La Nonviolenza In Cammino Numero 812 del 6 maggio 2009
3. NON UCCIDERE.
Marina Forti: Donne in Cammino col Cappio al Collo

[Dal quotidiano "Il manifesto" del 3 maggio 2009 col titolo "Donne in
cammino col cappio al collo" e il sommario "Pena di morte. La giovane
ventiduenne era stata condannata per un omicidio che avrebbe commesso quando
era minorenne. Un giudice aveva ordinato la revisione del caso. Ma un altro
ha dato il via al patibolo. Senza nemmeno chiamare l'avvocato. I genitori
informati da una telefonata della figlia pochi minuti prima dell'esecuzione.
Le detenute del braccio della morte di Tehran si raccontano in un
documentario. Parla la regista"]


Tutto ruota attorno alla storia di una giovane donna condannata a morte. E
di altre come lei, detenute in attesa dell'esecuzione della sentenza. Niente
fiction, e' un documentario quello che Mahvas Sheikholeslami, regista
iraniana, ha girato nel carcere di Evin a Tehran. E' il carcere noto per
aver "ospitato" generazioni di detenuti politici fin dai tempi dello shah,
dissidenti, giornalisti, piu' di recente blogger - in queste settimane anche
la giornalista american-iraniana Roxane Saberi.
Ma poi ci sono i detenuti e detenute "comuni", e molto meno si sa e si parla
di loro: chi, perche', quanto sia tutelato il loro "comune" diritto alla
difesa (un'organizzazione per la tutela del detenuti comuni, fondata un paio
d'anni fa dal giornalista e dissidente Emadeddin Baghi, ha vita perfino piu'
difficile della nota organizzazione per i diritti umani di Shirin Ebadi -
lui stesso, Baghi, e' stato a lungo incarcerato negli ultimi due anni).
"Insomma: un giorno - era circa nove anni fa - ho letto su un giornale il
caso di una donna, Fakhteh, che era stata condannata per aver ucciso un
uomo, un agente della polizia segreta", racconta Mahvaz Sheikholeslami, che
abbiamo incontrato di recente in Italia (era ospite della rassegna
Calendidonna di Udine, dedicata all'Iran). "Da quello che diceva il giornale
sembrava chiaro che aveva ucciso per difendersi, e mi sembrava assurdo che
l'avessero condannata a morte". Cosi' e' scattato qualcosa per
Sheikholeslami: "Sono andata a cercare la sua avvocata, ho cercato di capire
megio le circostanze e la storia di Fakhteh. Era un gruppo di avvocate, e
piu' mi rendevo conto del loro lavoro piu' ero entusiasta di loro. Dopo
cinque anni che seguivo il caso ho avuto il permesso di entrare nei
tribunale ad assistere a un processo. E' allora che ho pensato al
documentario. Dovevo entrare in quel carcere, volevo conoscere la storia di
quella donna".
Al documentario come "genere" Sheikholeslami e' approdata relativamente
tardi, la sua carriera era gia' consolidata nel cinema: aveva fatto la
scuola di belle arti appena prima della Rivoluzione islamica, ha continuato
a studiare alla London Film School, dal 1975 e' stata una producer con
alcuni dei migliori registi. Poi a meta' degli anni '90 ha deciso di
lavorare da sola: "volevo indagare la realta'", fare documentari.
Riuscire a entrare a Evin ha richiesto ben sei mesi di burocrazia, spiega,
ma poi ha ottenuto tutti i permessi. "Alla fine sono entrata, con la mia
telecamera. Il primo giorno e' stato forse il piu' importante. E' stato uno
shock. In trent'anni di cinema pensavo di saper come fare, di aver visto
tutto, ma non era vero". Come intervistare delle condannate a morte?
"All'inizio non mi volevano neppure parlare. Molte avevano sentito promesse
di aiuto che poi non erano state mantenute, e nella loro diffidenza c'era un
implicito 'perche' vuoi sapere?'. Insomma, il primo giorno non ho neppure
acceso la telecamera, abbiamo solo parlato. Di lei, di me, di tutto. Il
secondo giorno erano in parecchie a voler parlare con me. Avevo detto chiaro
che non avevo nulla da promettere, non ero la' per fare interrogatori ne'
per giudicare nessuno: solo sapere la loro storia, perche' erano la' in
attesa di quella sentenza. E alla fine si sono fidate".
Cosi' e' nato il documentario che Sheikholeslami ha terminato nel 2005 dopo
averci messo tutti i risparmi. L'ha intitolato "Articolo 61": e' un
riferimento all'articolo 61 del codice penale della Repubblica islamica
dell'Iran, che recita cosi': "Se, nel difendere la propria vita, onore,
castita', proprieta' o liberta' da una aggressione immediata o imminente,
uno commette un'azione che e' reato... non sara' perseguito ne' punito". La
legittima difesa sarebbe stato il caso di Fakhteh, che davanti alla
telecamera racconta come si e' trovata imprigionata da quell'uomo che ha
abusato di lei, come l'abbia colpito per scappare - un colpo alla testa con
tutta la sua forza, cosi' lui e' morto, ma lei voleva solo scappare da una
prolungata violenza. Non solo lei: "In quel gruppo erano 26 donne, tute
imprigionate per omicidio: 7 erano state condannate a morte e le altre a
detenzioni molto lunghe, 25 o 30 anni, per aver agito in concorso con
altri". Storie straordinariamente normali. "Chiedevo loro dell'infanzia, di
come erano cresciute, cosa facevano, fino al giorno del'omicidio. Avevo
cinque giorni di tempo per filmare, dalla mattina alla sera, poi il mio
permesso sarebbe scaduto. Ero entrata in sintonia con loro al punto che chi
ha visto il documentario dice che la telecamera non si percepisce neppure".
E' vero: la telecamera chiaramente e' ferma; sullo schermo lo spettatore
vede volti assorti, donne sedute in una stanza che raccontano: chi col tono
di chi ripercore i fatti per l'ennesima volta, chi col tono di volersi
ancora spiegare come andarono le cose, compagne di cella che parlano l'una
all'altra, a proprio agio. E forse proprio la normalita' del racconto fa
accapponare la pelle. Anche perche' poco a poco si scopre come tutto abbia
congiurato contro quelle donne - e chissa' quante altre come loro. Le
pretese di un uomo verso di se' o verso le proprie figlie, le aggressioni
subite, l'impossibilita' di rivoltarsi o chiedere aiuto, le norme di una
vecchia cultura che ritiene la donna responsabile di non aver "difeso il
proprio onore". Insomma: tutti omicidi per legittima difesa, o almeno con
tante possibili attenuanti, a volte neppure davvero provati. E pero'
condannate senza grande possibilita' di appello: un po' pesa la mancanza di
aiuto legale, un po' la cultura di magistrati e legali pronti a considerare
una donna aggredita colpevole a priori.
Le storie raccontate con candore davanti alla telecamera di Sheikholeslami
ricordano molto quella di Delara Darabi, "giustiziata" all'eta' di 22 anni
per un omicidio commesso (se l'ha commesso) quando ne aveva 17. Neppure il
finale ha molte varianti. "Sono rimasta amica di molte di quelle donne,
alcune mi telefonano dal carcere, qualcuna mi ha chiesto di aiutare i figli
che vano a scuola. Una e' uscita ed e' riuscita a trovare lavoro. La madre
che ha ucciso il marito che voleva violentare le figlie e' stata alla fine
impiccata pochi mesi fa". Storie fin troppo ordinarie che si ripetono.


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