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06/09/2010

Birmania, la farsa delle elezioni
di Alessandro Ursic

Il regime si prepara al voto del 7 novembre senza lasciare nulla al caso, con un risultato scontato

Dopo oltre vent'anni, il 7 novembre la Birmania tornerà quindi al voto. Ma l'ultima tappa della "road map verso la democrazia", come il regime ha chiamato il suo programma pluriennale, non riscalda gli animi in patria e tra i vari gruppi della diaspora. Anzi: con tutte le restrizioni e gli ostacoli posti dalla giunta militare, sembrano ormai esserci pochi dubbi sul fatto che le elezioni saranno poco più di una farsa organizzata per dare l'illusione di un cambiamento, mentre in realtà le redini del Paese rimarranno in mano alla stessa struttura di potere.


Nonostante un intero sistema organizzato per garantire una vittoria - il 25 percento di seggi parlamentari garantiti ai militari, senza contare le enormi risorse economiche a disposizione del partito del regime - la giunta non ha lasciato niente al caso, nel fissare le regole del gioco. Aung San Suu Kyi sarà tenuta prigioniera durante tutto questo periodo: già esclusa dal voto per il suo essere vedova di uno straniero e poi condannata ad altri 18 mesi di arresti domiciliari per aver ospitato un intruso americano, dovrebbe tornare in libertà una settimana dopo il voto. Per presentare candidati, secondo le nuove norme elettorali, la sua Lega nazionale per la democrazia (Nld) avrebbe dovuto espellere il premio Nobel per la Pace: ha scelto di boicottare il voto, andando coscientemente incontro allo scioglimento forzato. I dissidenti del movimento hanno formato un nuovo partito, la Forza democratica nazionale (Ndf), il cui seguito è però tutto da verificare.

Annunciando la data del voto lo scorso 13 agosto, il regime ha anche fissato una finestra di due settimane - da subito - per la registrazione dei candidati. Se lo scopo era restringere la rosa delle candidature (ognuna delle quali costava 500 dollari, sette volte tanto lo stipendio mensile medio in Birmania), è stato raggiunto: un'opposizione frammentata e perennemente a corto di fondi, oltre a essere divisa lungo linee etniche, non riuscirà ad andare (cumulativamente) oltre i 500 candidati nelle liste dei 1.162 seggi in palio, tra le due camere del Parlamento e quelle regionali.

Il "Partito unione solidarieta' e sviluppo" (Usdp), nel quale sono confluiti vari ex generali e che raccoglie l'enorme base  dell'associazione civica Usda, non ha avuto invece problemi nel candidare i suoi uomini in ogni singolo seggio. In molte circoscrizioni, quindi, il candidato del regime sarà vincitore senza neanche votare. "Per conoscere i risultati del voto, non servirà aspettare il 7 novembre", confida a PeaceReporter un ricercatore di un'associazione che dalla Thailandia monitora gli abusi dei diritti umani in Birmania. "Basterà vedere la lista finale dei candidati per seggio, e già si potrà capire la composizione del Parlamento". 

Per i 42 partiti ammessi al voto, tra l'altro, gli ostacoli non finiscono qui. In campagna elettorale vige il divieto di scendere in piazza, cantare slogan e tenere qualsiasi discorso che ''infanghi l'immagine del Paese''. Qualsiasi tipo di uscita in pubblico va autorizzata con largo anticipo. La stampa, ovviamente, è controllata in modo ferreo, e oltre 2.000 prigionieri politici rimangono in carcere. Senza osservatori elettorali ammessi nel Paese, anche nel caso qualcosa dovesse andare storto, nessuno potrà controllare eventuali brogli per ritoccare i numeri.

La vittoria schiacciante del partito del regime, insomma, non è in discussione. Resta però da capire quale sarà l'assetto del potere nel dopo-elezioni. Un piccolo giallo si è aperto nei giorni scorsi, dopo che il sito Irrawaddy ha rivelato un rimpasto ai vertici della giunta, che avrebbe portato alle dimissioni di una decina di generali tra cui il "generalissimo" Than Shwe, 77 anni, numero uno del regime dal 1992. Senza riferirsi direttamente all'indiscrezione, qualche giorno dopo la stampa statale ha però chiamato Than Shwe con il nome per esteso della sua carica all'interno della giunta, suggerendo quindi che lo status quo non è cambiato.

Una progressiva uscita di scena della vecchia guardia è comunque inevitabile. Resta da capire se sarà per questioni di età o solo di forma: una scuola di pensiero crede che Than Shwe smetterà l'uniforme solo per poter così essere eletto presidente, mentre altri propendono per una pensione dorata, dopo essersi cautelato piazzando i suoi fedelissimi a sua protezione. "Non è ancora chiaro quali siano le sue reali intenzioni", spiega a PeaceReporter Benedict Rogers, autore di una biografia di Than Shwe, "ma credo che cercherà di mantenere parte del suo potere, da presidente o con un ruolo dietro le quinte come fecero Ne Win fece in Birmania, o Deng Xiaoping in Cina, nei loro ultimi giorni". Se le elezioni andranno come tutti prevedono, non sarà certo un nuovo governo a ostacolare la sua decisione.

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