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10 agosto 2010

Verso un accordo sul clima?
Analisi di Laure Pichegru e Terna Gyuse
e con il contributo di Isaiah Esipisu, da Nairobi.

JOHANNESBURG, 10 agosto 2010 (IPS) - Dopo le conclusioni di un nuovo round di negoziati per un trattato mondiale sul cambiamento climatico, gli attivisti chiamano le parti in causa a dimostrare un vero spirito di impegno e a fare offerte, più che richieste.

La segretaria esecutiva della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), Christiana Figueres, assicura che nell’incontro tenutosi la settimana scorsa a Bonn, in Germania, ci sono stati dei progressi.

“È chiaro a tutti che è difficile cucinare qualcosa senza avere le pentole. Adesso i governi cominciano a parlare di fare le pentole”, ha affermato.

La pentola malridotta del Protocollo di Kyoto, unico strumento mondiale contro il cambio climatico, è stata rinsaldata in un nuovo testo. In vista della prossima conferenza delle parti della Convenzione, prevista per fine anno in Messico, i negoziatori vedranno se funzionerà.

“La scorsa settimana i governi hanno avuto un’ultima opportunità di chiarire le loro singole posizioni”, ha detto Figueres. “Tianjin dovrà essere il luogo in cui specificare quale sarà la posizione comune”. I negoziatori si incontreranno il prossimo ottobre in questa città nordoccidentale della Cina.

“Le parti stanno rivedendo il testo ma sanno che non sarà facile farlo approvare”, ha avvertito Mohammed Adow di Christian Aid, organizzazione membro della Climate Action Network (CAN), che riunisce oltre 360 Ong per lo sviluppo e l’ambiente provenienti da 85 paesi. “Nei prossimi negoziati dovremo recuperare lo spirito di impegno”.

La nuova bozza, presentata a giugno dalla presidente del gruppo di lavoro sulla cooperazione a lungo termine (AWG-LCA), Margaret Mukahanana-Sangarwe, ha suscitato le forti critiche delle organizzazioni della società civile, in quanto implicitamente suggerirebbe ancora una volta di sostituire il Protocollo di Kyoto con un nuovo accordo, nel quale gli obblighi di mitigare gli effetti del cambio climatico per i paesi sviluppati e per quelli in via di sviluppo sono quasi identici.

“L’Africa è stata molto esigente nel chiedere di mantenere il Protocollo di Kyoto, visto che finora rimane l’unico accordo internazionale che obbliga i paesi industrializzati ad intraprendere azioni concrete per il cambiamento climatico”, ha detto Mithika Mwenda all’IPS.

Mwneda è il coordinatore dell’Alleanza pan-africana per la giustizia climatica, uno dei gruppi organizzatori del forum pubblico tenutosi il giorno prima del vertice dell’Unione Africana di metà luglio a Kampala. Il forum ha chiesto ai governi di lavorare “per la giustizia climatica e per una soluzione al cambiamento climatico che garantisca sicurezza per l’Africa, assicuri il nostro sviluppo e tuteli i nostri diritti umani fondamentali”.

Mantenere in fase di stallo i negoziati internazionali sulla mitigazione delle emissioni è un rischio per tutti i paesi. Forse una questione più urgente per l’Africa per garantire risultati concreti è il Piano d’azione di Bali, che sollecita iniziative immediate di adattamento agli effetti del cambiamento climatico.

I negoziatori a Bonn si sono detti ottimisti sul fatto che in Messico si potranno garantire impegni concreti per l’attuazione del Piano di Bali.

Alcuni paesi “potrebbero accettare di intraprendere azioni responsabili, come per esempio amministrare e stanziare fondi per il clima, promuovere il trasferimento di tecnologie, costruire capacità per l’adattamento climatico, in particolare nei paesi più poveri e vulnerabili”, osserva Figueres.

Ma per assicurare un aiuto generoso dal Nord, l’Africa deve avere una strategia comune, ben articolata ed efficace nei negoziati.

I negoziatori africani non sono riusciti a restare uniti nei colloqui sul clima. Mwenda ha spiegato che il governo del Sudafrica lavorava contro gli interessi degli altri paesi del continente.

“Anche se la priorità dell’Africa è l’adattamento, e questo per la vulnerabilità e le scarse capacità della maggior parte dei paesi della regione, il Sudafrica si è sempre differenziato rispetto agli altri paesi africani insistendo sul dare priorità alla mitigazione climatica”, ha detto.

Forse è logico, considerando che il Sudafrica è al dodicesimo posto tra i principali responsabili al mondo delle emissioni di anidride carbonica, mentre tutti gli altri paesi dell’Africa sub-sahariana contribuiscono con appena il 4 per cento alle emissioni globali di gas serra.

“Il Sudafrica dipende molto dal carbone e ha bisogno di approvvigionamenti di energia per assicurarsi la crescita economica”, sostiene Jean-Christophe Hoste, ricercatore dell’Egmont Institute, in Belgio.

La vulnerabilità agli affetti del cambio climatico varia di regione in regione e di paese in paese, spiega Belynda Petrie, direttrice esecutiva del OneWorld Group, un’resa di ricerca e consulenza che sta realizzando tra le altre cose un programma in cinque anni per capire come difendere la capacità di sostentamento degli abitanti dell’Africa meridionale dal riscaldamento del pianeta.

“Alcune regioni o paesi soffrono già più di altri per la scarsità di acqua, e questo significa concentrarsi su progetti di adattamento che puntino sull’immagazzinaggio e le infrastrutture per gestire le inondazioni, ad esempio”, dice Petrie.

Secondo le previsioni sull’impatto del cambiamento climatico, si preannunciano gravi danni alla produttività agricola in tutto il continente, laddove la sopravvivenza della popolazione dipende dalle coltivazioni. Il Sudafrica non è immune a questi rischi, ma la sua economia più diversificata lo rende meno vulnerabile a una crisi agricola rispetto, ad esempio, al Burkina Faso o all’Etiopia.

Le preoccupazioni dell’economia più forte del continente si avvicinano di più a quelle delle economie emergenti come India e Cina, che sono riluttanti ad accettare qualsiasi limitazione esterna alle proprie emissioni di gas serra mentre perseguono lo sviluppo industriale.

D’altra parte, Petrie, di OneWorld Group, spiega che molti paesi africani non hanno le capacità né le competenze necessarie per avanzare le loro proposte formali davanti alla Convenzione UNFCCC, lasciando che pochi mantengano la leadership. Perciò, i bisogni differenziati dell’Africa non vengono espressi in modo adeguato, e nell’ambito dei negoziati emergono le divisioni.

Per esempio, rispetto alla scadenza fissata in agosto per la domanda di finanziamenti al Fondo per i paesi meno sviluppati della UNFCCC, molti dei paesi più vulnerabili dell’Africa possiedono i requisiti necessari, ma ben pochi parteciperanno, secondo Petrie.

“Il risultato, ad esempio sui fondi per il clima, è che i paesi lamentano che i meccanismi di finanziamento e gli accordi istituzionali sono onerosi, limitando l’accesso ai fondi. Ma questi stessi paesi non hanno mai sfruttato le possibilità che avevano di avanzare proposte per contribuire a correggere questi problemi, peraltro ampiamente condivisi”.

Da parte sua, Hoste ha affermato che i paesi africani non riusciranno mai a raggiungere né a mantenere una posizione comune nei colloqui internazionali sul cambiamento climatico, finché non si risolveranno le loro enormi differenze economiche e di sviluppo.

“Hanno adottato una posizione comune a Copenhaguen (alla 15° conferenza delle parti del 2009), che però è crollata non appena si è parlato di agevolazioni economiche”, ha sottolineato.

Mithika Mwenda è più ottimista: “gli africani danno molto valore all’appello per una posizione unitaria, e non ho dubbi che il continente si presenterà in Messico come una regione più organizzata di prima”.

A suo parere, è necessario vigilare: “Media e società civile dovrebbero impegnarsi di più per seguire e monitorare il governo facendo pressioni per fare in modo di non abbandonare la strada della collettività attratti dai profitti a breve termine”. © IPS

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