La Fine di un Primo Ministro e un Sogno Spezzato Troppo Presto
di Paolo Bergamaschi

Non è facile spiegare ad un Italiano cos’è la Georgia, terra di aspri contrasti, profonde contraddizioni e accese contrapposizioni. La gente di Tbilisi si vanta di avere in città più di cento gruppi etnici. Nella parte vecchia la chiesa ortodossa georgiana si trova a pochi metri da quella armena con la sinagoga e la moschea raccolte in un fazzoletto di suolo. Meno difficile è capire i Georgiani, amichevoli, aperti, casinisti e privi del senso dello stato. Proprio come noi.
Conobbi Zurab Zhvania nel 1989 a Bruxelles in occasione di un incontro fra ecologisti europei. L’Unione Sovietica era in via di disfacimento ed i primi rappresentanti delle timide società civili delle 15 repubbliche cominciavano a bucare la cortina di ferro. Stringemmo subito amicizia. Ci incontravamo regolarmente nelle varie riunioni in giro per il continente. Lui mi parlava spesso del suo paese e dei conflitti che lo insanguinavano. Nel 1991 partecipò alla rivolta che portò alla deposizione del dittatore Gamsakhrudia. Fu lui, poi, che ebbe l’idea di recarsi a Mosca per convincere Scevardnadze, l’ultimo ministro degli esteri sovietico, a ritornare a Tbilisi come pacificatore super-partes in quella interminabile guerra fra clan che lacera ancora oggi la società di quel paese. Ricordo nel 1992 durante mia prima visita nel Caucaso quando mi presentò Scevardandze, da poco eletto presidente, in un palazzo semi-distrutto con la città ancora sotto il coprifuoco. Invitai, in seguito, Zurab a partecipare come rappresentante dell’”altra Europa” a qualche conferenza in Italia. Era molto curioso. Voleva sapere tutto. Un giorno chiese di venirmi a far visita a Viadana per vedere come si vive nella campagna padana. Lo portai a vedere una partita di rugby, sport molto popolare anche nel suo paese.
Zurab fu poi eletto presidente del parlamento, la seconda carica dello stato. Quando veniva a Bruxelles mi faceva avvertire dalla sua ambasciata. Trovava sempre un ritaglio di tempo nella sua fitta agenda per una cena “senza protocollo”. E ogni volta che mi recavo a Tbilisi in delegazione raccoglieva gli amici comuni per una serata in compagnia nella quale fungevo da ospite d’onore. Una volta mi portò nella sua “dacia” in montagna dopo un’ora di viaggio su capezzagne infernali nei confronti delle quali le nostre strade di campagna sembrano vie del cielo dove mi presentò la moglie ed i figli. Voleva che tornassi con tutta la mia famiglia per le vacanze estive.

Intanto le cose in Georgia non andavano affatto bene. Scevardnadze si era attorniato di un gruppo di persone senza scrupoli che approfittavano della sua posizione di potere per arricchirsi mentre il paese era risucchiato nel baratro di una situazione economica catastrofica. La corruzione permeava tutti i livelli delle fragili strutture statali. Zhvania aveva convinto Mikhail Saakascvili, un giovane studente di legge georgiano, a rientrare dagli Stati Uniti e l’aveva lanciato come ministro della giustizia. Questi nel giro di poco tempo aveva abbandonato il governo dando voce alla galoppante insoddisfazione popolare. Di lì a poco anche Zurab avrebbe abbandonato il suo posto di presidente del parlamento per entrare nei ranghi dell’opposizione.

Il resto è storia recente. Nel dicembre del 2003 mentre guardavo alla televisione Saakhascvili che faceva irruzione nel parlamento per mettere a tacere Scevarnadze dopo la truffa delle elezioni gli telefonai per capire cosa stava succedendo. “Paolo” mi disse Zurab nella confusione generale “qui siamo nel mezzo di una rivoluzione”. La stampa internazionale l’ha poi definita la “rivoluzione delle rose” presa un anno dopo come esempio dai manifestanti in Ucraina che hanno portato alla vittoria Yuscenko. Nel gennaio dello scorso anno, dopo le dimissioni forzate di Scevarnadze, Saakhascvili è stato eletto presidente e dopo qualche giorno Zhvania è stato nominato primo ministro. Quando l’ho incontrato per l’ultima volta pochi settimane fa era orgoglioso di quello che stava facendo. Non nascondeva le difficoltà ma mi snocciolava dati economici di assoluto rispetto. Era ritornata la fiducia fra la gente e questo lo rendeva ottimista. Abbiamo scommesso sull’entrata della Georgia nell’Unione Europea. Lui sosteneva prima della Turchia io dopo. Non potrà mai saperlo e forse nemmeno io.

Entrando in ufficio giovedì ho trovato un e-mail delle ore 6,41 che dalla Georgia mi comunicava la sua improvvisa morte. Si accavallano tante ipotesi ma la più credibile, quella che almeno mi riferiscono i comuni amici di laggiù, è di intossicazione da monossido di carbonio. Intrighi e cospirazioni sono all’ordine del giorno a Tbilisi ma questa volta la morte sembra arrivata per caso, nel corso di una riunione notturna. Tutto si decide di notte nel Caucaso fra il fumo delle sigarette e i fumi dell’alcol contenuto nell’ottimo cognac locale la cui produzione è stata recentemente rilevata da una casa di distillazione francese. Saakascvili e Zhvania formavano una strana coppia che si complementava. Mentre il primo è impulsivo, focoso e demagogico, il secondo era pacato, riflessivo e disponibile all’ascolto. Saakascvili rappresenta l’anima irruente della rivoluzione, Zhvania quella moderata. Nel maggio di quest’anno dovrebbe entrare in funzione l’oleodotto che da Baku, in Azerbaigian, attraversando poi tutta la Georgia fino al Mar Nero e quindi a Ceyhan sulla costa sud della Turchia porterà il petrolio del Mar Caspio nel Mediterraneo tagliando fuori Mosca. I Russi hanno ancora tre basi militari in Georgia ma l’esercito di Tbilisi si avvale di consiglieri militari americani. Il Caucaso è una linea di faglia dove si scontrano le grandi potenze intente ad accaparrarsi il controllo delle forniture energetiche. La Georgia è un bicchiere di cristallo tra pentole di acciaio. Ha bisogno di un governo consapevole di camminare su di un campo minato. La Georgia ha perso un leader, io ho perso un amico.

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