PREVISIONE E PREVENZIONE DEI CONFLITTI ARMATI:
Riflessioni a partire dal maremoto nel Sud Est asiatico

Comunicazione di Alberto L’Abate del Corso di laurea in „Operazioni di pace, gestione e mediazione dei conflitti” dell’Università di Firenze, al Forum del Movimento contro la guerra, Firenze 25/26/27 Febbraio 2005


Durante un nostro recente viaggio in India è avvenuto il maremoto che ha colpito alcuni paesi del sud Est asiatico con un numero di morti inimmaginabili. Inizialmente si parlava di 150.000, ora si parla addirittura di 250.000. Questo disastro ha colpito anche la parte occidentale dell&Mac226;India, lo stato del Tamilnadu, ed in particolare la zona di Nagapattinan (tra le più colpite dell&Mac226;India), . in cui si trovava, in quel giorno, una nostra amica che era venuta a visitare un progetto di aiuto comunitario portato avanti da un gruppo di gandhiani nostri amici . Per sua e nostra fortuna lei ed i nostri amici si sono salvati ma molti degli abitanti di quel paese e di altre zone colpite dal disastro sono invece morti. Questo ci ha fatto riflettere sulle ragioni di un tale disastro e se fosse stato possibile evitare almeno una parte di quei tanti morti dei vari paesi colpiti da questo disastro E mi ha fatto anche pensare a tutti i morti che avvengono nelle guerre e nei conflitti armati e se, anche in questo caso, non sarebbe possibile evitare almeno una parte di queste morti. Secondo un giornalista indiano la forza sprigionata dal terremoto sottomarino che ha provocato quel fenomeno che gli indiani, riprendendo un termine giapponese, hanno chiamato „tsunami‰ (in italiano „onde nel porto‰) equivale ad oltre mille bombe tipo quella di Hiroshima, ed anche se alcuni critici hanno detto che le bombe atomiche, oltre all&Mac226;effetto immediato, hanno anche un effetto a lungo termine come lo sviluppo di malformazioni e di cancro che questo fenomeno non dovrebbe avere, anche questo confronto ci ha portato a pensare alle similitudini tra i disastri provocati da questo fenomeno e quelli invece provocati dalle guerre e dai conflitti armati, con gli oltre 250.000 morti, senza contare quelli successivi , delle due bombe su Hiroshima e Nagasaki.

Quello che è successo ha tutte le caratteristiche di quei disastri naturali che è considerato impossibile prevedere e prevenire. Ma in realtà su tutti i giornali dell'India è apparsa la notizia che disastri di questo tipo sono prevedibili, tanto che il governo indiano ha poi deciso di costituire un servizio speciale per la previsione, con gli altri paesi dell'area, di fenomeni di questo tipo. E la corretta previsione del fenomeno può portare almeno ad avvisare in tempo le persone ed a permettere a molti di loro, con l'aiuto di un valido servizio di protezione civile che in India sembra ancora carente, di mettersi in salvo. Alcuni esempi:1) la figlia del presidente di quella organizzazione gandhiana di cui parlavo prima, che studia in un college in vicinanza del mare, appena sentiti strani rumori dalla sua stanza al secondo piano si è affacciata alla finestra, ha visto le immense onde del mare (si parla di una altezza di oltre 9 metri) avvicinarsi, ha chiamato le compagne che incontrava ed è scappata al piano superiore. .Lei e le altre compagne che l'hanno seguita si sono salvate, le altre che sono restate nei piani inferiori sono state travolte dalle acque e sono morte; .2) . In un articolo intitolato "Una telefonata ha salvato un intero villaggio" del giornale „, The Hindu‰ del 1 gennaio 2005, si narra del fatto che un volontario di un progetto di informazione nei villaggi dell&Mac226; area di Nagapattinan che si era trasferito a Singapore, appena visto il maremoto in azione in quella zona, ha telefonato ai suoi vecchi compagni di lavoro avvisandoli del pericolo imminente. Attraverso altoparlanti e sirene gli abitanti di quel villaggio sono stati avvisati di evacuare le loro abitazioni. Il risultato è stato che nessuna persona del villaggio è restata vittima del maremoto; 3) Un altra notizia sulla possibile prevenzione di morti è riportata dal giornale The Hindu del 31 Dicembre 2004.. Si parla del fatto che intere comunità tribali che ci vivono, o altre persone che appena sentito il pericolo si sono recate nelle foreste vicine al mare, si sono salvate grazie alla protezione degli alberi della foresta, mentre le altre che si trovavano nelle zone senza alberi sono state trascinate in mare e sono morte. Il titolo dell'articolo è infatti "Dove le foreste hanno salvato la popolazione". E questo fa venire in mente gli immensi danni ecologici causati dalle multinazionali che hanno promosso, in vari paesi del terzo mondo, ed anche in molte aree del Tamilnadu ed in altre zone dell&Mac226;India, la coltivazione industriale di gamberi. Infatti per costruire le vasche dove questi animali vengono allevati, vengono spesso distrutte le foreste di Mangrovie (che la popolazione locale chiama „gli alberi che salvano le persone‰) che riparavano i villaggi da fenomeni di questo tipo, lasciando perciò la popolazione del tutto in balia degli eventi naturali. Altre notizie sui danni arrecati da queste multinazionali si trovano in un rapporto fatto dalla Coastal Action Network, una ONG che si occupa di monitorare le coste. In questo si accusa le multinazionali interessate alla coltivazione industriale dei gamberi di aver eliminato, per costruire le vasche nelle quali questi animali sono allevati, le dune che si trovavano in molte spiagge, togliendo così una ulteriore protezione alle popolazioni che vivono in quelle zone. Questo ci fa pensare all&Mac226;importanza della lotta nonviolenta contro questi impianti portata avanti per anni dai nostri amici Jagannathan e Krishnammal ( su questa lotta si veda il bel libro di una ecologa italiana Laura Coppo, Terra, Gamberi, Contadini ed Eroi, Editrice Missionaria Italiana, 2002, Bologna, recentemente tradotto e pubblicato in inglese, con una presentazione di Vandana Shiva) Altri danni, documentati dagli ecologi indiani, che hanno reso molto più vulnerabili le coste di questo paese ed aumentato il numero di morti e di sfollati a causa del maremoto, sono venuti dal non rispetto della legge che prevede che non si possano fare costruzioni a meno di 500 metri di distanza dal mare. In realtà moltissime costruzione sono state fatte, secondo una scienziato indiano M.S. Swaminathan (The Hindu, January 10), molto più vicino al mare, cercando di modificare la legge portando il confine a 200, e questo ha tolto una ulteriore protezione alle popolazioni della zona ed aumentato il numero di persone a rischio. Tutto questo fa vedere come anche fenomeni considerati "naturali" ed "ineluttabili" possono essere previsti, alla peggio anche con una cosiddetta „segnalazione precoce‰ come quella del volontario di Singapore, ed almeno le loro conseguenze più nefaste possono essere prevenute. Se poi ricerche più approfondite mostrassero un legame, anche se indiretto, di questi fenomeni, che in questi ultimi anni si sono succeduti con una certa frequenza in varie parti del mondo, con l'inquinamento ambientale portato avanti dall'industrializzazione dei paesi avanzati il problema e l'urgenza di lavorare per la prevenzione diventerebbe ancora più pressante ed urgente. Questa industrializzazione sta creando grossissimi problemi a livello mondiale (aumento del calore della crosta terrestre, scioglimento delle calotte glaciali artiche, innalzamento dei livelli dei mari, cambiamenti climatici rapidissimi, ecc) che hanno sicuramente effetti nocivi per la sopravvivenza della sfera terrestre, e che possono essere legati anche alla frequenza di fenomeni di questo tipo. A questi danni contribuisce anche l'India che sta cercando di entrare, molto rapidamente, all&Mac226;interno del novero dei paesi industrializzati, a costi umani altissimi (è la quarta potenza economica mondiale con un tasso di sviluppo economico annuo, di tipo neoliberista, di circa il 10 %,&Mac246; nei settori dell&Mac226;informatica, del tessile, delle automobili, delle costruzioni, ecc.- ma con una completa „de-regulation‰ stradale che fa si che, dopo la Cina, sia il paese con la massima mortalità per incidenti stradali, e che trascura del tutto le spese sociali, tanto che ha tassi di mortalità neo-natale ed infantile tra i più alti del mondo. Perciò, al di là della retorica, se si vuole realmente rendere omaggio alle tante vittime di questo disastro ed alle moltissime migliaia di persone che sono restate senza tetto e che sono dovute scappare in zone distanti dal loro villaggio, non basta commuoversi ed aiutare le popolazioni colpite da questo fenomeno, ma bisogna anche aiutarle ad organizzarsi, per lottare, con la nonviolenza, come hanno già cominciato a fare, contro questo modello di sviluppo che le sta rendendo sempre più povere ed emarginate (si veda&Mac246; chiedendolo al sottoscritto - il bel film sulle lotte delle popolazioni native del Kerala contro l&Mac226;impianto di Coca Cola che stava rovinando completamente l&Mac226;economia e la salute degli abitanti di quel villaggio), E' questo un insegnamento che dovremmo tener presente e non dimenticare,

Ma passiamo ora a prendere in analisi il fenomeno guerra ed i conflitti armati. Anche questi, spesso, sono considerati fenomeni naturali, legati alla natura umana che, da molti, è ritenuta violenta. .Moltissime persone, non solo in India ma anche nel nostro paese, non conoscono la dichiarazione di Sevilla (Spagna) che contesta molto seriamente questa naturalità della guerra e questo suo legame con una natura violenta dell&Mac226;uomo. Questa è stata scritta, per conto dell&Mac226;Unesco, da un gruppo di scienziati di fama mondiale di tutto il mondo e di tutte le rilevanti discipline. Nella versione più semplificata, adatta a bambini di scuole elementari, gli allievi del nostro corso e quelli di noi che si occupano di educazione alla pace, per rispondere alla richiesta dell&Mac226;Unesco e dell&Mac226;ONU, di dedicare il decennio 2001-2010 alla necessaria educazione alla pace ed alla nonviolenza delle nuove generazioni, stiamo cercando, come corso di laurea per operatori di pace o come ONG dell&Mac226;area nonviolenta e pacifista del nostro paese, con l&Mac226;aiuto di un certo numero di amministrazioni locali interessate alla educazione alla pace, di farla conoscere in molte scuole.

Ma anche nel nostro paese ed in molti altri, la previsione dei conflitti armati, come quella dei „Tsunami‰, è ad uno stadio quasi del tutto inesistente. Eppure dopo fenomeni tipo quelli del maremoto e dopo le guerre tutti diventano buoni e si danno da fare, con finanziamenti, aiuti umanitari, contributi vari per la ricostruzione delle case, per l&Mac226;assistenza ai bambini orfani, per la creazione di nuovi tessuti sociali,ecc., per superare i danni provocati da questi fenomeni. Ma per la previsione di questi non si spende, e non si è speso, nemmeno un euro. In Europa, ad esempio, le prime ad occuparsi di quella che viene definita la „segnalazione precoce‰ dei possibili conflitti armati sono state le ONG che, in circa 300, si sono riunite in un coordinamento europeo per la prevenzione dei conflitti armati e si sono.date da fare in questo campo (Si veda, ad esempio, il libro: European Centre for Conflict Prevention: Searching for Peace in Europe and Eurasia: an Overview of conflict prevention and peacebuiling activities, Lynne Rienner Publ., Boulder, London, 2002). In seguito a questo la Comunità Europea e poi l&Mac226;OSCE (l&Mac226;Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europea) hanno anche loro deciso di occuparsene e si sono attrezzate, più o meno bene, per rispondere a questa esigenza. Ma mentre in campo del clima la previsione dei fenomeni atmosferici, cui era interessata soprattutto l&Mac226;aeronautica militare, ha fatto passi da gigante tanto che le previsioni fatte attualmente sono incomparabilmente più valide di quelle che venivano fatte, ad esempio, circa 20 anni fa, nel campo della previsione dei conflitti armati siamo ancora ad uno stato di quasi analfabetismo. Incuranza o interessi più grandi da salvare delle multinazionale che costruiscono armi? Dal punto di vista delle attività portate avanti finora in questo settore si stanno cercando degli indicatori validi che possano dare dei segnali importanti sulla possibilità di esplosione di una guerra o di un conflitto armato in uno stesso paese (questi ultimi stanno diventando sempre più frequenti): 1) Tra questi indicatori va sicuramente preso in considerazione il livello e l&Mac226;aumento degli squilibri tra ricchi (come persone e come paesi) e poveri. Questi ultimi subiscono quella che Galtung (si veda, ad esempio, il suo libro, Pace con mezzi pacifici, pubblicato in Italia dalla Editrice Esperia, di Milano, 2000) ha definito la violenza strutturale, ( che è molto più pericolosa, anche perché meno visibile, di quella diretta), ma quando avviene qualche fatto che eccede la capacità della sopportazione di questi squilibri e di queste ingiustizie i poveri normalmente esplodono, difficilmente con la nonviolenza, che spesso non è stata loro insegnata, o che considerano una forma di acquiescenza al potere. E la risposta del governo, e della classe al potere, anche nei paesi cosiddetti democratici (che spesso lo sono solo di facciata), è quella di incrementare la repressione il che, momentaneamente, riporta la situazione allo stato precedente , ma fino al momento in cui qualche nuova ingiustizia ed abuso fa esplodere di nuovo la protesta violenta. Ed il ciclo ricomincia. 2) Un secondo indicatore importante è quello della spesa militare, specialmente se confrontata con quella sociale, ed anche qui il suo andamento. L&Mac226;aumento della spesa per armamenti va spesso a danno di quella sociale, e questo, da una parte, tende a peggiorare la situazione della popolazione più povera, con il rischio di una loro esplosione come accennato prima, dall&Mac226;altro il suo aumento è fortemente correlato alla frequenza delle guerre e dei conflitti: le armi non sono fatte per restare inutilizzate, anche perché la scoperta di nuove armi tende a renderle presto obsolete ( Si veda, su questo, C. Lamonaca, Più armi per tutti. I dati del commercio mondiale delle armi, in „Guerra e mondo. Annuario geopolitico della pace 2004‰, I libri di Terre di Mezzo) Altri indicatori possibili, sono: 3) il livello di scontri razziali e tra diversi gruppi etnici, ed anche qui il loro andamento. Un incremento rapido di questi fenomeni è un indicatore estremamente importante di una possibile esplosione di un conflitto armato ed anche di una guerra civile Altri indicatori importanti possono essere 4) il livello di bullismo nelle scuole, o 5) di mobbismo nelle fabbriche, o 6): fenomeni di sopraffazione e di conflitti che possono nascere in certi quartieri della città, ed anche in questo caso il loro andamento. La frequenza di questi ultimi fenomeni è un importante indicatore della diffusione di una cultura violenta a livello generale. In questo campo, purtroppo, nel nostro paese, .il livello di questi fenomeni, ed il loro andamento, è molto preoccupante, e fa vedere un incremento della violenza da parte dei giovanissimi, tanto che spesso la mafia (una delle organizzazioni criminali per le quali il nostro paese è tristemente famoso) ricorre per i crimini peggiori proprio a bambini che non possono essere puniti come i grandi. Non è questa la sede per vedere tutti i possibili indicatori che possono servire a segnalare precocemente l&Mac226;esplodere di un conflitto armato. Vorrei solo aggiungere due commenti: 1) Data la situazione attuale e la tendenza a nascondere fenomeni che possono danneggiare l&Mac226;immagine all&Mac226;estero dei propri paesi ci vorranno molti anni perché si arrivi ad avere dati validi e comparabili su questi fenomeni; 2) In attesa di questi può essere interessante l&Mac226;attenta osservazione di quelli che nel campo medico si chiamano gli „eventi sentinella‰che anche un buon giornalista o un attento osservatore può rilevare. Sono quei fenomeni di tale rilevanza che possono servire a prevedere un certo possibile andamento futuro, ad esempio il sorgere e lo svilupparsi di una epidemia, in campo medico, o, nel nostro caso, lo svilupparsi di un conflitto. Un esempio di questo possiamo prenderlo dalla nostra esperienza di lavoro nel Kossovo, durante un congedo universitario di due anni avuto per studiare quel problema e cercare di trovare soluzioni pacifiche al conflitto (si vedano, su questo, A. L&Mac226;Abate, Kossovo: una guerra annunciata, Ediz. La Meridiana, Molfetta (Ba.), , II ediz. 1999 - la prima edizione, con altro titolo, ma dalla stessa casa editrice, è del 1997 -; il numero speciale della rivista „Religioni e Società‰, Kossovo: conflitto e riconciliazione in un crocevia balcanico, Rosenberg & Sellier, anno XII, n.29; e il mio saggio: „La prevenzione dei conflitti armati a livello macro: il caso del Kossovo‰, nella rivista Servitium, Nov-.Dic. 2001) . Nel Kossovo, per lottare contro l&Mac226;annullamento incostituzionale da parte della Serbia delle forti autonomie di tipo statuale che questa regione aveva in precedenza, e contro l&Mac226;occupazione militare e poliziesca successiva a questa operazione, tra i kosovari di etnia albanese si era sviluppata una forte lotta nonviolenta (attraverso marce, digiuni, scioperi, e manifestazioni varie, ed attraverso la costituzione di un governo parallelo)..Ma tra i sostenitori della nonviolenza come azione diretta (marce, sit.in, ecc.) e quelli invece del governo parallelo (era stato istituito un governo alternativo, raccogliendo tasse e organizzando le scuole albanesi, di ogni ordine e grado, ed anche servizi sociali e sanitari alternativi a quelli della Serbia) non c&Mac226;era un accordo di fondo sui modi per liberarsi dal giogo della Serbia. I sostenitori dell&Mac226;azione diretta nonviolenta temevano che queste attività alternative servissero a pacificare la zona, a far credere che tutto andasse bene, che non ci fosse alcun conflitto, ed in fin dei conti servissero ai Serbi a risparmiare fondi per i servizi forniti dal governo parallelo. Che andassero perciò a favore dei Serbi. I sostenitori del governo parallelo (una delle tecniche più importanti della nonviolenza) temevano che il ricorso ad azioni dirette, anche se nonviolente, dato che la popolazione albanese non era preparata ad una lotta di massa nonviolenta, avrebbe portato i militari e la Polizia serba ad usare la violenza contro di loro, e che questo, a sua volta, avrebbe portato gli albanesi a reagire violentemente, facendo incrementare la violenza dei militari e della polizia serba contro di loro. E che,. dati gli squilibri di forze, tutti a favore dei serbi, questo avrebbe potuto portare ad una carneficina, a danno degli albanesi, e perciò ad una loro definitiva sconfitta. Un tentativo di superare questa distinzione tra questi due modi di lottare, e di elaborare una strategia comune che permettesse di unire queste due forme di lotta nonviolenta, era fallito per problemi tecnici. Al nostro ritorno in Kossovo (mio e mia moglie) dopo un periodo in Italia (i Serbi non ci hanno mai dato un permesso di soggiorno per lavoro, perciò ogni tre mesi eravamo costretti a tornare in Italia) una amica giornalista del Kossovo ci raccontò cosa era avvenuto a Dreniza, dopo l&Mac226;uccisione, da parte della polizia serba, di due militanti dell&Mac226;UCK (un esercito di liberazione armato che si era formato nel frattempo). Per la prima volta, per commemorare i due morti,un militante di questo esercito si era presentato pubblicamente a volto scoperto ed aveva invitato la popolazione albanese a prendere le armi per la liberazione del loro paese. E le circa 20.000 persone presenti avevano risposto con una ovazione alzando le mani in appoggio all&Mac226;invito. Questo fu per noi il segnale che ormai la guerra stava per esplodere&Mac246; come è avvenuto - e che la lotta nonviolenta, di qualsiasi tipo questa fosse, era superata, soppiantata da una lotta armata che avrebbe portato, con l&Mac226;aiuto della Nato e dei paesi occidentali, che invece non si erano mai mossi realmente in appoggio alle lotte nonviolente, alla liberazione del Kossovo. Quanto avvenuto a Dreniza ci apparve appunto come l&Mac226; „evento sentinella‰ che segnalava il passaggio da una lotta a lungo termine ma sostanzialmente nonviolenta ad una armata che porterà, appunto con l&Mac226;aiuto della Nato, alla liberazione del Kossovo dall&Mac226;occupazione militare serba, ma non affatto alla soluzione dei problemi di questa area che sono sempre molto grandi e rischiano, ogni giorno, di far riesplodere il conflitto armato (su questo fenomeno della segnalazione precoce nel Kossovo si veda il mio articolo„Prevenire la guerra del Kossovo‰.pubblicato nel giornale „Il Manifesto‰ nel settembre 1997, ed, in forma più lunga, nella rivista „Mosaico di Pace‰, nell&Mac226;ottobre 1997)

Ma passiamo ora al problema della prevenzione. Abbiamo già visto i grossi problemi di una valida previsione, e le sue difficoltà. Questo è del resto vero anche per quanto riguarda i maremoti se un giornale americano (The New York Times) ha potuto scrivere che il 75% delle segnalazioni precoci di questo fenomeno erano sbagliati. Ed una segnalazione sbagliata crea molti problemi e svuota il valore di questi avvisi, togliendo loro la fiducia delle popolazioni che poi, ad una segnalazione reale, tenderanno a non rispondere positivamente. Qualche cosa di simile è avvenuto anche in India per una segnalazione da parte di membri del governo stesso che hanno portato ad un grande panico tra la popolazione, ad una grande confusione ed anche a grosse difficoltà nei lavori di aiuto alle vittime del maremoto (si vedano The Hindu del 2,3,4 Gennaio 2005). Ma il grosso problema, anche se queste segnalazioni fossero valide, è il passaggio dalla previsione alla prevenzione vera a propria. Il distacco tra questi due aspetti dell&Mac226;intervento è spesso molto grande. Un esempio di questo distacco può venire dallo stesso Kossovo. Già nel 1992, un anno prima dell&Mac226;esplosione della guerra jugoslava, una organizzazione svedese, il Transnational Fund for Future Research and Peace, studiando a fondo la situazione di quell&Mac226;area, aveva concluso che c&Mac226;era il grosso rischio dell&Mac226;esplosione di un conflitto armato, ed aveva anche fatto una serie di proposte molto valide per la soluzione pacifica del conflitto, non molto diverse da quelle che porteranno, in seguito, alla fine del conflitto armato (che però ha poi provocato migliaia di morti da ambo le parti del fronte, e creato problemi successivi di convivenza tra gruppi etnici e linguistici diversi che sono ancora aperti). Ed aveva scritto un documento, molto importante, sulla prevenzione della guerra nel Kossovo. Noi, come attività dell&Mac226;Ambasciata di Pace che avevamo costituto nel 1994,, con la Campagna per una soluzione nonviolenta nel Kossovo e con l&Mac226;aiuto finanziario degli Obiettori di Coscienza alle Spese Militari, dopo perciò che le altre guerre in Jugoslavia si erano sviluppate e completate ma prima che esplodesse invece il conflitto armato per il Kossovo, sulla base delle proposte di questa organizzazione e di quelle di altre organizzazioni che si erano occupate del problema con lo stesso scopo di prevenire l&Mac226;esplosione del conflitto armato, abbiamo presentato alcune proposte per la prevenzione della guerra in un incontro speciale, presso il Parlamento Europeo, nel 1996, dedicato alla prevenzione dei conflitti armati che ha dato vita ad un organismo dedicato proprio a questo problema. Questo riprenderà molte delle nostre proposte e le presenterà ufficialmente all&Mac226;Unione Europea, ma nessuna di queste verrà messa in pratica, e questo porterà, nel 1998, allo scoppio della guerra per il Kossovo con le conseguenze prima indicate. Anche qui c&Mac226;è da porsi il problema delle ragioni per questa sordità. Semplice incapacità a comprendere le ragioni della pace, o grandi interessi per lo sviluppo della guerra? E&Mac226; certo che gli sforzi che fanno i vari paesi, di tutte le parti del mondo, per la prevenzione dei conflitti armati sono infinitamente inferiori a quelli fatti per prepararsi e per fare le guerre. Sulla base dei nostri studi sulle principali proposte fatte per prevenire il conflitto del Kossovo, e di un calcolo della spesa che questo lavoro ha implicato, e di quella invece incontrata per fare la guerra, abbiamo potuto concludere che per la prevenzione (ma in gran parte sostenuta non dai governi ma da ONG) si è speso 1 Euro, contro ogni 140 Euro spesi invece (questi in gran parte dai governi o da Organizzazioni Internazionali Governative), per fare la guerra, per gli aiuti umanitari per i kossovari espulsi dalla zona durante la guerra, e per la ricostruzione del paese finita questa. E&Mac226; uno squilibrio immenso che sta aumentando giorno per giorno se si pensa alle immense spese sostenute dalle Nazioni Unite per il governo attuale della zona che non si sa quando finirà perché la turbolenza ancora presente nell&Mac226;area non lascia presagire la fine della presenza internazionale. In questo caso la segnalazione precoce c&Mac226;era stata, ma non si è fatto nulla per prevenire il conflitto armato. Eppure il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, ha scritto pagine importanti sulla necessità della prevenzione dei conflitti armati, e cominciano ad esserci dei primi studi molto seri sul come questa dovrebbe avvenire ( Si veda, ad esempio, il lavoro della Carnegie Foundation, Preventing deadly conflicts, New York,1997) . Ma se i governi continuano ad essere così sordi rispetto a questo tema , e gli squilibri tra spese per la prevenzione dei conflitti armati, e quelli invece per portarli avanti continuano ad essere così alti a vantaggio di questi ultimi, è sicuro che avremo un futuro pieno di guerre e di conflitti armati.

Prima di chiudere vorrei fare un accenno sui problemi dell&Mac226;intervento nelle zone in cui questi disastri, siano il maremoto che la guerra, sono avvenuti, e sul possibile utilizzo (oltre che per la prevenzione dei conflitti armati, che sarebbe il loro compito specifico, anche per queste attività di aiuto alle popolazioni colpite da questi flagelli) degli Shanti Sena (Corpi di Pace), che Gandhi, Vinoba e Jayaprakash Narayan avevano promosso (si vedano: C. Walker, A World Peace Guard. An Anarmed Agency for Peacekeeping, Academy of Gandhian Studies, Hyderabad (A.P.), 1981; e Ramjee Singh, Shanti Sena: A guide Book, Serva Seva Sangh-Prakashan, Rajghat, Varanasi, 2003) e che l&Mac226;Europa, come impegno della sua nuova costituzione, sta cercando di portare avanti. Ma prima vorrei accennare ad un avvenimento che mi ha fatto molto riflettere in questi ultimi anni e che secondo me è significativo per capire, da una parte, l&Mac226;importanza di questi organismi, dall&Mac226;altra invece la riluttanza di molti governi, in questo caso europei, di occuparsi seriamente del problema della prevenzione dei conflitti armati.

Si è tenuto ai Parigi nell&Mac226;ottobre 2001, in una sala del Parlamento Francese, un Convegno su „L&Mac226;intervention Civile: Une Chance Pour La Paix‰ (Intervento civile: una opportunità per la pace). Il colloquio era organizzato dal Comitato Francese per l&Mac226;intervento civile di pace cui partecipano varie ONG di quel paese ed anche il Partito Verde francese, e dall&Mac226;Istituto di Ricerca sulla Risoluzione Non-violenta dei conflitti diretto da J.M. Muller, uno dei principali studiosi francesi di nonviolenza. Non parlerò qui del convegno sul quale ho già scritto altrove (si vedano le mie dispense: „Sociologia dei conflitti e ricerca per la pace‰, Centro Stampa Toscana Nuova, Firenze, a.a.2001/2002) Ma vorrei sottolineare solo alcuni elementi emersi dalle relazioni, e soprattutto dal dibattito molto franco tra le componenti istituzionali e quelle delle ONG, che mi sembrano molto istruttivi. Il Ministero della Difesa francese ha preso atto della importanza dell&Mac226;intervento civile tanto da creare al suo interno anche un Dipartimento sull&Mac226;intervento militare-civile, ed un altro su quello civile-militare. Ma concepisce questi tipi di intervento come subordinati a quello militare. Nelle parole di un suo rappresentante „l&Mac226;intervento civile è spesso fatto grazie a mezzi ed attrezzature messe a sua disposizione dai militari‰. Al contrario le ONG organizzatrici insistono sulla necessità di una completa autonomia dell&Mac226;intervento civile da quello militare che partono, nelle parole di J.M. Muller, „da due logiche completamente diverse‰, non escludendo una loro complementarietà e collaborazione, ma sullo stesso piano e non subordinando quelle civili a quelle militari. Questo problema è emerso chiaramente anche nel dibattito tra uno dei due esperti del ministero francese della difesa ed il pubblico. Nella sua relazione questi aveva detto chiaramente che nelle situazioni di crisi internazionale si possono ipotizzare tre fasi: 1) la prima è quella dell&Mac226;intervento armato; 2) la seconda quella della ricerca di soluzioni politiche; 3) la terza quella della ricostruzione. L&Mac226;intervento dei civili viene visto come importante soprattutto nella seconda e la terza fase. Alle rimostranze di alcuni dei partecipanti al colloquio sul fatto che così si metteva del tutto in secondo piano una delle fasi più importanti del conflitto, quella nel quale l&Mac226;intervento di corpi civili di pace può essere più cruciale, e cioè la prevenzione della scalata del conflitto e dell&Mac226;esplodere stesso del conflitto armato, che deve venire prima delle tre fasi su delineate, l&Mac226;esperto in questione prima non ha risposto, glissando sull&Mac226;argomento; poi, sollecitato a voce dal pubblico presente a dire la sua su questo argomento, ha riconosciuto l&Mac226;importanza del problema ma ha detto che questo è un problema politico che deve essere risolto in sede parlamentare e governativa, e non dal suo Ministero. Ma ha anche aggiunto che, secondo lui, il dibattito politico sull&Mac226;intervento militare o meno e sulla prevenzione dei conflitti armati è estremamente carente a livello del Parlamento Francese e che loro (i militari) avrebbero preferito, prima di essere coinvolti in un intervento nel quale le loro vite sono messe a rischio, un maggiore approfondimento di questa tematica che sembra invece messa in secondo piano dagli stessi politici. Se pensiamo al dibattito del 7 novembre 2001 al Parlamento Italiano (Camera dei Deputati) ed all&Mac226;appiattimento di questo, a stragrande maggioranza, su posizioni di appoggio all&Mac226;intervento dell&Mac226;Italia nella guerra in Afganistan, senza nemmeno prendere in considerazione le possibili obiezioni, non c&Mac226;è che da dargli ragione e vedere la pochezza di questo dibattito anche nel nostro paese. In complesso si può dire che il dibattito al Parlamento francese è stato molto utile anche perché ha messo a nudo le resistenze dell&Mac226;establishment nei riguardi dell&Mac226; intervento civile nei conflitti armati che viene sì considerato sempre più importante (su questo tipo di intervento si veda anche la mia relazione al congresso internazionale dell&Mac226;IPRI a Malta, pubblicata in India ed negli USA nella sua versione in inglese originale; „Forze nonviolente di interposizione. Sono possibili interventi nonviolenti efficaci nei conflitti armati?‰ la cui traduzione italiana è apparsa nel libro curato da A. Drago e M. Soccio „Per un modello di difesa nonviolento: Cosa ci insegna il conflitto nella Ex-Jugoslavia?‰, Editoria Universitaria, Venezia, 1995) tanto da riconoscergli lo spazio di dibattito all&Mac226;interno del Parlamento Francese stesso, ma che viene anche subordinato a quello militare considerato come quello fondamentale che deve dirigere anche l&Mac226;altro. E questo sottolinea il grande lavoro ancora da fare, non solo in Francia ma anche in altri paesi, non solo europei, per far comprendere la necessità di una autonomia e di una non subordinazione dell&Mac226;intervento civile a quello militare, che possono e devono sempre più collaborare reciprocamente per la difesa del paese&Mac246; che è l&Mac226;unica forma di uso della forza armata ammessa dalla nostra Costituzione- ma senza subordinare quello civile a quello militare, come sottolineato ripetutamente dagli organizzatori del colloquio stesso. Ma vediamo meglio cosa sono e cosa possono essere questi corpi.

I corpi civili di pace

L’India, primo paese del mondo, ha avuto l&Mac226;esperienza degli Shanti Sena (Corpi di Pace), che erano stati promossi da Gandhi, Vinoba e Jayaprakash Narayan, i due principali collaboratori e seguaci di Gandhi. Questi corpi sono intervenuti in molte località di questo paese per prevenire o superare conflitti inter-religiosi, per convincere i „banditi‰ a lasciare le armi e passare alla ricerca di soluzioni pacifiche ai loro problemi, per promuovere la comprensione reciproca tra gruppi etnici diversi, per aiutare la popolazione durante situazioni di emergenza, ed in altre situazioni simili (si veda, su questo, anche N.Desai, Toward a nonviolent revolution, Serva Seva Sang Prakastan, Rajghat, Varanasi, India, 1972) . Ma anche se Gandhi stesso prevedeva la possibilità di un impegno a pieno tempo di un certo numero di persone che lavorassero in questi corpi (si veda R. Singh, Shanti Sena: a guide book, Sarva Seva Sangh- Prekashan, Rajghat, Varanasi-221001, 2003, p. 8) attualmente in India questo impegno è lasciato a giovani studenti volontari, e alle donne dei gruppi di auto-aiuto.. Questo impegno volontario è sicuramente molto importante per avere risultati positivi dalle attività, ma fa anche sorgere problemi di coordinamento tra i diversi gruppi che operano, di continuità del lavoro (un volontario non può restare impegnato a lungo tempo a causa del suo normale lavoro da portare avanti), della mancanza di una formazione professionale specifica, ed infine della carenza di strutture logistiche ed apparecchiature spesso molto costose, che gruppi volontari non si possono permettere, ma che sono necessarie in molte occasioni . Se gli Shanti Sena indiani fossero stati ben equipaggiati e finanziati, organizzati e ben preparati, l&Mac226;intervento umanitario nelle zone del maremoto sarebbe stato molto più efficace di quanto sia stato in realtà. E&Mac226; questo un dato di fatto che nessuno, in India, ha avuto il coraggio di contestare.

Per quanto riguarda i conflitti armati in uno studio che abbiamo fatto sui risultati degli interventi nonviolenti in questi conflitti, già citato, abbiamo potuto vedere che essi sono stati realmente efficaci in varie situazioni (Algeria, Cina, Filippine, ecc.) anche quando sono stati portati avanti spontaneamente da popolazioni locali non preparate ad una lotta ed una resistenza nonviolenta, come è successo nella maggior parte di questi casi. Gene Sharp, il famoso studioso di nonviolenza (si vedano i suoi tre volumi su, Politica dell&Mac226;azione nonviolenta, Ediz. Gruppo Abele, Torino, 1985,1986,1997) pone, nei suoi scritti, il problema che, se questi interventi spontanei e non preparati, fossero stati, o fossero, aiutati da un certo numero di persone a pieno tempo, ben preparati all&Mac226;uso di tecniche nonviolente di intervento, e con una strategia ben studiata, i risultati positivi ottenuti sarebbero stati, o sarebbero, molto maggiori. Con questa idea in mente stiamo lavorando, a livello italiano ed europeo, per avere almeno un certo numero (per il momento, a livello europeo, si sta pensando a circa 2000 persone, come primo inizio) di persone a pieno tempo in questi Corpi Civili di Pace, per aiutare le organizzazioni volontarie che già lavorano in questo campo a coordinarsi meglio tra di loro e ad essere più efficaci:

In Italia c&Mac226;è già, per legge, un „servizio civile di pace‰ della durata di un anno, pagato, sia pur abbastanza poco, che può operare in progetti riconosciuti sia in Italia che in altri paesi., Ma questi sono giovani, di ambo i sessi, sotto i 26 anni, con scarsa esperienza di conflitti e di prevenzione e risoluzione degli stessi. Noi stiamo cercando, attraverso il corso di laurea per operatori di pace, per il quale i nostri studenti devono fare un tirocinio di almeno due mesi presso organizzazioni che stanno già lavorando in questo campo, di dare loro non solo una preparazione teorica ma anche capacità e conoscenze pratiche. Ma per questi corpi di pace c&Mac226;è bisogno anche di persone più anziane che abbiano lavorato nella prevenzione dei conflitti, nella loro interposizione, come, ad esempio, nella prima guerra dell&Mac226;Iraq, o in Jugoslavia, o in altri paesi, che potrebbero portare a questi corpi ed ai membri più giovani la loro esperienza e le loro conoscenze. Perciò in Italia un certo numero di ONG (13 per il momento, ma alcune di queste sono già dei coordinamenti di varie altre organizzazioni, perciò il numero effettivo è molto maggiore) hanno dato vita ad una „Rete per i Corpi Civili di Pace‰ che sta cercando di ottenere un riconoscimento ufficiale dell&Mac226;importanza di questa attività. Attraverso un lavoro di pressione dal basso, con altri gruppi europei simili, siamo riusciti ad avere, nella nuova Costituzione Europea, un impegno a costituire un „Corpo Europeo Civile di Pace‰ , ed a livello italiano, anche qui grazie ad un lavoro dal basso durato anni ed anni, esiste un a legge che obbliga il nostro governo a „promuovere e sperimentare forme di difesa non-armata e non-violenta”.

Il presidente del Comitato consultivo del Governo per la „difesa non-armata e non-violenta‰ Prof. Antonino Drago (in questo momento dimissionario per vari problemi interni del comitato), che è anche un collega impegnato nel nostro corso di laurea, mentre eravamo in India ci ha proposto di contattare il movimento gandhiano perché chieda al governo dell&Mac226;India di finanziare ed appoggiare gli Shanti Sena, per dare loro maggiore forza, ed iniziare una stretta collaborazione con i „Servizi di Pace italiani‰ (simili ma non coincidenti con i Corpi Civili di Pace ancora da essere organizzati e riconosciuti, anche se, singolarmente o in collegamento tra loro , le ONG che fanno parte della Rete hanno già fatto esperienze importanti in vari paesi del mondo)&Mac246; e con i Corpi Civili di Pace Europei, quando saranno stati organizzati&Mac246; e di metterli, sia gli uni che gli altri, a disposizione delle Nazioni Unite per interventi di prevenzione dei conflitti armati, di interposizione nonviolenta, di difesa nonviolenta quando sia necessaria, e per la ricostruzione di rapporti umani e di riconciliazione dopo la guerra.

Quello che è sicuro è che se le Nazioni Unite avessero, a loro disposizione, un corpo internazionale di pace, ben preparato alla nonviolenza, per gli impegni su citati, il loro ruolo nella prevenzione di conflitti e nella loro risoluzione nonviolenta, come richiesto dalla Agenda per la Pace delle N.U. e dallo stesso segretario generale Kofi Annan, sarebbe molto maggiore ed efficace di quanto sia attualmente (Si veda , su questo, il libro. curato da F.. Tullio, Una forza armata dell&Mac226;ONU: utopia o necessità, Casa Editrice Formazione e Lavoro, Roma, 1989)

Una proposta di questo tipo per un intervento in Iraq, al posto di quello militare che sta dando risultati abbastanza contraddittori (stimolando il terrorismo invece di eliminarlo) è stato presentato dall&Mac226;attuale governo spagnolo di Zapatero, ed è promosso anche da varie organizzazioni che fanno parte della „Rete Italiana per i Corpi Civili di Pace‰. Un&Mac226;altra proposta, con una raccolta di firme, è stata lanciata dalle organizzazioni francesi per „Interventi di Pace in Conflitti armati‰ (un altro nome per i Corpi Civili di Pace), e sta andando avanti a livello europeo, per chiedere all&Mac226;Unione Europea di intervenire con questi corpi nel conflitto tra Israeliani e Palestinesi. E&Mac226; infatti confermato da tutti i ricercatori per la pace che anche una semplice presenza di osservatori neutrali in un conflitto tende a ridurre la sua intensità e la sua violenza.

Il modello di sviluppo

Ma non basta avere dei corpi di pace ben addestrati alla nonviolenza per ridurre la frequenza e le intensità delle guerre. E&Mac226; necessario anche avere un modello di sviluppo completamente diverso da quello attualmente in auge ed imperante. L&Mac226;attuale modello di sviluppo, ormai diffuso a livello mondiale, sta infatti accrescendo rapidamente il distacco tra ricchi e poveri, sia come paesi che come persone, e sta portando all&Mac226;intera sfera terrestre problemi difficilmente risolvibili, di cui abbiamo parlato prima. E&Mac226; perciò necessario lavorare per un diverso modello di sviluppo che non abbia le implicazioni di quello/i attuali.

Il modello di sviluppo dei paesi che si sono definiti comunisti (ma che si potrebbero anche definire di „capitalismo di stato‰) ha portato un certo livello di sviluppo economico ai paesi dell&Mac226;Est, ma attraverso un sistema politico che non riconosceva le libertà fondamentali dell&Mac226;uomo, controllato da una polizia politica molto potente.. Questo sistema è crollato attraverso un movimento di massa del 1989 che qualcuno ha definito „nonviolento‰, ed altri invece come „potere popolare‰ (si veda, su questo, il bel libro di G. Salio, Il potere della nonviolenza: dal crollo del muro di Berlino al nuovo disordine mondiale, EGA, Torino, 1995).

Uno studioso ha scritto che ormai la storia dell&Mac226;umanità è finita, e che attualmente il solo modello valido di società e di sviluppo è quello capitalista, con il suo interesse centrale nel mercato e nell&Mac226;economia neoliberale. Ma è esattamente questo modello di sviluppo che sta portando, a livello ecologico, i problemi che abbiamo visto prima e che minaccia la stessa sopravvivenza del nostro pianeta, ed a livello politico e sociale, sta portando problemi e disastri ancora peggiori. Con la sua „guerra infinita‰ al terrorismo, Bush ed i suoi imitatori e seguaci, invece di eliminare e ridurre questo fenomeno lo stanno accrescendo, giorno per giorno ed in ogni luogo. Così la vita, in Israele, in USA, in Francia, Spagna ed Italia, ed in tanti altri paesi del mondo, sta diventando ogni giorno più insicura, a causa di questo terrorismo di ribellione (che è strettamente collegato al terrorismo di stato degli USA e degli altri paesi ricchi che usano la violenza strutturale per mantenere i propri privilegi a danno degli altri). Ed anche se questi paesi, come stanno effettivamente facendo, aumentano anno per anno le loro spese militari, questo non porterà sicurezza alle loro popolazioni, ma anzi le renderà sempre più insicure ed incerte del proprio futuro. Per queste ragioni anche questo modello di sviluppo non è affatto una via di uscita, non avrà una vita lunga, e probabilmente tra qualche anno cadrà in una crisi economica, politica, sociale molto grande.

In questa situazione il modello di sviluppo gandhiano, con la valorizzazione delle energie alternative (sole, vento, biogas, ecc.),.basato sul principio di solidarietà e non della competizione, e con un grosso peso .al decentramento economico, politico, sociale, sta diventando la sola possibilità di un valido futuro per l&Mac226;umanità, per uno sviluppo sostenibile, più giusto ed equo, più legato ai reali bisogni della popolazione. Si veda , su questo, L.Coppo, E.Camino, G. Barbiero, a cura di, L&Mac226;insegnamento di Gandhi per un futuro equo e sostenibile,Centro Studi Sereno Regis, Torino, 1999: Si veda anche, per una buona illustrazione di un diverso modello di sviluppo, basato su idee inspirate alla nonviolenza ed alla convivialità, il libro di uno dei più importanti pianificatori internazionali, John Friedmann, Empowerment: a politics for an alternative development, Blackwell Publishers, USA, 6 ristampa, 2006, la cui traduzione italiana è stata da me curata.: Empowerment: verso il „potere di tutti‰: una politica per lo sviluppo alternativo‰, Ediz. Quale Vita, Torre dei Nolfi (Aq.), 2004.

Ambedue questi impegni, da una parte il cambiamento dell&Mac226;attuale modello di sviluppo in uno più valido, dall&Mac226;altra una buona organizzazione di Corpi Civili di Pace efficaci a livello internazionale, sono reciprocamente correlati. Non si può infatti avere un Corpo Nonviolento di Pace per difendere un modello di sviluppo ingiusto e basato sulla violenza strutturale dei paesi ricchi. Ma per portare avanti questi due compiti c&Mac226;è bisogno di grossi sforzi dalla base e specialmente da parte dei movimenti che si ispirano alla nonviolenza ed alla pace. Questi devono infatti coordinare meglio i loro reciproci sforzi, organizzarsi meglio, come in parte stanno già facendo attraverso i vari forum per una alternativa, ed elaborare un piano strategico comune. Se questo avviene e se questi movimenti riescono, dal basso, a modificare il modello di sviluppo, e ad incidere anche a livello istituzionale verso i reciproci governi per avere dei corpi civili di pace validi e ben funzionanti, a disposizione anche delle Nazioni Unite per interventi di prevenzione dei conflitti armati, di interposizione, di difesa nonviolenta e di riconciliazione, la speranza di un futuro senza guerra potrebbe essere non solo una bella utopia ma più concreta e realistica..

Testo rivisto il 16/2/05

TOP