E perché ogni critica più o meno velata al governo israeliano, nei nostri paesi, deve essere tacciata di antisemitismo?
Bè, io penso che, forse, è ora come singoli cittadini, politici e uomini di chiesa di uscire da questo inganno atroce del nostro tempo. Per amore del popolo isreliano e del popolo palestinese.

Queste sono solo alcune delle cose che volevo porre all’attenzione degli amici dopo questa esperienza, sperando che siano utili al proseguimento della campagna…

Torino, 8 gennaio 2006
TOP