Postato da salaam.olivo@yahoo.it su Salaam - ragazzi dell'olivo
il 8/27/2009 12:41:00 A




Nei primi giorni di agosto un gruppo di persone hanno partecipato ad un viaggio in Palestina organizzato da Pax Christi. Tra loro alcuni vicentini, che ci hanno inviato questo reportage, in cui raccontano ciò che hanno visto e le proprie impressioni.
Lo pubblichiamo in più puntate, per facilitarne la lettura.

1 agosto

Partenza dall'aeroporto di Verona. Sei ancora in Italia, eppure inizi già a sentire il peso soffocante di una parola. Non di un apparato, né di un'organizzazione, ma di una parola: sicurezza. Israele è ossessionato dalla sicurezza: ogni cosa, ogni gesto, ogni azione sono pensate e fatte per la sicurezza.
A Verona ci mettiamo in fila per il check-in. Senza neanche accorgercene siamo circondati da alcuni uomini e alcune donne della sicurezza israeliana, che ci prendono in consegna e iniziano a tempestarci di domande (naturalmente, per la nostra sicurezza): Perchè vai in Israele? Cosa ti interessa d'Israele? Conosci gli altri del tuo gruppo? Da quanto tempo li conosci? Dove li hai conosciuti? Studi o lavori? Dove? Da quanto tempo? Chi ha preparato la valigia? Dove è stata la valigia da ieri sera fino ad oggi? Chi ti ha accompagnato all'aeroporto?
E fino a qui tutto ok, se non fosse che poi si ricomincia da capo: Perchè vai in Israele? Cosa ti interessa d'Israele? Conosci gli altri del tuo gruppo? Da quanto tempo li conosci? Dove li hai conosciuti? Studi o lavori? Dove? Da quanto tempo? Chi ha preparato la valigia?
Ecc., ecc. ecc. Un vero e proprio interrogatorio, per alcuni del nostro gruppo.
Dopo un'ora tre di noi vengono gentilmente invitati nell'area internazionale, per un controllo più approfondito. Con la presenza di alcuni poliziotti italiani vengono perquisiti fisicamente, le borse aperte ed esaminate e le valigie trattenute all'aeroporto. Il motivo? Sicurezza: i bagagli verranno spediti il giorno dopo a Gerusalemme.
Finalmente riusciamo a partire e ad arrivare a Tel Aviv, dove un pullman ci carica e ci conduce fino ad Aboud, un villaggio dei Territori Occupati circondato da due insediamenti israeliani.
Il percorso durerebbe circa venti minuti, ma bisogna superare i check-point: in uno non ci lasciano passare, è troppo tardi, mentre nel secondo va meglio. L'autista è incerto sulla strada, perchè nella West bank non tutte le strade sono uguali: alcune vengono riservate esclusivamente agli israeliani, e solo se hai la targa giusta puoi transitarci sopra. Il motivo? Sicurezza.
Finalmente, dopo un lungo giro, arriviamo a destinazione, e veniamo ospitati nelle famiglie: anche se è molto tardi vogliono accoglierci con tutti gli onori, offrendoci tè, caffè, dolci e frutta.
Dopo una giornata in cui siamo stati sballottati da una parte all'altra, finalmente incontriamo un po' di umanità: chissà perchè, ma forse è la prima volta da quando siamo partiti che ci sentiamo realmente sicuri.

2 agosto

Ci svegliamo nelle accoglienti case palestinesi dopo la pace notturna, il canto del muezzin ed il canto del gallo. Colazioni abbondanti anche di amicizia e con un po' di commozione. Si va tutti in chiesa, tanti i ragazzi con la maglietta scout ed un sonno da crollare, ma abuna Firas tiene svegli tutti con voce tonante e l'impeto del condottiero combattente.
Nell'omelia ricorda le “P” del Patriarca: presenza, preghiera, pellegrinaggio. Dobbiamo essere cristiani qui in Terra Santa, non In America; qui nella chiesa Madre. Qui portiamo la croce con il sorriso e lavoriamo perchè giustizia e pace s'incontrino anche nella Terra Santa. All'uscita nel bel salone della parrocchia moderno ed accogliente riceviamo il saluto della comunità ad uno ad uno ci guardiamo negli occhi che parlano più delle nostre bocche.
Sotto il sole battente si passa a visitare la chiesa ortodossa: una delle più antiche di Palestina con iscrizioni in aramaico e croce greca.
Via verso il primo incontro ravvicinato con il tipo d'insediamento israeliano che si sta riproducendo senza sosta dentro al territorio dell'autorità palestinese. Attraversiamo il villaggio quieto, verde nei giardini di case di buona fattura, si cammina su una strada asfaltata larga ed incoraggiante per chi volesse andare a Ramallah, magari a portarci la frutta. Poi s'interrompe in mezzo agli oliveti di fronte alla colonia di Bet Arieh, sorta dall'82: prima arrivano le roulottes, poi diventano case, poi sorgono le recinzioni a proteggere l'illegalità, poi arrivano i soldati a fare la stessa funzione.
Oltre le recinzioni che tagliano gli oliveti di Aboud ci sono cancelli : si aprono una volta all'anno per due giorni, il tempo concesso ai legittimi proprietari per raccogliere le olive, se non ce la fai, peggio per te. Un pick up blu della sicurezza passa su una strada sterrata sopra di noi: siamo stati visti.
Torniamo da Abuna Firas e dai suoi ragazzi che ci hanno preparato riso alle mandorle, pollo e birra fresca con un grappolo d'uva per finire. Già nella benedizione c'è il senso della sua missione di prete: dire la verità tutta quanta, proteggere le vittime, agire con giustizia e carità .
Al termine del pranzo abbiamo avuto la prova della straordinaria apertura della sua azione di denuncia. E' arrivato fino al la Camera dei Rappresentanti degli USA, ha coinvolto il Vaticano, ha fatto paura ad Israele. Perchè? Per aver detto che Israele ruba l'acqua e la terra ai palestinesi ed averlo dimostrato.
Recentemente gli è stato consigliato di stare un po' zitto, ma non sembra il tipo da riuscirci. Ci offre un'impressionante serie di dati sulla progressiva sottrazione di territorio ai palestinesi, tanto che alla fine delle diverse misure di occupazione israeliana, giustificate come “sicurezza”, la quarta religione della Palestina dice Firas scherzando, ci sarà solo un 54% della terra dei palestinesi per i palestinesi. Che fare? Non stancarsi di dire la verità, informare perchè il mondo non sa, l'America non sa, l'Italia sa poco; occorre dare la notizia, non confezionare la notizia.
E' difficile entrare in contatto con movimenti israeliani per la pace, perchè in Israele comanda l'esercito, mentre il governo è sempre un fantoccio.E' difficile parlare con gli israeliani, si passa subito per collaboratori. Per dire che anche i palestinesi devono fare passi avanti, anzitutto nell'unità: la loro divisione ha permesso il massacro di Gaza. Ma non ci sono in giro leader, neppure in campo palestinese.
A Qalqilia si entra senza controllo ed è un fatto eccezionale. Ma anche Suad, la vigorosa palestinese che ci farà da guida, è un incontro di eccezionale valore per competenza e passione.
Ci accoglie nel centro di primo soccorso sanitario voluto da Barguti. Ci racconta di quanto sia difficile spostarsi fra una località e l'altra quando l'emergenza sanitaria preme e come sia ancora necessario garantire l'assistenza di medici volontari a fronte di notevoli carenze del sistema sanitario pubblico, cui pure i soldi non mancano.
Le lasciamo un po' dei nostri medicinali, per poi andare con lei a vedere da vicino il muro; anzi la prima tappa è un varco nel muro; quello che si apre al mattino per tre ore e fa passare circa 6000 palestinesi che da Qalqilia e dintorni vanno a lavorare con permesso speciale in Israele, tutti rigorosamente “in nero”.
Intervistiamo qualcuno di ritorno a fine giornata, finchè una guardia viene a dirci che se non ce ne andiamo, si bloccano i cancelli d'uscita per gli altri: ce ne andiamo per non coinvolgere operai stanchi rimasti in gabbia.
Altrove vediamo il muro sbarrare lo scarico delle acque piovane e provocare in inverno l'allagamento delle vicine scuole elementari . Lungo il muro arriviamo al cancello dei contadini, aperto per un paio d'ore al mattino con lo scopo di fingere di consentire ai legittimi proprietari, separati dai loro terreni, di poterli coltivare.
La forte Suad lì si commuove a vedere così espropriata e sfigurata la terra che fu di suo padre e dove lei bambina giocava fra gli alberi di arancio e limone. Già suo nonno aveva perso i terreni nel 1948 al di là della linea verde. E' la storia di tanti palestinesi che da proprietari sono diventati schiavi e devono comprare ciò che ieri vendevano.
Suad si batte il petto e trattiene un singhiozzo:”Non so cos'è la terra per Israele, ma so che per noi la terra sta dentro di noi, conosciamo gli alberi uno ad uno, come i nostri figli
”. Questa commossa confidenza spiega in modo toccante quale sia l'offesa e l'umiliazione che troppi palestinesi hanno subito da parte di un'autorità che agisce illegalmente con la forza.
Suad ci saluta tutti con un bacio ed un abbraccio che è un modo per dirci grazie di essere stati lì, ci chiede solo di raccontarlo per far sapere ed aiutare così la giustizia, madre della pace, a fare qualche progresso, almeno nella mente di uomini informati.

Continuiamo la pubblicazione del reportage inviatoci dagli amici vicentini che hanno compiuto il viaggio in Palestina con Pax Christi.

3 agosto

“La pace non c'è perchè non la vogliono”. Con le parole pacate del patriarca emerito Michel Sabbah incomincia il nostro viaggio da Taybeh – l'Efraim del Vangelo – verso Ramallah.

Mentre aggiriamo le colline intorno a Gerusalemme, inseguiti dal muro e dai check-point è un canto ad accompagnarci, a interrogarci con le sue parole – “ci ha riportati liberi alla nostra terra” – speranza d'un popolo ancora nel mezzo del suo Esodo.

Esodo che assume volti, gusti, voci, vesti e musiche diverse.

Il gusto dell'acqua, di cui gli agronomi del PARC (Agricultural Development Association) ci raccontano la distribuzione in Terra Santa: 90% agli israeliani, 10% ai palestinesi.

La voce delle prigioni, di cui ci racconta l'avvocatessa Buthainah Dugmag del centro Mandela: si occupano di uomini e donne illegalmente detenuti (sono 9.600). Risponde alle nostre domande, molte volte puntuale – capiamo che la violazione del diritto è la norma – qualche volta prudente. Il suo lavoro nasce dalla sua storia personale: nel 1979, a Beirut, anche lei è stata in carcere, come molti dei suoi familiari: “In quegli anni, dice, “ho preso la mia decisione, che continua e continuerà fino a quando non ci saranno più prigionieri, e non ci saranno più prigionieri quando avremo la nostra terra”.

Le vesti cucite dalle donne del Centro pastorale melkita – dove ci guida Lina – che inventano stoffe e ricami, custodie rosse e blu per occhiali, telefonini, Bibbie.

Le note della scuola di musica “Al Kamandjati” (Il violinista), fondata da Ramsi, ragazzino che nell'87, a otto anni, scagliava pietre durante l'Intifadah, e ora, violinista affermato, strappa i ragazzi dai campi profughi e gli apre un futuro insegnando musica.

Ma l'Esodo ha soprattutto il volto e le parole del pastore, Abuna Manuel, che incontriamo a Bir Zeit, appena ritornato da Gaza, dove ha trascorso – ma bisognerebbe dire è stato imprigionato con il suo popolo – per 14 anni.

Gaza si materializza in mezzo a noi: nella fatica del pastore che deve predicare su carità, fede e speranza a chi non ha terra, né lavoro, né casa e neppure speranza.

Ci parla di Hamas; del viaggio del papa, della guerra dello scorso inverno. Delle case in polvere, della sua paura, dei bambini senza più gioia.

Ci fa ascoltare, dalla suoneria del suo telefonino, la preghiera che ha composto per Gaza e che un compositore ha messo in musica. E la musica resta dove le parole hanno fine, sale nel cielo di Bir Zeit dove la luna è già alta.
“Tu che sai strappare dalla morte / hai sollevato il nostro viso dalla polvere” cantavamo stamattina. E con questo canto il report si fa preghiera, e la preghiera Esodo verso una terra dove i sassi possono diventare violini, le pietre di rabbia note di pace, e il pianto di Gaza un canto di liberazione suonato da un telefonino.

4 agosto

Ci svegliamo presto. Giornata di sole profondo. Partiamo per la Galilea: colline, case, poche parole condite dal sonno. Galilea, verso Nord. Al check-point noi passiamo veloci; loro, ancora una volta, no... Deserto. Immagino Lui e ne cammino i passi. Oro nei campi bruciati dal sole. Palme, poi limoni e girasoli e da lontano il sogno del Giordano. Passiamo lungo il lago di Tiberiade: siamo in Israele.

Ci fermiamo dinanzi al kibbutz di Sasa e inconsapevolmente ripensiamo alla realtà palestinese, a quelle centinaia di migliaia di persone che hanno visto distruggere le loro case per far posto agli insediamenti dei coloni e ora vivono profughi nella loro terra.
Il viaggio è lungo in pullman per i nostri standard, ma questo ci permette di riposare e di chiacchierare poi gli uni con gli altri, raccontare le nostre impressioni, parlare delle nostre vite e delle nostre possibili vite.


Incontriamo a Bar-am vicino al confine con il Libano il prof. Geries Khury. Ci racconta del suo villaggio distrutto con la menzogna e la forza delle armi dall'esercito israeliano nel 1948, ci trasmette la forza della sconfitta, la voglia di restare, la perdita di fiducia, la resistenza non violenta, ci racconta del pianto della madre durato per più di quarant'anni, della voglia di vivere del suo popolo, del popolo palestinese che vuole tornare a casa, vivere nella propria casa e nella propria terra dove è nato e vissuto da secoli. Ogni anno la gente del villaggio organizza campi estivi nel villaggio distrutto, feste con giovani e anziani per non perderne la memoria, ora che è diventato un parco per fare i pic-nic. Cerca il dialogo che è liberazione se mente e cuore sono aperti nella e per la differenza dell'altro, ci dice. Ci lascia dopo aver pranzato nel suo villaggio consegnandoci questo monito: ”Noi palestinesi non cerchiamo gente pro Palestina o pro Israele ma pro Gesù, solo così si avrà realmente la Pace”.
Ci dirigiamo poi a Tabgha dove Gesù donò a Pietro il tempo per diventare immortale; c'è il lago di Tiberiade dove l'acqua e le scritture si incontrano, permettendoci di incontrarle noi stessi.


Alcuni si ascoltano dentro la chiesetta costruita su Quella Pietra, altri scelgono l'acqua, entrano e sognano ad occhi aperti. Non ce la facciamo a vedere Nazareth e Cafarnao. Vediamo qualcos'altro d'incredibile però che fa da specchio sulla luna quasi piena e la luce del tramonto il deserto della Giudea. Lì forse alcuni di noi hanno capito il perchè del proprio viaggio, in quel deserto deve averlo capito anche Gesù.

Siamo sulla via del ritorno per il secondo incontro con Abouna Raed, uomo e prete di grande coraggio e determinazione. Un uomo che non si ferma mai, questo è sicuro, produce, combina, scambia, raccoglie, semina, costruisce, che quasi la parabola del tempio sembra vera. “Tutto è possibile, niente è impossibile se c'è la fede, la provvidenza aiuta”, ci dice con un'energia che entra dentro di noi.

Molto non ricordo delle diecimila cose dette o fatte da Abouna Raed, ma a me ha dato speranza e forse anche un po' d'agitazione.

Ci mostra e ci spiega le parabole attraverso le mura del suo passato, ce le spiega con la capacità di un saltimbanco, sgattaiolando di qua e di là che è difficile stargli dietro. Lui è logico e convincente e per la prima volta vedo con i miei occhi dove può esser nato veramente Gesù, in un luogo simile, in un posto semplice della città di Betlemme. Ci parla della "quarta stanza", di quell'unica mezza stanza lasciata ai palestinesi della propria casa. Ci spiega saltellando come un grillo dalla sua poltrona che lui non vuole più sentir parlare di pace, ma di riconciliazione: il bisogno di trasformare il proprio nemico nel proprio amico! Gerusalemme è la chiave di tutto: tre nomi in tre religioni per due popoli aperta a tutti! A tutti noi capite? Per tutto il mondo, centro di tutto il mondo, finalmente libera.

Ci dà speranza ma anche ci racconta che la strada è quella dell'unità, del dire sì, del togliere quel muro ”di sicurezza” che troppo spesso anche noi vediamo e vendiamo in cambio della nostra dignità e della nostra verità. Molto altro ci ha raccontato con la voce e con tutto il suo corpo, ma vi lascio con una frase che lui ha citato nel nostro primo incontro a Taybeh: “la più grande avventura è la libertà della mente”, in ognuno di noi spero accada.

Check point: controllo o umiliazione?
Da quando siamo arrivati in Terra Santa, la terra dove Gesù ha testimoniato con la sua vita la Buona Notizia di amore e libertà, paradossalmente, il muro ci ha accompagnato in ogni luogo. Da lontano, coronando le colline, come qualcosa di onnipresente ma intangibile, come una visione in un incubo, poi da vicino, purtroppo, toccandolo con le nostre mani nude a Qalqiliya, increduli di fronte alla sua altezza, lo abbiamo attraversato per spostarci non da uno stato all'altro, ma da una città all'altra.
Già, attraversato, noi sì che lo possiamo fare, perchè il passaporto italiano ci permette di andare ovunque, come cittadini del mondo, ma i palestinesi no, loro non possono, hanno bisogno di un permesso speciale, perchè essere palestinesi oggi equivale a “non essere liberi”.
Questo muro di divisione e di oppressione è intervallato da check points.

Check points....punti di controllo...ma è davvero questo il loro significato?

Lo può credere il turista che lo attraversa durante il giorno, quasi vuoto, con i militari israeliani che aprono ogni porta a chi viene dall'estero, gentili e sorridenti per far sembrare tutto come una normale prassi, come avviene al check-in all'aeroporto, all'insegna di una sicurezza per tutti.
Ma il dramma di tutto ciò, di quello che questo muro vuol dire, di quello che la sua costruzione ha causato e di quello che ogni giorno provoca nelle persone diventa evidente la mattina presto, fra le 4 e le 7, quando dai check points devono passare i lavoratori palestinesi che si recano nelle città israeliane per cercare di guadagnare abbastanza per sostenere le proprie famiglie, elemosinando lavoro dagli israeliani.
Lo vediamo coi nostri occhi, lo viviamo sulla nostra pelle...non ci potranno più essere informazioni manipolate o video passati velocemente in televisione che ci faranno credere altro.
Alle 4.30 arriviamo al check point fra Betlemme e Gerusalemme.
Ci sono già circa 1000 persone che aspettano perchè Betlemme, dopo la

costruzione del muro, ha subito un forte decremento del turismo e ora la disoccupazione è la più alta di tutta la West Bank, circa il 70%. Check point, punto di controllo… piuttosto lo chiamerei punto di ingiustizia e soprattutto di umiliazione.
Perchè è questo che avviene!
Qui non c'entra la posizione politica o l'ideologia. Si tratta del diritto dell'uomo ad essere trattato come tale...e qui tale diritto viene violato.
Lavoratori, uomini fra i 30 e i 60 anni, sono ammassati in due lunghi corridoi di larghezza di un metro, delimitati da sbarre verticali che ricordano quelle delle gabbie degli zoo, sdraiati per terra sui cartoni sui quali hanno dormito, seduti o in piedi.
Dormono, parlano, fumano… ma la cosa incredibile è che alcuni riescono a scherzare fra loro.

Già, perchè come mi racconta un uomo di 40 anni con 2 figli piccoli a casa,“noi siamo uomini e non capre e anche se ci trattano così noi cerchiamo di scherzare, se no moriamo”.
Ma perchè arrivano così presto?
La risposta è presto detta: ammassata con loro nella gabbia guardo l'orologio, sono le 5.30, e la piccola porticina nel muro che dovrebbe aprirsi alle 5 è ancora chiusa.
Sono migliaia di uomini, qualche donna, devono essere sul posto di lavoro alle 7, senza il muro ci impiegherebbero da casa un'ora al massimo, ma ora devono passare un cancello, un controllo del permesso, un tornello, un metal detector e un controllo del passaporto e… credete sia finita? No… anche il controllo delle impronte digitali! In Italia questo è il trattamento riservato ai delinquenti!
Ma forse tutto questo non è ancora la cosa peggiore. Per più di due ore tutte queste persone sono trattate in modo umiliante: il cancello non apre in orario? Perchè dare spiegazioni? Aspettate e basta! E senza lamentarvi, ovviamente, se no rischiate di non passare.
State passando dal tornello finalmente? Correndo e accalcandovi perché rischiate di arrivare in ritardo al lavoro? Ve lo blocchiamo improvvisamente… senza spiegazioni.. ovvio! Anche perchè le spiegazioni dovrebbero arrivare da dei ragazzini di 20 anni.
Già, ai check points ci sono i militari israeliani di leva, ragazzi e ragazze molto giovani, carnefici e vittime del muro.
Alcuni sono arroganti, trattano i palestinesi con disprezzo, come se fossero bestie, non rivolgendo loro la parola, parlandogli a gesti, non degnandoli neanche di uno sguardo, masticando pigramente chewing gum da dietro i vetri di separazione mentre osservano i permessi che con così tanta fatica loro si sono procurati o addirittura, le soldatesse, truccandosi in attesa di aprire i cancelli … tanto che fretta c'è?
Altri invece no.
Il muro è disumano anche per alcuni ragazzi israeliani. ”400 ragazzi di leva si sono suicidati nell'ultimo anno” ci raccontava giusto ieri sera il nostro amico palestinese Sami Basha. Quando finalmente questa via crucis dei lavoratori finisce e verso le 7 insieme a loro alcuni di noi riescono a passare tutti i controlli, crediamo sia finita. Ma non è così.
Credevamo di aver visto tutto il peggio, e invece tornando indietro verso Betlemme scopriamo che c'è ancora una lunga coda di chi aspetta di passare il check point verso Gerusalemme.
Un uomo ci racconta che questo gruppo si era diretto ad un altro check point, ma da lì non li hanno fatti passare e così sono dovuti correre qui.
Perchè? Non si sa, bisogna obbedire e basta ovviamente.

E allora, mentre il sole sta sorgendo su questa terra bellissima, nei nostri cuori restano emozioni contrastanti: una grande stima per la dignità che questi uomini hanno dimostrato per tutto il tempo, incredulità, tristezza, amarezza, forse qualche piccolo accenno di speranza.

Ma più fra tutte risuona una parola, incisa nei nostri cuori e sui volti dei palestinesi incontrati, semplice ma profondamente umana: perchè?

5 agosto

Come si fa a vivere in una casa circondata da un muro di cemento alto più di otto metri? La famiglia Anastas è arrivata qui a Betlemme molti secoli fa, proveniente da Venezia e dalla Grecia, e purtroppo sa cosa vuole dire. Come cristiani hanno sempre vissuto in pace con tutti gli abitanti del luogo, per generazioni e generazioni, fino adesso: la madre, Suheila, una donna di quarant'anni ancora giovane e combattiva, nonostante tutto quello che ha subito, gestisce un piccolo negozio di souvenir al pianterreno, mentre Johnny, il padre, fino a poco tempo fa era meccanico in un'officina.
Ci accolgono nel loro appartamento, sobrio e semplice, in una palazzina grigia non lontana dal check point d'ingresso, e subito capiamo che cosa voglia dire vivere soffocati da una gabbia: una consapevolezza che ci colpisce con la violenza di un pugno nello stomaco.
(video: la famiglia in gabbia)Ci affacciamo alle finestre, protette da alcune tende, oppure usciamo sul balcone ricoperto di viti e grappoli d'uva illuminati dal sole, ma non riusciamo a scorgere il cielo, o le colline oltre Betlemme. Tutto intorno a noi, a destra, a sinistra, al centro, a una distanza massima di 3-4 metri, corre il muro di separazione, che copre tre lati della casa, creando una specie di ansa dentro cui siamo imprigionati. Capiamo allora a cosa servono le spesse tende che ricoprono le finestre: in questo modo le telecamere di sorveglianza non possono spiare dentro l'appartamento, proteggendo quel minimo di intimità che ancora rimane.
Suheila ci spiega che gli israeliani hanno modificato il tracciato della barriera per poter inglobare la Tomba di Rachele, un luogo sacro agli ebrei, e consentire così ai pellegrini di poterla raggiungere senza entrare in territorio palestinese. “Il muro l'hanno tirato su in un giorno - ci raccontano - una mattina siamo usciti per andare al lavoro, o a scuola, e quando siamo tornati la sera ci siamo ritrovati in gabbia”.
Durante la seconda Intifada hanno passato dei brutti momenti: il coprifuoco, l'assedio, le bombe, gli spari, soldati israeliani che si erano installati al secondo piano della loro casa. Non potevano uscire per andare a lavorare; e hanno dovuto vendere quasi tutto per tirare avanti.
Come si fa a sopravvivere in una città messa in ginocchio dall'occupazione militare, ci domandiamo? Vincenzo, un giovane missionario laico di Mazara del Vallo, in servizio presso il Patriarcato Latino di Gerusalemme, è colui che ci accompagna dagli Anastas.
Mentre camminiamo ci fa notare i venditori ambulanti o i negozi chiusi ai lati della strada. “La vita è dura per gli abitanti di Betlemme - ci spiega - fino a qualche tempo fa non si vedeva nessun mendicante in giro, mentre adesso prendono d'assalto i pellegrini nella speranza di racimolare qualcosa.” L'occupazione ha messo in ginocchio l'economia della città: con il muro i turisti arrivano da Gerusalemme in autobus, si fermano alla Basilica della Natività, comprano qualche souvenir nei negozietti vicini e poi ripartono, senza mai fermarsi oltre il tempo necessario. Il negozio di Suheila non vede un cliente da mesi, e per sdebitarci dell'accoglienza non possiamo fare a meno di acquistare qualche regalino da lei, spendendo euro su euro ma sapendo che anche questa può essere una forma di resistenza.
Ma come si fa a mantenere viva la speranza, ci domandiamo sgomenti di fronte a tutto questo?
Charlie, un giovane fedele melkita che ci fa da guida alla Basilica della Natività, non ha una formula magica, ma come tutti qua si dà da fare per non lasciarla morire. È un cristiano anche lui, come gli Anastas, uno dei pochi rimasti in Terrasanta, la minoranza di questa regione. Nella sua chiesa, con sguardo magnetico e un ottimo italiano, prova a spiegarci la sua ricetta: “I giovani sono la nostra grande speranza. Speranza non solo per i cristiani ma anche per tutto il popolo palestinese, speranza di poter un giorno raggiungere finalmente la pace”.
Ci racconta dei suoi incontri con questi giovani, di come ricerchi sempre il dialogo con loro e di come provi a raggiungerli in ogni modo, con la radio, la televisione, internet. Ultimamente ha fondato pure una piccola rivista cristiana in arabo, che riesce a raggiungere più di tremila famiglie.
Sono piccoli semi di speranza, ma bastano di fronte a tutta la violenza che abbiamo visto? A tutto l'odio? All'ingiustizia? E allora torniamo a domandarci, mentre il sole tramonta sopra i tetti bianchi di questa città: come si fa a rimanere fedeli? A non spegnere quella piccola fiamma che ancora arde, nonostante tutto? Mentre risaliamo sul pullman, troviamo ancora il tempo di sorridere di fronte ad una scritta ironica, tracciata sopra il muro da una mano misteriosa chissà quanto tempo fa: “I want my ball back. Thank you”.
In Palestina si sopravvive anche così. Anzi, forse solo così: ridendo.

6 agosto

Dopo la notte al check point si scende a sud, verso il villaggio musulmano di At Tuwani, non lontano da Hebron, 250 abitanti. Sta a metà tra i patriarchi e il futuro, con i muri a secco, gli olivi e le greggi inframmezzate da casupole di cemento armato.
Incontriamo Federica, volontaria dell'operazione Colomba, il corpo civile di internazionali per la pace dell'associazione Giovanni XXIII. Ci racconta del villaggio, seduti su cuscini davanti alla casupola degli internazionali, vicino a cui un'anziana, pelle rugosa e occhi vispi, tesse al telaio.
Qui non c'è acqua corrente. Solo il pozzo che d'estate secca. Solo cisterne d'acqua piovana e qui non piove. Né elettricità se non per quattro ore, a sera, da un generatore a gasolio: la garantisce una colletta di tutta la comunità, tanto per famiglia. Versano la loro quota anche gli internazionali, che quelli del villaggio chiamano “la famiglia degli stranieri”.
C'è invece una piccola clinica, su due piani, anche se per il secondo c'è l'ordine di demolizione da parte del governo israeliano. Una minuscola moschea, che ha ricevuto lo stesso ordine prima di essere costruita. La scuola (nella foto), che raccoglie dai villaggi intorno una settantina di bambini fino alle nostre scuole medie.
Ci sono i coloni, sulla collina di fronte, dove il deserto di roccia diventa improvvisamente coltivazione verdissima. Sono aggressivi.
Federica ci racconta che girano armati e spesso escono mascherati dal loro avamposto per spedizioni punitive. È capitato che agli agricoltori palestinesi abbiano inquinato la cisterna con polli avvelenati. Che abbiano buttato nei loro campi semi d'orzo bolliti nel fluorocetilene. Che gli mandino le pecore a mangiargli il raccolto. Che gli taglino gli ulivi. Che aggrediscano i bambini sulla strada per scuola con bastoni e catene. Tanto che dal 2005 una commissione della Knesset ha garantito loro una scorta armata israeliana. Che però spesso non arriva. Che dovrebbe camminare coi bimbi ma resta sull'auto, e costringe i bimbi a correrle dietro. Che qualche volta addirittura li minaccia.. Che talora è stata a sua volta aggredita dai coloni. (nella foto: avvelenamento di greggi ad At Tuwani)
C'è lo spazio per il pranzo, che ci offre la famiglia che ci ospita, per un giro per il villaggio, soprattutto per le domande. Da dove sgorgano la pazienza e l'incredibile dignità di queste persone?.
Federica risponde raccontando ciò che ha imparato da loro: l'affidamento ad Allah, il ringraziamento, la benedizione su tutto in ogni circostanza: “grazie a Dio”, “se Dio vuole”, Insc'Allah, “che le tue mani siano benedette” sono le frasi che queste persone semplici ripetono più spesso.
Chiudiamo così, con le mani dell'anziana che non hanno smesso di ordinare fili, una piccola quercia rugosa al suo telaio.
Da At Tuwani, 6 agosto, giorno della Trasfigurazione di Gesù di Nazareth. Chiedendo per questo popolo, perchè ce l'ha chiesto lui stesso, trasfigurazione di tutta questa sofferenza.
Popolo a cui mettiamo in bocca le parole di una ragazza ebrea di 28 anni, scritte a Westerbork, Olanda, prima della deportazione ad Auschwitz. Ha scritto Etty Hillesum: “Possiamo soffrire, ma non dobbiamo soccombere”.
Ultimo giorno 7 agosto
Quanto vale una settimana nella propria vita?
Una settimana come quella appena trascorsa vale quasi una vita intera. Troppi muri, troppe divisioni, troppa indifferenza, troppa sopportazione. In un parola sola: troppa paura. Paura dell'altro, paura delle idee, paura di essere attaccati, sopraffatti, esclusi.
In questa terra martoriata l'ultima “mazzata” la riceviamo su un marciapiedi, in piena Gerusalemme, incontrando due famiglie palestinesi che sono state evacuati dalle proprie case dall'esercito israeliano per “far posto” a coloni.
Una ragazzina ci mostra il braccio fasciato. Nella notte è entrata la polizia in casa, lei ha resistito tanto quanto può resistere una ragazzina di 14 anni, il poliziotto l'ha picchiata e buttata fuori dalla sua stanza e dalla sua casa. Le famiglie vivono ora sul marciapiedi di fronte alle loro abitazioni occupate. Dormono, mangiano, parlano, si vogliono bene su quel marciapiede. E tutto sembra non avere più senso, almeno per noi.
Così come sembra non avere senso l'ordine di demolizione, da parte del governo israeliano, di una piccola scuola in un villaggio beduino a poche centinaia di metri da una colonia israeliana. Una scuola edificata con il contributo di una ONG italiana (Vento di Terra) che è riuscita, nonostante l'incomprensibile divieto, a costruire un umile edificio “impastando” vecchi copertoni con argilla e acqua.
Nulla sembra avere senso in questa terra e da una settimana tento disperatamente di trovarne uno, ma non ci sono mai riuscito. Poi accade una cosa, forse un piccola intuizione.
È l'ultimo giorno e mi trovo di fronte alla Basilica del Santo Sepolcro (per gli ortodossi la Basilica della Resurrezione), e allora capisco.
Nulla di tutto ciò che ho visto ha un senso, ma solo se non lo guardo con gli occhi di Cristo. Ecco, forse la nostra fede è proprio questo: saper leggere la realtà con gli occhi di Cristo. E allora provo a leggerla questa realtà e Cristo mi sembra suggerire per l'ennesima volta: “Non giudicare, sii testimone della passione di questo popolo, sia esso palestinese o israeliano, ma sii testimone anche della sua resurrezione”
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Ora vedo buio, anzi vedo solo un muro grigio alto nove metri e più lo guardo più mi atterrisce perché mi sembra quasi che, paradossalmente, anziché separare due popoli li accomuni entrambi in una spirale di sofferenza quasi complementare. Un popolo palestinese dignitoso e paziente, ma senza libertà e un popolo israeliano forte e deciso, ma senza umanità.
Ma quando...quando...questa terra diventerà finalmente una “tomba vuota”, testimone cioè della propria resurrezione? Non lo so, ma so qual è la strada. Me l'hanno indicata tutti i volti incontrati in questi giorni che ci hanno chiesto di fare sempre e comunque una cosa. Pregare.
Pregare perché la nostra vita diventi ciò che Fr. Roger di Taizé chiamava un alternarsi di lotta e contemplazione, perché non c'è lotta giusta senza preghiera e non c'è preghiera efficace senza l'azione.
E a voi che leggete quest'ultimo report vi diciamo tutti: non abbiate paura, venite a “vivere” la Terra Santa. Non abbiate paura.


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(nelle immagini: il muro a Qalqilya, la fuga dai villaggi nel 1948 e il mare di Tiberiade)




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