Barbara Antonelli Intervista Suad Amiry

[Dal sito di "Noi donne" (www.noidonne.org) col titolo "Tra libri e
architettura il mondo di Suad Amiry" e il sommario "Palestina. Abbiamo
sempre tentato di convincere il mondo che noi palestinesi siamo persone
normali e come tutti vogliamo semplicemente vivere e godere della vita"]


Travestita da uomo, una notte del 2007 ha scavalcato il muro che separa la
Cisgiordania da Israele, per seguire Murad e altri giovani ragazzi:
palestinesi che ogni giorno si recano illegalmente in Israele per lavorare
(al nero e sottopagati), compiendo cio' che dal 2000 Sharon ha di fatto reso
impossibile per tutti quei palestinesi che erano prima impiegati come operai
o manodopera in Israele. Suad Amiry, scrittrice al suo quarto libro e
architetta palestinese, ha deciso di andare con loro, di condividerne il
viaggio, le paure e di scrivere del loro dramma quotidiano. Da questa
esperienza e' nato Murad Murad, edito da Feltrinelli, uscito in libreria in
questi giorni (ottobre 2009) e che vedra' la scrittrice impegnata in un tour di promozione in Italia.
"La maggior parte delle tv, delle radio e dei giornali, sono bravi a
mostrare come i palestinesi stiano morendo e come vogliano morire,
trasmettendo questa immagine negativa per la quale la vita non vale
abbastanza per essere vissuta - dice Suad Amiry -, tutto questo appare
evidente nella promozione negativa che anche gli israeliani fanno
dell'immagine dei palestinesi. Sono sempre stata attiva con l'Olp, con i
partiti della sinistra per oltre trent'anni; abbiamo sempre tentato di
convincere il mondo che noi palestinesi siamo persone normali e come tutti
vogliamo semplicemente vivere e godere della vita". I palestinesi e le
palestinesi che emergono dalla sua tagliente scrittura, vogliono appunto
vivere in modo semplice, andare al cinema, passeggiare, lavorare. Gia' dal
suo primo romanzo Sharon e mia suocera (edito nel 2003 da Feltrinelli) Suad
ha dato voce alla quotidianita' palestinese, al di la' di ogni banale
stereotipo, di ogni appiattimento disumanizzante. "Il mondo sbaglia a non
vedere la complessita' che ogni identita' racchiude", mi dice. In Niente
sesso in citta' ha definito la Palestina "una terra in menopausa", come le
sue amiche protagoniste del libro, prese a fare il bilancio delle loro
esistenze ma anche pronte a reinventarsi, a dare sfogo alla propria
creativita'. La sua scrittura ripercorre la complessita' dell'identita'
palestinese, anche le sue contraddizioni e lo fa senza alcun vittimismo e
con un'ironia schietta e pungente, un'ironia che lei stessa definisce
"strumento di sopravvivenza indispensabile, un'arma necessaria per
fronteggiare la realta'" per chi vive da oltre quaranta anni sotto
occupazione militare.
Cresciuta tra Amman, Damasco, Beirut e Il Cairo, la poliedrica Suad Amiy,
ancor prima di scoprirsi scrittrice, era gia' una brillante architetta. Ha
studiato architettura all'American University di Beirut e all'Universita'
del Michigan (Usa), seguendo la specializzazione a Edimburgo. All'inizio
degli anni Ottanta e' rientrata a Ramallah dove insegna architettura presso
la Birzeit University e dove nel 1991 ha fondato Riwaq, un centro di
restauro e conservazione degli edifici storici palestinesi. "Siamo un gruppo
di architetti - dice Suad - che credono che la Palestina abbia un'eredita'
culturale bellissima e che tale eredita' vada conosciuta, studiata e
protetta. Il primo passo passa attraverso la consapevolezza, per questo
lavoriamo prima di tutto perche' gli stessi palestinesi siano consapevoli
del patrimonio che hanno, un patrimonio che viene distrutto ogni giorno".
Progetti che testimoniano come i vecchi edifici possano essere riusati per
rispondere anche a esigenze piu' moderne, attuali, dimostrando che le
tecniche di costruzione tradizionali possono essere tutt'oggi utilizzate e
che la conservazione puo' in alcuni casi rivelarsi piu' economica di una
nuova costruzione.
La sfida e l'obiettivo di Suad e dello staff di Riwaq e' di proteggere e
riabilitare quelle aree in Palestina, significativamente piu' interessanti e
preziose dal punto di vista storico, compiendo allo stesso tempo una lavoro
di lobbying sull'Autorita' Nnazionale palestinese perche' promuova una
politica nazionale di difesa dell'eredita' culturale. Altro obiettivo,
incoraggiare il settore privato e i diversi attori (associazioni, gruppi,
Ong) anche non palestinesi a investire nella conservazione del patrimonio
culturale palestinese con delle linee guide che rispettino ovviamente tale
patrimonio.
Anche da qui nasce l'idea del progetto "A geography: 50 villages", geografia
di 50 villaggi, 50 luoghi in Palestina che Riwaq ha scelto per dare vita
alla sua Terza Biennale, fino al 16 ottobre 2009. Entrando nella sede di
Riwaq, pochi minuti da Al Manara, cuore pulsante di Ramallah, fervono i
preparativi per la Biennale. "Questi 50 villaggi sono stati scelti perche'
sono significativi dal punto di vista architettonico - racconta Suad - e
perche' possiedono degli edifici storici che si sono conservati in modo
magnifico. In collaborazione con le comunita' e le istituzioni locali,
l'idea e' fare di questi luoghi i protagonisti artistici della protezione e
promozione del patrimonio culturale in Palestina, organizzandovi eventi e
progetti, visite sul territorio per mettere in connessione artisti - e non
solo - internazionali e palestinesi". Non un evento unico quindi e nemmeno
un luogo unico. La scelta di una pluralita' di luoghi nasce anche
dall'esigenza di mostrare la frammentazione del territorio palestinese, la
frattura e la parcellizzazione dell'unita' del territorio che la politica
israeliana mette quotidianamente in atto attraverso l'occupazione e la
violazione del diritto internazionale.
La terza Biennale di Riwaq, quest'anno ospite - insieme ad altri artisti
palestinesi - alla LIII edizione della Biennale di Venezia (in un intero
padiglione dedicato - per la prima volta nella storia - all'arte
palestinese), costituisce anche un'opportunita' per riconnettere alla scena
artistica internazionale una Palestina isolata e ingabbiata. Cosi' l'arte,
la sua conservazione e la sua promozione, diventano mezzi di difesa
dell'identita' contro chi ogni giorno vuole alterarla o cancellarla. Ma
l'architettura non e' anche stratificazione culturale? "Se mi chiedete -
dice Suad - come architetta, quale e come sia l'architettura palestinese vi
risponderei che non abbiamo un'architettura palestinese, ma una architettura
romana, una italiana, una ottomana, e ancora altro". E allora la protezione
del patrimonio artistico diventa protezione di una identita', ma anche di
diverse identita'. Al di la' di ogni appiattimento stereotipato e sotto una
prospettiva inedita.
Per maggiori informazioni: www.riwaq.org

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